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lunedì 17 febbraio 2020

Nei paesi vuoti con Mauro Daltin, non solo per nostalgia

Non è un esercizio di nostalgia. Tutt'altro. Possiamo partire dai Paesi Vuoti per dare vita a una teoria utile a tempi presenti così sfilacciati.

Così comincia Mauro Daltin prima di accompagnarci in un viaggio nella geografia dell'abbandono, dove ciò che era non c'è più e rischia di non rimanere nemmeno come ricordo. Perché il passato a volte non ha nemmeno la forza di reclamare attenzione, eppure questa è una storia che ci riguarda. 

 La teoria dei paesi vuoti (Ediciclo editore) è  molte cose insieme, dentro c'è storia e memoir, antropologia e riflessione sulla contemporaneità, narrativa di viaggio e poesia, sì, anche poesia, perchè c'è un sentimento poetico che certi luoghi che non sono più riescono ancora a destare.

Quanto alla tassonomia dell'abbandono, è  certo più vasta di quanto ci venga solitamente da considerare: paesi in cui l'orologio si è fermato nell'istante di un terremoto o di una frana; paesi svuotati da una scelleratezza speculativa o da una follia urbanistica; paesi sommersi dai bacini artificiali, costruiti magari per portare altrove energia elettrica; paesi che semplicemente non hanno più avuto una ragione di esistere, dopo che le miniere si sono esaurite o la corsa all'oro per cui erano nate si è rivelata una pia illusione.

 Non solo sulla nostra montagna, poi, perchè ci sono anche le storie di altri continenti, dal Quebec all'Argentina, fino al Giappone dello tsunami. E quante storie in ognuna di queste comunità svanite. Quante voci che ancora si possono percepire - parlano ancora le case abbandonate, parlano sempre - se solo si è capaci di tendere l'orecchio. 

E Mauro Daltin, che del terremoto è figlio (era nella pancia della mamma la terribile notte del Friuli), l'orecchio lo sa tendere bene. Per assicurare ancora diritto di parola a quelle voci.

giovedì 17 ottobre 2019

Il maratoneta giapponese che impiegò 54 anni per il traguardo

Quando sarai in gara non fissarti sui tuoi avversari. Riporta alla mente le tue corse sotto la neve, tra i boschi della tua isola, gli allenamenti mattutini nel parco dell'università e il piacere che ne hai provato, la sensazione di libertà.

Shizo vive in Giappone, all'inizio del Novecento, quando il Giappone è davvero un mondo a parte. Un giorno ha scoperto la corsa e non si è più fermato, non  perché deve arrivare da qualche parte, ma perché la corsa può essere come un haiku, come una calligrafia: scava dentro, prende il cuore, allarga la vita. 

Solo che a forza di allenarsi diventa il più bravo: potrà correre la maratona alle Olimpiadi di Stoccolma del 1912, la prima a cui il Giappone partecipa. Su di lui si ripongono grandi speranze, lo stesso imperatore lo accompagna con i suoi saluti e i suoi auspici. Ma il giorno della gara Shizo non arriverà mai a tagliare il traguardo: si fermerà sette chilometri prima e per avere una seconda chance dovrà passare quasi una vita intera, passando attraverso la vergogna e il riscatto. Nessuna maratona sarà lunga come la sua, perchè per arrivare al traguardo, finalmente, impiegherà 54 anni, 8 mesi, 6 giorni, 5 ore, 32 minuti, 20 secondi. 

In mezzo una vita appartata, per cercare pace e riconciliazione con se stessi nel ritmo delle stagioni. Una vita da guardiano della collina dei ciliegi, che è anche il titolo di questo bel libro di Franco Faggiani (Fazi editore). Un romanzo che prende spunto da una storia vera e cerca l'incanto della vita, meravigliosa e fragile come i fiori di ciliegi. 


lunedì 7 ottobre 2019

Nel Giappone che era l'isola delle libellule

Ci sono libri stravaganti, obliqui, apparentemente casuali, che portano con sè il dono della sorpresa, come se proprio questo fosse il loro segreto, non la visione di insieme ma il dettaglio, non la sfida che conta ma il farsi da parte. Libri che vanno dritti al cuore proprio perché sembrano non avere un bersaglio e se ce l'hanno è bello mancarlo. 


Quasi sempre sono libri su interessi eccentrici, passioni ampiamente minoritarie, vocazioni inspiegabili. L'arte di collezionare mosche di Fredrik Sjöberg ne è un esempio. E sarà che gli insetti - comunque la vita minuscola che popola il nostro grande pianeta - in questo funziona piuttosto bene. Ma ora è senz'altro in buona compagnia, grazie a un testo di Lafcadio Hearn recuperato e riproposto da Exòrma. Un altro piccolo grande libro di questa casa editrice, fantastico già nel titolo: Le farfalle danzano e le formiche si ingegnano.

Già di per sé Lafcadio Hearn ha vissuto una vita così particolare da meritare un romanzo (se è già stato scritto, ditemelo, vorrei metterci le mani sopra quanto prima): una di quelle storie che sembrano fatte apposta per spiazzare e incuriosire. Pensate, il figlio di un irlandese e di una greca che finisce nell'Ohio e quindi in un Giappone ancora impermeabile agli occidentali. E lì si sposa e vive immergendosi in quella cultura misteriosa e affascinante. Giapponese quanto un haiku, diranno di lui gli stessi giapponesi.

Lafcadio Hearn era anche un grande appassionato di insetti: e a testimoniarlo sono proprio queste pagine, che sembrano scritte da un monaco buddista piuttosto che da un entomologo occientale. 

Incredibile quante cose ci sono, dentro questo volumetto. Per esempo le farfalle, che sono trattate con la massima gentilezza quando entrano in una casa: prendono la loro forma le anime dei moribondi prima della definitiva separazione. Così si dice ed è solo una delle storie che sarebbe bello ascoltare in una notte di luna piena.

Per non parlare delle lucciole e delle formiche, delle zanzare - persino loro non disturbano tra queste pagine - e delle libellule - non sapevo che uno degli antichi nomi del Giappone fosse Alitsushima, l'isola delle libellule.

Affabulazione, meraviglia, eleganza: cosa di più?

venerdì 7 luglio 2017

Giappone, in questo mondo, un altro pianeta

E' nei luoghi di cui ignoravi perfino l'esistenza che finisci per essere più felice.

Così afferma Cees Nooteboom, grande viaggiatore, grande scrittore. E il Giappone, certo, non è un paese di cui ignorava l'esistenza, piuttosto è un paese che a lungo ha frequentato nei libri dei suoi scrittori, a partire dall'immenso Kawabata. Ma appunto, una cosa è il paese letterario, una cosa è il paese vero: e cosa c'è di più spiazzante, enigmatico, impermeabile del Giappone, anche del Giappone dei nostri tempi?

In Cerchi infiniti (Iperborea) sono raccolti saggi e reportage che Nooteboom ha dedicato al Giappone: e non si parla solo di viaggi, ma di tutti gli incontri, anche a distanza, con questo incredibile paese: comprese una mostra in Europa di Hokusai oppure un'attenta rilettura di quell'incredibile romanzo che è La storia di Genji.

Quali umori, quali sentimenti, da queste pagine? Senz'altro l'incanto per la bellezza che in Giappone si nasconde e si rivela nei modi e nei luoghi più inattesi, anche laddove l'idea stessa di bellezza pare travolta dal cememto, dall'asfalto, dai numeri da capogiro delle metropoli.

E poi? Poi c'è altro, soprattutto a partire dal secondo viaggio, quando la sorpresa incalza meno e dentro si fa largo lo spazio per la riflessione. Prevale il senso di esclusione, la sensazione di un mondo a parte rispetto al quale sarai sempre un estraneo: trattato con gentilezza, ma di fatto invisibile. Incompreso e incapace davvero di comprendere. Figurarsi, in un paese dove la stessa lingua è un problema insormontabile e i trasporti pubblici, ancorché inappuntabili, sono un supplizio per l'europeo che deve scegliere e orientarsi.

Può succedere, anche in altri posti del mondo: ma che cosa incredibile che avvenga proprio nel Giappone dei grattacieli, dei treni superveloci, degli immensi centri commerciali. Il nostro mondo e allo stesso tempo un altro pianeta.

Un altro pianeta da cui comunque Nooteboom si sente irrimediabilmente attratto. Si faccia pellegrino come gli antici monaci buddisti o contempli un giardino dove ciò che non c'è è più importante di ciò che c'è.

Se mai potessi avere un'altra vita, dovrebbe essere in un paese con una scrittura diversa.

Così afferma a un certo punto Nooteboom. Frase rivelatrice. Frase che vale per il Giappone, ma che forse va alla radice di ogni viaggio in luoghi distanti non solo per la geografia: luoghi che sono arene dove si combattono il desiderio di appartenenza e l'estraneità.

giovedì 7 aprile 2016

Quelle statuine che raccontano la storia di una famiglia

Le eredità non sono mai banali. Che cosa viene ricordato e cosa dimenticato, nel passaggio? L'oblio può perpetuarsi, i possessori d'un tempo esser via via cancellati, ma può verificarsi l'opposto, una lenta accumulazione di storie. Che cosa mi viene tramandato insieme a questi piccoli oggetti giapponesi?

Può succedere: viene a mancare un parente più o meno lontano, vi ritrovate in casa un oggetto o più oggetti che prima forse non avevate mai visto, o avevate guardato solo con sufficienza e distrazione. Cose che erano mute e che ora cominciano in qualche modo a parlarvi. C'è perlomeno una vita, quella del parente defunto, che in qualche modo viene richiamata. Ma cos'altro c'è dietro?

Figurarsi se non è solo un oggetto che arriva nelle vostre mani, ma un'incredibile collezione di antiche statuine giapponesi, non più grandi di una scatola di fiammiferi, raffiguranti divinità, animali, personaggi di ogni tipo. Figurarsi se attraverso di esse si può ripercorrere la storia non solo di un vecchio eccentrico zio che ha vissuto in un altro paese, ma le vicende di un'intera famiglia.

E' quello che viene splendidamente raccontato in Un'eredità di avorio e ambra di Edmund de Waal (Bollati Boringhieri), libro straordinario, le cui 400 pagine ho divorato nel corso di un viaggio - andata e ritorno - tra Firenze e Bari. Pensare che qualche mio conoscente l'aveva trovato un po' faticoso, forse prolisso....

Niente di tutto questo. Verrebbe da dire che questa è una saga famigliare come solo i grandi romanzi. Generazione dopo generazione, in effetti, si srotola la storia della famiglia Ephrussi, ebrei di Odessa che con il commercio di cereali sono diventati tra i più potenti banchieri d'Europa. Formidabile l'ascesa: favolose residenze a Parigi e Vienna, il titolo di baroni, la migliore arte dell'Ottocento, Degas e Renoir compresi, che entra nei loro salotti. Affari, mecenatisimo e conversazioni con Proust. Formidabile l'ascesa e spaventosa la caduta, con Hitler e le leggi razziali.

Anche solo per questo un libro da raccomandare. Eppure al centro della vicenda, vera spina dorsale della narrazione, non sono le vite degli Ephrussi, ma quelle statuine giapponesi, che passano di mano in mano, cambiano città e collocazione, accumulano ricordi.

Io - dice nelle prime pagine l'autore - voglio scoprire quale rapporto ha legato questo oggetto di legno che mi sto rigirando tra le dita - duro, semplice solo all'apparenza, giapponese - ai luoghi che ha attraversato.

Anche questo un viaggio. E un viaggio, davvero, con occhi nuovi.

martedì 15 marzo 2016

Siamo stati via: storia giapponese nell'America dopo Pearl Harbour

Ogni tanto si fermavano per chiedere a nostra madre dove eravamo stati. "E' da un pezzo che non si vi si vede", potevano dire, oppure: "Sono passati secoli" - e lei alzava la testa e rispondeva solo "Oh, siamo stati via".

Siamo stati via: forse è proprio questo il vero titolo di un romanzo breve per pagine, straordinario per intensità quale Quando l'imperatore era un dio di Julie Otsuka (Bollati Boringhieri). Per me non una sorpresa solo perché di questa autrice avevo già letto lo splendido Venivamo tutte per mare, di cui ora questo libro rappresenta il seguito ideale.

Insomma avevo già incontrato le giovani donne giapponesi che avevano lasciato le loro case e attraversato il Pacifico per sposare uomini che nemmeno conoscevano - matrimoni per procura e per interesse - in un'America che non era solo un altro continente, era un altro mondo. La loro voce collettiva, forte e vibrante, è ora sostituita da una prima persona dalla parola dolce, sommessa, segnata dal ricordo. Ed è attraverso questa parola che si racconta cosa successe a una di quelle donne - e a tutti i giapponesi di America - dopo Pearl Harbour.

Con la guerra quegli immigrati e quei figli di immigrati divennero anche i nemici sotto casa. Ogni certezza andò giù come un castello di carta. Il loro destino fu la deportazione. Anni senza lavoro, lontani da casa e dagli affetti. Anni in cui furono a tutti gli effetti cancellati dalla vita del loro paese.

Una pagine triste della storia americana. Eppure raccontata con una singolare delicatezza, con una sensibilità orientale mescolata alla lezione della narrativa americana.

Sobrietà e dolcezza. E la forza dei legami familiari, la tenacia delle madri, la capacità di meraviglia dei bambini, oltre tutto, anche oltre l'indifferenza di chi sapeva, doveva sapere. 

domenica 10 gennaio 2016

Philip K. Dick e la guerra vinta dai nazisti

Mettete che il presidente Roosevelt sia uscito di scena assai prima di Pearl Harbour e che a succedergli siano stati presidenti incapaci di tenere testa Hitler. Mettete che Rommel non abbia perso la campagna di Africa, che a Stalingrado non sia andata come è andata e che nella guerra del Pacifico si siano imposti i giapponesi. Mettete tutto questo e tuffatevi nelle pagine de La svastica sul sole di Philip K. Dick (Fanucci editore), libro che ho colpevolmente ignorato per tanti anni, forse catalogandolo come letteratura di genere, roba da consumatori voraci di fantascienza.

Perché poi fantascienza? Anche se i tedeschi, nuovi signori del mondo, oltre a risolvere il "problema slavo", oltre a cancellare i popoli dell'Africa, hanno già trovato il modo di organizzare spedizioni per la colonizzazione di altri pianeti, questa non è fantascienza, casomai fantastoria, meglio ancora ucronia: un'altra possibilità della storia, tra le tante.

Ma no, non è nemmeno questo. Forse temevo di trovarmi dentro un film americano di serie B. Tipo gli ultimi patrioti americani che lottano contro il gigante del male e tengono accesa la fiamma della speranza, rendendo possibile l'impossibile. Libro tutto d'azione, potenza di fuoco e morti a grappoli.

In queste pagine, invece, morti non ce ne sono. Ce ne sono stati fin troppo prima. Ma sono ormai passati diversi anni dalla fine della guerra, i tedeschi hanno in pugno il mondo, il controllo dell'America semmai è conteso con i giapponesi, ma non c'è niente di simile a una resistenza. Piuttosto si tratta di adeguarsi a ciò che di pretende da un popolo sottomesso.

C'è solo una verità alternativa, che non è una verità, ma un sogno contenuto in un libro proibito, che racconta ciò che non è successo: dice che alla fine i nazisti hanno perso la guerra con gli americani.... E' possibile sognare? E' possibile che la narrazione possa riscrivere la realtà?

E così questo libro - che avevo preso così sottogamba - diventa anche una formidabile occasione di riflessione sul potere dei libri. 

domenica 11 gennaio 2015

A venire improvvisamente viste come il nemico


Da un giorno all'altro, i nostri vicini cominciarono a guardarci in modo diverso. 

Forse era la bambina che non ci salutava più dalla finestra della fattoria in fondo alla strada. O forse i clienti di vecchia data che scomparivano all'improvviso dai nostri ristoranti e negozi. Oppure la nostra padrona, la signora Trimble, che un mattino ci prese in disparte mentre passavamo lo straccio in cucina e ci sussurrò all'orecchio: "Tu sapevi che stava per scoppiare la guerra?"

Le signore del club cominciarono a boicottare le nostre bancarelle di frutta, perché temevano che la merce fosse avvelenata con l'arsenico. Le assicurazioni ci cancellarono la polizza. Le banche ci congelarono il conto. I lattai smisero di consegnarci il latte a domicilio.  "Ordini dell'azienda" ci spiegò un lattaio sull'orlo delle lacrime. 

I bambini ci lanciavano un'occhiata e scappavano come cervi spaventai. Le vecchiette, quando incrociavano i nostri mariti, si bloccavano sul marciapiede con la borsa stretta al petto e gridavano: "Sono arrivati!". 

E anche se i nostri mariti ci avevano avvisati - "Hanno paura" - non eravamo comunque pronte. A venire improvvisamente viste come il nemico.

(da Julie Otsuka, Venivamo tutte per mare, Bollati Boringhieri)

mercoledì 7 gennaio 2015

Dal Giappone all'America, le donne arrivate dal mare

Ma sono solo dicerie, non è detto che siano vere. Sappiamo solo che i giapponesi sono da qualche parte là fuori, in un posto o nell'altro, e probabilmente non li incontreremo mai più in questo mondo.

Si conclude con questa voce, che non è più quella delle ragazze giapponesi che varcarono il Pacifico per cominciare una nuova vita in America, lo straordinario Venivamo per mare di Julie Otsuka (Bollati Boringhieri), uno dei libri più belli che mi sono capitati negli ultimi tempi. Si conclude con questa voce impastata di garbata rassegnazione, la voce di un'America che intende mettersi in pace con la propria coscienza, facendosi una ragione della sorte dei vicini di casa che da un giorno all'altro sparirono, rimossi e cacciati come il più subdolo dei nemici.

Però prima era loro la voce. La voce delle giovani donne "spose in fotografia", in viaggio dai villaggi del Giappone fino al porto di San Francisco, sbarcate in un mondo che era un altro pianeta, all'inizio del Novecento. Destino di mogli deciso a distanza, che sul ponte di una nave si sono scambiate speranze e fotografie. La voce di immigrate in una terra straniera in cui quasi niente andrà secondo le attese, con mariti dispotici e assenti, lavori umilianti, parole sottratte da una lingua incomprensibile.

Eppure anche figli che saranno messi al mondo, abitazioni per le quali si conquisterà decoro e persino qualche agio, gente che finalmente comincerà ad accorgersi di loro, fosse solo per scambiare un saluto per strada.

Fino al disastro di Pearl Harbour e alla decisione del governo americano di considerare tutti i cittadini americani di origine giapponese un pericolo, potenziali nemici da neutralizzare subito. Un taglio chirurgico e via: un mondo nel mondo di tutti i giorni amputato e nascosto in campi di detenzione.

Voce, anzi voci, perché il miracolo di questo libro costruito sulle storie vere, su tante testimonianze, è proprio questo. Questa voce - lirica e autentica - impastata di molte voci. Questa prima persona plurale, questo noi in cui è declinata l'intera storia. Questa storia che in realtà sono le storie. Questo noi costruito pezzo a pezzo con le storie di ciascuno.

Da leggere assolutamente, anche per riflettere su altre amputazioni della nostra storia.

lunedì 1 dicembre 2014

Come pedine nella scacchiera di un'altra Cina

In Piazza dei Mille Venti si gioca sempre a go, nonostante il freddo che leva il fiato. I giocatori coperti di brina sembrano pupazzi di neve, mentre le scacchiere di granito, con tutte le partite che hanno accolto, non si sono solo consumate: sono diventate visi, pensieri, preghiere.

E' questa la prima immagine di un libro sorprendente, distillato di parole ed emozioni che ci porta nella Manciuria occupata dal Giappone. La giocatrice di go di Shan Sa (Bompiani) è un romanzo che in realtà è due romanzi, intreccio di due storie: lei la ragazza cinese che gioca a go, una vittoria dopo l'altra sotto lo sguardo diffidente e perplesso dei suoi connazionali; lui, il soldato dell'esercito imperiale che abbandona Tokio promettendo alla madre di scegliere la morte piuttosto che la vergogna.

Due persone che più distanti non si potrebbe immaginare: ma che gli eventi della Storia e le circostanze della vita avvicinano passo dopo passo, con la forza dell'ineluttabilità.

Sono loro, le pedine disposte nella scacchiera. Loro il bianco e il nero che mani invisibili muovono nel contesto di un gioco troppo grande e troppo crudele che mette di fronte due culture e due paesi in guerra.

Non ho più paura di nulla. Questa esistenza è solo una partita a go!

Un turbinio di eventi e di scelte che non sono scelte, fino al riconoscimento del destino che è al varco, fino all'accettazione di ciò che dovrà accadere.

E così arriva dalla Cina e mi prende di sorpresa una voce che mi porta lontano, alla ricerca di sintonie e corrispondenze. Fino in Argentina, fino al grande Borges, ai suoi scacchi, a quella scacchiera dove noi siamo i pezzi, mossi da giocatori che non sapremo mai riconoscere.

lunedì 27 ottobre 2014

Il poeta in carcere che scrive con l'acqua della ciotola

Ogni giorno scrive poesie sul pavimento di pietra, bagnando un dito nella ciotola dell'acqua che beve....

Come un antico poeta del Giappone, che sa che la bellezza è tanto più bella quanto è effimera. Perché ciò che conta è la creazione, non ciò che di essa rimane. Allo stesso modo dei fiori di ciliegio, i cui petali cadono subito. Bellezza che svanisce, bellezza che evapora, come quelle parole tracciate con l'acqua.

Tutto molto bello, ma non è la bellezza, almeno, non è solo la bellezza, che tutto questo richiama Liu Xiaobo: il poeta che scrive con i polpastrelli bagnati nella ciotola, perché non ha più carta e inchiostro. Perché quella ciotola d'acqua è l'unica cosa che in carcere gli rimane.

Liu Xiaobo, il poeta che hanno condannato al silenzio; il dissidente nella Cina che non ammette nemmeno l'idea del dissenso. Premio Nobel per la Pace, in una cerimonia in cui spiccava la sua poltrona vuota.

Liu Xiaobo, forse un imbarazzo per il regime, il giorno del Nobel. Oggi non più. Non fosse per qualche articolo - come qualche giorno fa quello di Giampaolo Visetti su Repubblica - appena un vago ricordo. Facilmente esorcizzato in Cina e anche fuori dalla Cina, da quel mondo che con la Cina ha smania di fare affari, figurarsi se ha tempo da perdere con quegli scocciatori degli attivisti dei diritti umani.

Vorrei che la bellezza delle parole scritte con le dita bagnate indugiasse tra noi. Vorrei che quelle parole resistessero anche dopo essere evaporate, solo per il fatto di esserci state per un istante. Vorrei che si trasformassero in grido di indignazione. Il nostro grido: ce la faremo?


lunedì 22 luglio 2013

Quando l'Oriente era il sogno delle Mille e una notte

Quando l'Oriente non era ancora la Cina o il Giappone ma, con l'occhio dell'europeo, il continente affacciato su un mare comune. Quando l'Oriente era ciò che rimaneva del potente impero ottomano, spoglie che si contendevano le cancellerie europee, eppure anche immensamente di più, destinazione per pochi e eccitazione esotica per molti. Quando l'Oriente prima ancora che un luogo era un desiderio e un'invenzione letteraria sospinta dai racconti delle Mille e una notte e i viaggiatori erano prima di tutto mercanti di sogni.

E' proprio in questo mondo sospeso tra il viaggio e il sogno che ci accompagna Attilio Brilli con il suo Il viaggio in Oriente (Il Mulino), libro importante, libro imperdibile per chiunque voglia coltivare il senso del cammino tra i luoghi e i tempi.

Brilli, si sa, è uno dei più autorevoli esperti di letteratura di viaggio che ci siano in giro. Ma questa opera, benché poderosa e corredata da tutto quello che ci vuole - note e ampia bibliografia - non è solo per gli studiosi. Leggerla è come tuffarsi in un oceano di storie, di vite, di emozioni.

I paesaggi inondati di sole e le ombre delle antiche città arabe. I muezzin e le odalische. Le voci dei suk e i silenzi degli harem. Le carovane che arrivano dal deserto e i mari solcati dai pirati. E per gli europei, un frullato di emozioni, aspettative, esperienze raccontate e dicerie: l'Oriente misterioso, l'Oriente che si fa moda e arte, l'Oriente erotico e dispotico, molle e crudele. E poi i viaggiatori che si fanno essi stessi mito, per appartenere alla nostra storia: da Lord Byron a Francois-Renè de Chateaubriand, solo per ricordare i primi che mi vengono in mente.

Vita e arte che si intreccia con quell'enigma che per noi è stato e forse è l'Oriente.

lunedì 15 ottobre 2012

La bellezza che è troppo del Padiglione d'Oro

Quando l'ideale non ti alza in volo niei cieli della vita ma piuttosto ti inchioda alla tua miseria.

Quando la bellezza non è un conforto ma, al contrario, un veleno che entra dentro e uccide a poco a poco.

Quando la stessa perfezione è una condanna, uno specchio che riflette quello che sei, senza indulgenza, inchiodandoti a quello che sei e soprattutto a quello che non sei...

Eccolo qui, il dramma che Yukio Mishima mette in scena, con la sua parola fredda come una lama da chirurgo... Un dramma che ci arriva dall'altro pianeta che è il Giappone e che pure appartiene a tutti noi, ci appartiene in quando uomini.

Ce lo sentiamo dentro, questo irrimediabile contrasto... e per questo, proprio per questo, ci porteremo a lungo il ricordo di questo monaco, svuotato, lacerato, irrisolto, deciso a trasformare la sua vita in una torcia accesa per incenerire quel Padiglione d'Oro che è troppo bello, troppo....

giovedì 7 giugno 2012

Nemmeno l'imperatore fa battere il ciglio a una stella

Nemmeno l'imperatore del Giappone, divinità in terra, nemmeno lui.

Leggo in Indro Montanelli, soltanto un giornalista, testimonianza di una vita resa a Tiziana Abate, la descrizione dell'ultimo Supremo Consiglio di Guerra con cui il Giappone fu chiamato a decidere sulla resa senza condizioni. Era il 9 agosto 1945, l'atomica era già deflagrata nel cielo di Hiroshima.

Per la prima volta nella storia del Supremo Consiglio un uomo - l'anziamo ammiraglio Suzuki - si rivolse all'imperatore Hirohito, sollecitandone il parere. Non si faceva, con un Dio in sembianze di uomo.

Pare che alla domanda abbia fatto seguito qualche minuto - minuto, non secondo - di incerto silenzio, misto a stupore. Poi Hirohito si alzò, prese da uno scaffale un libriccino di poesie appartenuto al nonno, cercò una pagina, lesse questi versi:


Guardate dunque il cielo
voi credete che la sorte di un uomo
anche il più potente
possa far battere il ciglio a una stella?

Non aveva parlato il Dio in terra, aveva parlato un uomo con la sua poesia. Solo quattro versi: e fu in quel momento che finì la guerra.

domenica 12 febbraio 2012

Una bambina italiana in un altro Giappone

Lo so che La nave per Kobe  di Dacia Maraini è un libro che può non piacere, che può perfino deludere qualcuno, che magari si aspettava un romanzo e invece si è scoperto a inoltrarsi nei territori delle memoria privata.

Ed è vero, dipende proprio da ciò che ci si aspetta. Io l'ho comprato quasi per caso, solo perché mi era cascato l'occhio sulla copertina mentre gironzolavo tra gli scaffali di una libreria amica. Ora però posso dire di aver fatto davvero un buon affare. 

Certe volte capita così, non devi tuffarti nella trama, ma abbandonarti al flusso delle parole, che sono prima di tutto ricordi di luoghi, persone, stagioni. La memoria può essere più affascinante di qualsiasi invenzione letteraria.

Dacia Maraini ritrova i diari compilati dalla mamma in Giappone, il paese in cui la sua famiglia decise di trasferirsi, lontano dall'Italia fascista. Diari privati, come dovrebbero sempre essere, chiaramente non pensati in vista di un qualsiasi lettore. Poche righe di tanto in tanto, senza nessun ordine, seguendo solo l'istinto o un'urgenza del cuore, più promemoria che altro.

Parole su cui si innestano i ricordi di Dacia bambina, ma anche le riflessioni della donna più matura, della scrittrice affermata. Non so dire bene cosa ne venga davvero fuori. Però è quasi come un film costruito con un montaggio nervoso e continui salti di tempo e di luogo.

Bella la storia di questa famiglia che prova ad allontanarsi dalla storia di un mondo che sta andando per il verso sbagliato, che dice no al fascismo e ai suoi tentativi di impero per andare in un posto che davvero sta su un altro pianeta.

E intrigante questo Giappone, paese enigmatico e gentile, prima delle devastazioni della guerra e le accelerazioni del dopoguerra.

E quante cose vengono in mente, tranne poi ricredersi e convincersi che poi niente di tutto questo è davvero importante, che è il Giappone ma potrebbe essere anche il paese di Heidi, che quello che conta qui dentro sono solo gli affetti di una famiglia e il lavorio del tempo che passa e tutto cambia.

mercoledì 30 novembre 2011

Se il Giappone non esistesse, bisognerebbe inventarlo

Ci sono posti che sono enigmi e allo stesso tempo luoghi dell'anima. Ci sono uomini che quegli enigmi sanno decifrare, magari col cuore più che con la testa, e che quei luoghi sanno anche abitare. Oggi mi sono imbattuto nel Giappone di Fosco Maraini, così come ne parla in una pagina dei suoi diari:

Il Giappone rende possibile una sociologia non euclidea, un'economia non euclidea, una cultura non euclidea. Il Giappone è una lezione di umiltà storica e nel contempo un potente radar focalizzato sugli intimi meccanismi dell'uomo e delle sue civiltà. Osservando attentamente il Giappone, impariamo non solo a conoscere una parte del mondo o una cultura a noi poco familiari, ma apprendiamo anche qualcosa su noi stessi.


I confronti mettono le ali allo sguardo; ci innalzano nello spazio e ci permettono di osservare il pianeta Terra da una nuova distanza, da una prospettiva che consente di osservare situazioni e posizioni attraverso lunghezze d'onda rivelatrici.


Se il Giappone non esistesse, bisognerebbe inventarlo urgentemente.

martedì 1 novembre 2011

Incredibile, le mucche sono mucche

Incredibile, capitare dalle parti della Polonia dei nostri tempi e scoprire lo stesso stupore verso la vita di un monaco buddista nel Giappone di secoli fa. Eppure succede così, con Wislawa Szymborska, poetessa che in genere non ama parlare di sè, ma che questa cosa dello stupore in qualche modo l'ha anche spiegata:


Il mondo, qualunque cosa noi ne pensiamo, spaventati dalla sua immensità e dalla nostra impotenza di fronte a esso, amareggiati dalla sua indifferenza... qualunque cosa noi pensiamo dei suoi spazi attraversati dalle radiazioni delle stelle.... - questo mondo è stupefacente

Due paesi - Il Giappone e la Polonia - due mondi e due lingue a me completamente ignote. Ma così come mi ricorderò sempre dello stupore del monaco giapponese di fronte alla rana che si getta nello stagno, mi rimarrà impressa la meraviglia di Wislawa di fronte ai miracoli della vita ordinaria. Uno su tutti:

Un miracolo alla buona:
le mucche sono mucche.

Perché tutto in realtà è miracolo:

Un miracolo, basta guardarsi intorno:
il mondo onnipresente.

Un miracolo supplementare, come ogni cosa:
l'inimmaginabile
è immaginabile.

mercoledì 31 agosto 2011

Quella bambina alla scoperta del Giappone

Immagino che La nave per Kobe di Dacia Maraini possa non piacere, che possa perfino deludere qualcuno, che magari si aspettava un romanzo e invece si è scoperto a inoltrarsi nei territori delle memoria privata.

Ed è vero, dipende proprio da ciò che ci si aspetta. Io l'ho comprato quasi per caso. Mi era cascato l'occhio sulla copertina mentre gironzolavo tra gli scaffali di una libreria amica. Ed è stato un buon affare. Mi sono regalato una lettura popolata di emozioni, pur senza forzature ed effetti speciali.

Certe volte capita proprio così. Non bisogna tuffarsi nella trama, ma piuttosto abbandonarsi al flusso delle parole, che sono prima di tutto ricordi di luoghi, persone, stagioni. E la memoria può essere più affascinante di qualsiasi invenzione letteraria.

Dacia Maraini ritrova i diari compilati dalla mamma in Giappone, il paese in cui la sua famiglia decise di trasferirsi, lontano dall'Italia fascista. Diari privati, come dovrebbero sempre essere, chiaramente non pensati in vista di un qualsiasi lettore. Poche righe di tanto in tanto, senza nessun ordine, seguendo solo l'istinto o un'urgenza del cuore, più promemoria che altro.

Parole su cui si innestano i ricordi di Dacia bambina, ma anche le riflessioni della donna più matura, della scrittrice affermata. Non so dire bene cosa ne venga davvero fuori. Però è quasi come un film costruito con un montaggio nervoso e continui salti di tempo e di luogo.

Bella la storia di questa famiglia che prova ad allontanarsi dalla storia di un mondo che sta andando per il verso sbagliato, che dice no al fascismo e ai suoi tentativi di impero per andare in un posto che davvero sta su un altro pianeta. E intrigante questo Giappone, paese enigmatico e gentile, prima delle devastazioni della guerra e le accelerazioni del dopoguerra.

E quante cose vengono in mente, tranne poi ricredersi e convincersi che poi niente di tutto questo è davvero importante, che è il Giappone ma potrebbe essere anche il paese di Heidi, che quello che conta qui dentro sono solo gli affetti di una famiglia e il lavorio del tempo che passa e tutto cambia.

domenica 28 agosto 2011

L'alba ai giapponesi, il tramonto agli europei

Il mondo è bello perché è vario, si sa, e la varietà sta anche nel modo in cui si percepisce il mondo. Emozioni, parole, rappresentazioni diverse, anche se ciò che abbiamo davanti è uguale. Sperimentare questa varietà, penso, è quanto di più bello ci possa toccare in sorte. E proprio questo mi è venuto in mente l'altro giorno, imbattendomi su questa pagina dei diari di Fosco Maraini:

In Giappone si segue molto da vicino il corso giornaliero del sole. Già la casa è fatta in modo che non è facile nascondersi al buio, una volta svanita la notte. I giapponesi sono grandi ammiratori dell'alba. L'arte, la letteratura, la poesia giapponesi sono intessute d'inni in colori e parole a questo momento di privilegio nella giornata degli uomini e delle cose.... Noi pensiamo di ammirare il tramonto perch'è bello, lo ammiriamo perché ci hanno insegnato ch'è bello. In Giappone, salvo certi studenti abbeveratisi al romanticismo occidentale, nessuno lo nota; anzi è considerato triste, di cattivo augurio

(da Dacia e Fosco Maraini, Il Gioco dell'universo, Mondadori)


Lo stesso sole, lo stesso ritmo delle albe e dei tramonti, due mondi diversi. 


mercoledì 11 maggio 2011

Ipazia e quel mistero che affonda nel cuore

C'era una donna allora ad Alessandria, il cui nome era Ipazia. Era figlia di Teone, filosofo della scuola di Alessandria, ed era arrivata a un tale vertice di sapienza da superare di gran lunga tutti i filosofi della sua cerchia

Così ci ha lasciato detto uno storico cristiano, Socrate Scolastico, e in fondo è poco meno di quanto sappiamo di Ipazia, donna che con la sua morte, prima ancora che con la sua vita, è diventata simbolo di molte cose. Donna che ha finito per rappresentare tutte le donne escluse e perseguitate, ma anche tutte le vittime dell'intolleranza e del fanatismo religioso. Lei, la pagana che nel quinto secolo dopo Cristo, nella metropoli della grande biblioteca, fu aggredita e massacrata da una schiera di monaci

Chi era davvero, Ipazia? Sacerdotessa o matematica? Eccentrica aristrocratica o raffinata filosofa? E perché fu uccisa?

A domande come queste ha provato a dare risposta una storica come Silvia Ronchey in Ipazia. La vera storia, un libro che è assai più bello del suo titolo, anzi del suo sottotitolo, decisamente fuorviante, perché questo è un libro che procede per sottrazione, che ripulisce le incrostazioni dei luoghi comuni, che mette in discussione i fatti assodati.

Il racconto di Ipazia allora diventa una sorta di Rashomon - vi ricordate la storia di quel delitto nel Giappone dei samurai, visto da diversi testimoni e da tutti raccontato in modo diverso?

E mentre si sgretolano le certezze di chi deve dare un senso a tutto, mentre ogni idea di piano o complotto convince meno della possibilità di un delitto mosso dall'oscurità umana di sempre - l'invidia che acceda, per esempio - ecco, sembra quasi di saperne di più sapendone in effetti di meno.

E di fronte a un assassinio per cui nessuno ha pagato - al contrario di quanto succede nei gialli - di fronte a questa vita che ci sfugge come sabbia tra le mani, con Silvia Ronchey possiamo condividere una sola convinzione:


Una cosa è certa: siamo e saremo sempre dalla parte di Ipazia

Che non è nemmeno poco.

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  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...