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giovedì 29 novembre 2018

A Buenos Aires una storia di amore e anarchia

Comincia con un refolo di vento che viene dall'Atlantico, col caldo dell'estate australe, con i ricordi che si dipanano come un gomitolo tra le vie di Buenos Aires, con l'occhio che cade su lettere che sono già un romanzo. Comincia con un viaggio che sospinge verso un altro continente per poter diventare un viaggio nel tempo. Comincia perdendo subito la strada, perché è solo così che gli enigmi di una vita potranno trovare se non un senso almeno una qualche risposta nella lingua del cuore. 

Perché poi cos'è un viaggio se non il sogno di una storia da raccontare? 

Così si domanda Tito Barbini, quasi all'inizio del suo ennesimo viaggio in quell'Argentina che da sempre gli è altrove fedele, così si domanda e già è evidente il desiderio, anzi, il bisogno di raccontarla, questa storia.

E come sempre nelle sue pagine, anche in questo suo ultimo libro  - Severino e América. Storia d'amore e anarchia nella Buenos Aires del primo Novecento (Mauro Pagliai editore) - ci si smarrisce per ritrovarsi e ci si ritrova per smarrirsi ancora: è il destino di Tito, come del suo lettore che, tra le altre cose, questa volta ancora più di altre gode di una magnifica incertezza: tra le mani ha un romanzo o un reportage, un viaggio o un atto di amore?

Storia di amore e anarchia, recita il sottotitolo: e vai a sapere se l'amore viene prima dell'anarchia o viceversa. L'uno e l'altra, in ogni caso, alimentano la storia struggente di Severino Di Giovanni e di América, del sovversivo venuto dall'Italia e della ragazzina di Buenos Aires.

Un amore tenero e tenace, un amore pulito, capace di resistere a tutto, agli agguati del destino come alle sentenze che discendono dalle scelte. Di resistere e di riscattare illusioni, mortificazioni, errori, crimini. 

Ci si tuffa, in questa storia, non per vedere come andrà a finire, ma perché ci sono sentimenti di cui ancora oggi abbiamo bisogno, oggi forse ancora più di una volta. E possono essere sentimenti che ci legano a una persona scelta tra infinite altre, ma anche sentimenti che alimentano un'idea di giustizia che riguarda tutti.

E si finisce per provare nostalgia per quella Buenos Aires di miserabili emigrati, di tristi suonatori di fisarmonica, di banditi sognatori, la stessa Buenos  Aires di un altro libro che ho letto in questi giorni, Letti da un soldo di Enrique González Tuñón (Arkadia editore). Autore che, guarda la coincidenza, fu presente all'esecuzione di Severino.

Si finisce per provare nostalgia per quell'idea impossibile e generosa che fu l'anarchia, quell'idea così capace di stare dalla parte del torto con la forza della ragione, o viceversa. 

Quell'idea che finora per me era soprattutto una canzone di Francesco Guccini e qualche verso di Pietro Gori. E ora, grazie a Tito, è anche una musica che si spenge in un vicolo imprecisato della città del tango. 



domenica 29 ottobre 2017

Con Letizia l'inchiostro è musica e poesia



E quando mai qui parlo di musica, se non filtrata attraverso le pagine di un libro o distillata nelle emozioni di un viaggio? Però questa volta, permettetemi, un'eccezione la faccio. Per me questo non è è un disco come gli altri. Non è solo bello da ascoltare. Per me, figuratevi, è anche un libro, un ottimo libro. Di quelli che prendono e non ti mollano e ti fanno andare lontano.

E ci si può tuffare dentro come un pescatore di corallo in mare, per riportare a galla parole che raccontano, parole non superflue.

Un disco così, Inchiostro di Letizia Fuochi (Materiali Sonori), mia concittadina e persona amica, che non vive solo di musica, ma di buone letture.  Un disco da tournée in tanti teatri, ma che vorrei anche presentato in libreria, perchè gli spartiti si incrocino con le citazioni, le note con i versi.

E del resto mi sa che è scelta consapevole, questo titolo, non deciso alla leggera. Perché l'inchiostro sembra così fuori moda, nell'epoca del digitale.  Come i diari di una volta soppiantati dai social dell'eterno presente. Eppure c'è ancora bisogno di inchiostro, per mettere davvero nero su bianco la propria vita.

Che è quanto Letizia fa, con coraggio, anche, senza mai sottrarsi. In questo forse aiutata dalla musica, che come la poesia mal si addice alla presunzione di una forma senza sostanza, all'ipocrisia degli effetti speciali.

E' opera autentica, questa. Sincera fino a essere impietosa. Densa di sentimenti, ma intrisa di ironia. Autobiografica - la vita messa nera su bianco - ma non inchiodata alla contemplazione del proprio ombelico. E tanto meno lettura banale, rassicurante, di ciò che è stato e ciò che è.

Come nella Canzone del tempo presente, dove il racconto di sé si fa pluralità di storie, dove il presente è parola che richiama tutti all'appello, dove oggi è anche ieri, dove gli anni, tutti insieme, appaiono all'improvviso. E la sofferenza non è solo sofferenza, ma anche possibilità, perché si passa tra i rovi per sentire meglio il profumo delle rose.

Io sono, non so se sarò, sopravviverò ironicamente.... a questo presente

Ed è così che si finisce e poi si ricomincia e per me è già una canzone da riascoltare, anche se poi cuore e testa già divagano - come sempre - e sono già a rovistare tra De Andrè e Guccini, più qualche poeta francese, mentre più di un romanzo fa capolino dal passato.

E c'è tutto questo nelle canzoni di Letizia, in questo disco che per me è un libro, anzi, molti libri.

lunedì 13 marzo 2017

Perdonateli, erano giovani artisti che cercavano la bella morte

Che rogna questi arditi di città. Massì, in fondo se la cercano loro la bella morte, non si può dire che ce li ho mandati io.

Prima provarono a rivoluzionare l'arte - e con l'arte la loro vita - poi  si convinsero che perfino con la guerra si poteva cambiare il mondo - e con il mondo la loro vita. Fu una crudele illusione, destinata a finire molto male. Però perdonateli, perché erano ingenui, idealisti, sinceri. Perdonateli, perché non ci misero ben più della faccia, non furono quelli dell'armiamoci e partite.

Gianni Biondillo ripercorre la parabola di uno dei loro, non tra i più noti: Antonio Sant'Elia, giovane architetto di straordinario talento, morto sul Carso nel 1916. Ma in uno splendido romanzo che nel titolo sa di Ungaretti - Come sugli alberi le foglie (Guanda) - c'è tutta la storia di una generazione: quella masnada di artisti, irredentisti e arditi che partì per il fronte, magari arruolandosi nell'improbabile Battaglione Lombardo Volontari Ciclisti Automobilisti - e nome più squisitamente futurista non ci poteva essere.

Già, il futurismo: con le sue intuizioni e le sue provocazioni nate magari nelle aule dell'Accademia di Brera per poi animare le intemperanze di serate da scandalo. Filippo Tommaso Marinetti, ma anche tanti altri pronti a giocarsi molto, incendiando il passato e spingendo il presente a tutta velocità. Avanguardia, avanguardia: in marcia verso un altro tempo, che persino la guerra poteva accelerare.

La storia ci racconta come finì la corsa, per dirla alla Guccini. Dalla guerra igiene del mondo allo sporco delle trincee. L'immane massacro che concesse ben poco alla bella morte. E quante possibilità venute meno, quanti ingegni, quanti capolavori che ci sono mancati.

Di Antonio Sant'Elia ci restano solo una manciata di disegni, così belli che verrebbe da immaginarsi un futuro alternativo, se solo.... Una manciata di disegni e questo grande libro di Biondillo, canto dolente sulla bellezza e sull'inutilità.

sabato 13 febbraio 2016

Se Guccini e Aime si ritrovano a conversare sotto i castagni

Che tu sei qui - che la vita esiste, e l'identitità,
che il potetente spettacolo continua,
e tu puoi contribuire con un verso

Sono versi del grande Walt Whitman e mi sembrano perfetti per esprimere le emozioni che mi ha prodotto la lettura di Tra i castagni dell'Appennino (Utet), conversazione, anzi, conversazioni tra un antropologo come Marco Aime e un uomo che non ha bisogno di presentazioni come Francesco Guccini.

Libro che ho acquistato senza saperne niente. Di più: che ho acquistato avendo preso fischi per fiaschi, convinto che fosse un libro che parlava della mia montagna. In realtà è di Francesco Guccini che si parla. E quindi anche dellla montagna, vista da quell'angolo che è Pavana, sull'Appennino tosco-emiliano. Ma parlando di Guccini, è ovvio, è di infinite altre cose, che viene naturale parlare. Di montagne ma anche di pianure, di canzoni da disco e da osteria, di emigranti e di compagni di briscola. Di piccole città, bastardi posti, e di città come Costantinopoli, dove l'Oriente si mescola all'Occidente. Di notti che dal vino sono bagnate e di partenze. E ovviamente anche di eskimi innocenti, di incontri lungo le scale, di amici che non son razza padrona, di locomotive a bomba contro l'ingiustizia...

No, nemmeno un libro sulla storia di un artista, sarebbe riduttivo. Con un intervistatore come Aime, poi, che a lungo dev'essersi intrattenuto in quel di Pavana, dopo averla raggiunta con la corriera. 

Piuttosto un libro con tanta poesia, un libro sul tempo che passa e che confonde, che separa e rovescia nostalgia, ma a volte sa donare anche buone ragioni e una strana pace.

Da leggere. Consigliato anche a chi - ma lo voglio vedere - di Guccini non ha mai ascoltato proprio niente.


 

martedì 15 maggio 2012

Le cose perdute di Francesco Guccini

C'era un tempo senza play-station, in cui una confezione di chewing-gum era un gran regalo e i ragazzini passavano ore a masticare e fare palloncini con quella che chiamavano cingomma o cicca, non chewing-gum, perchè in quello stesso tempo non è che si smaniava per le parole inglesi.

C'era un tempo in cui il lattaio passava sotto casa e i maglioni erano di lana che pizzicava e si giocava con la fionda e la cerbottana e in casa si vedevano strane etichette di liquori e spray che si diceva facessero miracoli.

C'era un tempo in cui i cinema erano una cosa diversa, c'erano le maschere, il fumo di sigarette, il tifo da curva, la gente che entrava per il secondo tempo, tanto era normale vedere il primo tempo dopo, ma volete mettere, il cinema era il cinema.

C'era un tempo ed è questo il tempo che racconta Francesco Guccini nel suo Dizionario delle cose perdute (Mondadori), proponendo la sua playlist (maledizione, un'altra parola inglese) di oggetti, situazioni, abitudini che oggi non ci sono più.

Gioca facile, sul filo della nostalgia, il grande Francesco. Gioca facile, e anche noi potremmo giocare facile, rimpolpando il dizionario con molte altre cose che se ne sono andate, riagguantandole con i crampi del rimpianto per i tempi in cui eravamo più giovani e inevitabilmente più spensierati.

Però chi altri poteva regalarci un libro così, se non questo cantautore del tempo che passa, anzi, è già passato, con tutti i suoi eskimo messi in soffitto, Bologna e Venezia ammantate di passato, le osterie che non ci sono più, nemmeno in via Paolo Fabbri, e con le tante Silvie che chissà dove sono finite?

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  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...