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sabato 28 febbraio 2015

E' la sola differenza tra i morti e coloro che sono partiti?

- Chi ti ha detto che avevo un fratello?
- Nessuno. Ho sentito che gli parlavi. Gli parli, e lui è ovunque e in nessun luogo, quindi è morto anche lui.

   Lucas dice: 

- No, non è morto. E' partito per una altro paese. Tornerà.
- Come Yasmine. Anche lei tornerà.
- Sì, è la stessa cosa per mio fratello e per tua madre.

   Il bambino dice:

- E' la sola differenza tra i morti e quelli che sono partiti, vero? Quelli che non sono morti torneranno.

   Lucas dice:

- Ma come si fa s sapere se non sono morti durante la loro assenza?

                        (Agota Kristof, Trilogia della città di K., Einaudi)

martedì 30 aprile 2013

Quando i morti hanno deciso di partire

Non ci si accorge che i morti se ne vanno, una volta che hanno deciso di partire. Non è previsto. Al massimo li si avverte come un sussurro o come l’onda di un sussurro che si placa piano piano. Lo paragonerei a una donna in fondo a una sala conferenza o a un teatro, che nessuno nota finché non sgattaiola fuori. E anche allora, solo quelli più vicini alla porta, come nonna Lynn, ci fanno caso, per gli altri è come una brezza inspiegabile in una stanza chiusa.

Quando era uscito mi era sfuggito, o forse, di istinto, lo avevo sottovalutato.

Mi è capitato tra le mani solo qualche tempo fa, quasi per caso, e non l'ho più mollato, meglio, sono state le sue pagine a non mollarmi più. Insomma, l'ho divorato.

E siccome so che un bel libro non si esaurisce con la sua ultima pagina, sono sicuro che a lungo mi risuonerà la voce di questa ragazzina, con tutto l'orrore subito e il suo dono di speranza, nonostante tutto.

E per un bel pezzo consiglierò Amabili resti di Alice Sebold (edizioni E/O) agli amici, a tutti coloro che possono raccogliere il piccolo grande dono di un consiglio per una buona lettura.

E di più non posso dire: perché solo ad anticipare il senso di questo libro mi sembra possa costituire un torto.

sabato 2 marzo 2013

E' veramente l'ora di sistemare le mie carte

Questi versi avrei voluto leggerli, un tempo, a persone che credevano in un possibile futuro.

Insieme a loro avrei voluto sfogliare questo piccolo tomo come il diario di un incubo felicemente superato, come cronache dal fondo dell'inferno. Adesso i miei compagni di viaggio non ci sono più, nel volgere di un'ora i miei versi si sono trasformati in poesie lette a dei morti.

E' veramente ora di sistemare le mie carte.

Quattro giorni fa ho costruito un semplice rifugio ingenuo con un sistema di funi che chiudono tendaggi e botole primitive. Quattro giorni trascorsi in un piccolo spazio senza uscita, assediato da un elemento che preme da ogni dove, con lo spettro della più bella morte mai partorita dall'immaginazione di una SS ubriaca.

Nel corso di questi quattro giorni è scomparsa la penultima ondata dei miei lettori.

(da Wladyslaw Szlengel, Cosa leggevo ai morti. Poesie e prose del ghetto di Varsavia, Sipintegrazioni Editore)

sabato 23 febbraio 2013

Preferirebbe essere sconosciuto a tutte le genti

Preferirebbe essere sconosciuto
a tutte le genti, e attraversare sicuro le città
al riparo d'un nome oscuro; ma la fortuna esige dallo sventurato
il prezzo d'un lungo favore, gravandolo nell'avversità d'un peso
eguale alla fama, e lo assilla con le glorie passate.

Ora sente gli onori troppo veloci per lui
e impreca alle gesta sillane della sua giovinezza trionfale;
ora, abbattuto, si duole al ricordo delle flotte di Corico
e delle insegne del Ponto. 

Un'esistenza troppo lunga prostra
le grandi anime quando gli anni superano il potere;
se il giorno estremo non giunge insieme con la fine
del tempo propizio e la celere morte non previene la disgrazia,
la fortuna precedente si muta in disdoro.

Chi osa affidarsi alla buona ventura, se non è preparato alla morte?

(Da Lucano, Farsaglia, Libro VIII, morte di Pompeo)

sabato 29 dicembre 2012

La donna vestita di nero di Michela Murgia

- Non mi si è mai aperto il ventre, - proseguì, - e Dio sa se lo avrei voluto, ma ho imparato da sola che ai figli bisogna dare lo schiaffo e la carezza, e il senso, e il vino della festa, e tutto quello che serve, quando gli serve. Anche io avevo la mia parte da fare, e l'ho fatta.
- E quale parte era?
- L'ultima. Io sono stata l'ultima madre che alcuni hanno visto.

Che libro potente, Accabadora di Michela Murgia, per quello che dice e per quello che tace, per le parole con cui avvicina il mistero della vita e per le parole con cui se ne tiene a rispettosa distanza. Libro necessariamente poetico, perché solo la poesia può raccontare e allo stesso tempo tacere. Libro che apre uno squarcio di luce su una Sardegna arcaica, prossima al precipizio della modernizzazione, per donare grani di una possibile verità che in realtà non prescinde da noi.

E quella figura vestita di nero, che talvolta viene chiamata di notte, la vecchia sarta che altri chiamano accabadora: l'ultima madre, pronta a farsi carico di una morte pietosa. Lasciate da parte le lacerazioni dell'etica, le diversi visioni sulla vita e sulla morte. Prima di tutto c'è la grandezza di questo personaggio.

Questa figura d'ombra, che appartiene all'ombra. E che come un'ombra tornerà di tanto in tanto a trovarci per porgere le domande più difficili e necessarie.

mercoledì 19 dicembre 2012

I fiumi dell'India, che sono la vita

Radika mi spiega che in India i fiumi sono vissuti come benevole manifestazioni delle divinità femminili. E la madre Ganga li riassume tutti perché nella credenza popolare alla fine tutti confluiranno in lei.

"Il fiume è vivo. La corrente di un grande fiume è una straordinaria forma di energia. Nelle confluenze l'energia dei fiumi si incontra e si rafforza. Molti luoghi in prossimità dell'acqua sono considerati sacri. In hindi si dice tirtha. Luoghi naturali di unione e trasformazione, dove le trasformazioni della vita sono accettate come naturali. Una confluenza è anche una soglia. Un luogo di passaggio da una forma di energia a un'altra, l'inizio di un nuovo viaggio".

"Mahaprasthan?"

"Esatto. Ma non pensare solo alla morte e alle ceneri. Sulle confluenze si va per un matrimonio, per avere figli o per ringraziare di quelli che si hanno. I fiumi sono la vita".

(da Giuseppe Cederna, Il grande viaggio, Feltrinelli)

giovedì 22 novembre 2012

Le tempeste della vita e la letteratura del naufragio

Le narrazioni solo il luogo dell'incontro tra le esperienze umane. I naviganti seminano storie in ogni angolo della terra. Il mare raccoglie i loro racconti, le loro gioie e disperazioni che divengono simbolo del nostro affannarci quotidiano alla ricerca di una rotta.

Chi non si è mai sentito in balia delle tempeste della vita, perso, naufrago, incapace di trovare un possibile approdo, di sperare in una salvezza?

A volte coloro che hanno provato questo smarrimento hanno avuto l'intuizione che da lì, oltre le onde, potesse iniziare la "rinascita". 

S'impara molto dall'esperienza di una perdita totale. La "letteratura del naufragio" tratta proprio di questo, della vita, e s'interroga su quesiti mai risolti: il perché della morte, del dolore, dell'esistenza o meno di Dio. 

(dall'introduzione a Maria Cristina Mannocchi, Tempeste e approdi. La letteratura del naufragio come ricerca di salvezza, edizioni Ensemble)



giovedì 1 novembre 2012

Una persona che se ne va è come un personaggio


Il concerto sta per finire. E ci voleva davvero, un bel concerto. Con che occhi che ora mi guardo intorno. Mi piacerebbe perfino attaccare discorso con qualcuno. Chiacchierare, bere qualcosa, chiacchierare ancora. Non lo farò, mi conosco. O forse sì, chissà.

Quello che so è che domani mattina partirò per il mare. Mi attende una settimana scarsa di ferie che penso di essermi meritato.
 
Saranno le prime vacanze in cui dovrò fare a meno delle telefonate di mia madre, di quegli squilli che mi coglievano sempre nei momenti meno opportuni.
 
E lo so che succederà. Sarà magari quando rientrerò nella camera di albergo per fare la doccia e prepararmi per la cena, oppure più tardi, quando uscirò per una passeggiata-boccata d’aria-gelato.
 
Sarò presto di ritorno, in ogni caso, perché in vacanza non ho mai fatto le ore piccole, mi piace tirare tardi solo con i miei amici, nella mia città, nel mio quartiere, nel mio locale, vai a capire perché, e insomma, sarò di ritorno presto e poi non mi rimarrà altro che un libro, o un po’ di televisione per non perdere l’abitudine.
 
Solo un attimo prima di spegnere la luce del comodino mi folgorerà un pensiero: «Mia madre oggi non ha telefonato». E qualcosa cambierà, nell’andamento lento di una sera di vacanza.
 
Lo so, il tempo delle sorprese sarà ancora inevitabilmente lungo. Succederà anche la prossima primavera, quando mi ritroverò con le cesoie davanti alle sue ortensie e la vorrò accanto per sciogliere un dubbio che da solo non ho mai risolto: che faccio, poto?
 
È così, la morte è in primo luogo una fuga di gesti, di abitudini, di situazioni. Per questo ce ne accorgiamo poco a poco. Una persona che ti lascia è più o meno come il personaggio di un libro: il libro finisce, ma non è che il personaggio ci muoia dentro una volta che giriamo l’ultima pagina.

(da  Paolo Ciampi, Una domenica come le altre, Mauro Pagliai editore)

giovedì 28 giugno 2012

Quando si è tagliati fuori dalla storia in comune

Cosa significa davvero quella fine dell'umanesimo a cui tanto di frequente scrittori e intellettuali vari fanno riferimento?

Può darsi che come per altre espressioni usate e abusate la sostanza sia poca e il fumo tanto. Ma se si vuol giocare a carte scoperte, fa pensare la traduzione che di questa espressione tenta Antonio Scurati nel suo La letteratura dell'inesperienza. Scrivere romanzi al tempo della televisione (Bompiani):



Fine dell'umanesimo significa non poter più vivere con i propri morti. Fine dell'umanesimo significa essere esclusi dalla comunione con i morti. Essere tagliati fuori dalla storia che abbiamo in comune.



Ecco, mi sa che è proprio così. Ciò che è intimamente dell'uomo comporta radici, legami con il nostro passato, appartenenza che ci proietta nel futuro. L'umanesimo, aggiunge Scurati, era il tentativo di stabilire una comunione di vita tra i vivi, i morti e perfino i non ancora nati.


Un ponte tra passato, presente e futuro. Cosa succede se viene meno questa comunione di vita?



E che senso ha il lavoro di uno scrittore se questo ponte si sgretola?

sabato 12 novembre 2011

James Hillman e il tempo che scivola via

Com'è morire?, domanda Silvia Ronchey a James Hillman, lo psicanalista americano che con libri come Il codice dell'anima e Saggio su Pan, ci ha regalato nuovi modi di vedere e intendere non solo la morte, ma soprattutto la vita.

Com'è morire?, gli ha chiesto Silvia Ronchey, che non è solo la studiosa del mondo bizantino o la biografa di Ipazia di Alessandria, ma una donna che sa affondare lo sguardo nelle domande che più di tutte contano e che per questo si è spinta fino alla casa del Connecticut dove James Hillman ha abitato gli ultimi sui giorni su questa terra.

E così le ha risposto James Hillman, con parole che, certo, non sono solo le parole di un'intervista su Tuttolibri:

Uno svuotamento. Si comincia svuotandosi. Ma, si potrebbe chiedere, che cos'è o dov'è il vuoto? Il vuoto è nella perdita. E che cosa si perde? Io non ho "perso" nel senso comune di  "perdere". Non c'è perdita in quel senso. C'è la fine dell'ambizione. La fine di ciò che si chiede a se stessi. E' molto importante. Non si chiede più niente a se stessi. Si comincia a svuotarsi degli obblighi e dei vincoli, delle necessità che si pensavano importanti. E quando queste cose cominciano a sparire, resta un'enorme quantità di tempo. E poi scivola via anche il tempo....

sabato 8 gennaio 2011

Quell'eterna sconfitta della memoria

In che misura si può conoscere il passato di coloro che sono scomparsi nel nulla? Si possono leggere libri, parlare con chi c'era, studiare le fotografie, recarsi nei posti dove quelle persone vissero, i luoghi degli avvenimenti. Qualcuno può rivelare: avvenne quel tal giorno, mi sembra si sia incontrata con delle amiche, era bionda.
Ma inevitabilmente sono solo approssimazioni

Quanto mi ha colpito e coinvolto la lettura de Gli scomparsi di Daniel Mendelsohn ve l'ho già detto. Si tratta di uno dei libri più intensi e appassionanti che abbia mai letto sulla memoria dello sterminio del popolo ebraico. Eppure è un libro che va oltre, immensamente oltre, l'orrore della Shoah, per diventare riflessione alta sul bene e sul male, sulla responsabilità, sulle possibilità stesse della memoria.

Eh sì, forse è proprio questo il punto centrale. La necessità di ricordare ogni singola vita - restituendo a essa qualsiasi ricordo di cui è legittima proprietaria - e in effetti anche l'impossibilità di ricordare effettivamente.
Voler restituire vita e nello stesso tempo esserne incapaci.

E mi sa che è proprio questa la memoria, nient'altro che questa tensione costante, ineludibile, necessaria tra il dovere e il potere. Questa responsabilità nei confronti di ogni vita - perché se non sono io a ricordarla, chi potrà farlo al mio posto? - e questa eterna sconfitta che andrò ogni volta a ricercare.

venerdì 10 dicembre 2010

Con Borges, il rimorso per qualsiasi morte

Riflettendo sul tempo, riflettendo sui crimini e i furti della Storia (sì, proprio la storia dei libri di testo), riflettendo su un libro così importante che è un pezzo che su di esso non riesco a scrivere nemmeno una riga (Gli scomparsi di Daniel Mendelsohn), oggi l'onda di un ricordo mi ha sospinto di nuovo verso le poesie di Jorge Luis Borges. Questa in particolare: Rimorso per qualsiasi morte. Una poesia su cui fa bene meditare.


Libero dalla memoria e dalla speranza,
illimitato, astratto, quasi futuro,
il morto non è un morto: è la morte.
Come il Dio dei mistici,
al Quale si devono rifiutare tutti i predicati,
il morto ubiquamente estraneo
non è che la perdizione e assenza del mondo.
Tutto gli abbiamo rubato,
non gli abbiamo lasciato né un colore né una sillaba:
qui è il patio che non condividono più i suoi occhi,
là è il marciapiede dove fu in agguato la sua speranza.
Perfino ciò che pensiamo
potrebbe stare pensandolo anche lui;
ci siamo spartiti come ladri
il flusso delle notti e dei giorni

martedì 16 novembre 2010

L'uomo che camminava tra le ombre

Io sono morto. Cammino tra le ombre, vedo il mondo da una finestra invisibile

Con un incipit così non potete certo ripromettervi una lettura disinvolta e senza pensieri, però, chissà, da parole così - parole dure come pietre e roventi come il fuoco, per dirla come la dice Enzo Bianchi in una sua riflessione conclusiva - potete anche aspettarvi qualcosa che rimane, che continua a scavare anche dopo che avete messo via il libro e provato a pensare ad altro, potete aspettarvi qualcosa che fa male e che allo stesso tempo è salutare come una medicina amara.

Che talento che era Giovanni Cenacchi, scrittore innamorato di Dino Campana e degli spettacoli che la natura offre quando i sentieri si fanno impervi e l'aria più rarefatta, sarà che, come diceva, una passeggiata in montagna è già un discorso sulla bellezza o una riflessione sulla vertigine. Che talento, scippato da una malattia crudele e da una morte troppo precoce.

In Cammino tra le ombre c'è tutta la sua storia, dopo che gli piombò addosso una diagnosi che ammetteva ben poche speranze. Tre anni di vita nella morte che non si traducono in romanzo o in diario, ma piuttosto in pensieri abbandonati sulle sponde dei giorni, in aforismi e spunti poetici, in riflessioni che si contentano di poche righe e anzi galleggiano anche sul silenzio.

Momenti di grande sofferenza e momenti di pace ancora più grandi e inattesi, anche sul letto di un ospedale (Sto quasi bene, qui. E' questo morire?). Lampi di ribellione contro un Dio assente (Quando verrà il momento mi aspetto che ci sia Dio in persona ad accogliermi e a farmi le sue scuse) e la quiete di una accettazione che si fa strada (E ora, devo provare a costringermi di pensare che solo il non essere possa consegnarmi al mondo). Il tentativo di dare un senso alla malattia (Serve a rendere sopportabile - quindi desiderabile - l'idea della morte). L'arretramento delle possibilità di vita (Ogni cosa che vedo, è cosa che perdo) Ma poi, di nuovo, l'impossibilità della rassegnazione (Non si crede mai veramente alla propria morte. Si sente forte il diritto al miracolo. La vita non conosce altro che la vita).

Un libro non per tutti. Un libro che è come una voragine che si apre sotto i piedi. Un libro di straordinaria vitalità, malgrado tutto.

Com'è vitale scrivere del morire, e quanto è noioso e sterile scrivere della morte

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...