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lunedì 11 maggio 2015

Il ragazzo che in riformatorio scoprì la poesia

Era un ragazzo che si era perso, come ci si può perdere nell'America degli slums, della violenza di strada, dei penitenziari. Da lui non ci si poteva aspettare altro che rapine a mano armata, condanne a raffica e alla fine il passo più lungo della gamba, quello che ti porta disteso su un marciapiede, crivellato di colpi, oppure al braccio della morte.

Invece in riformatorio scoprì Shelley e cominciò a sognare la bellezza. Poi a diciassette anni, nel carcere dove doveva trascorrere tre anni, un anziano detenuto gli passò I fratelli Karamazov, I miserabili e Il rosso e il nero.

Fu così che scrisse le sue prime poesie. Fu così che Gregory Corso divenne uno dei grandi della Beat generation, assieme a Jack Kerouac e ad Allen Ginsberg.

Della prigione e della poesia scrisse una volta: 

Quando dicevo a mio padre che desideravo moltissimo scrivere, lui diceva: non c'è posto in questo mondo per uno scrittore poeta. Ma la prigione era diversa, c'era posto per uno scrittore poeta.

Il carcere fu la sua biblioteca. La scuola da cui uscì amando i suoi simili, come scrisse, perché tutti quelli che incontrai là dentro erano fieri e tristi e belli e perduti.

Di lui diceva Jack Kerouac:

Era un ragazzino duro dei quartieri bassi che crebbe come un angelo sui tetti. 
  
Solo l'altro giorno ho scoperto che le sue ceneri sono sepolte al cimitero acattolico di Roma, all'ombra della piramide di Caio Cestio. Per l'appunto, non lontano dalla tomba di Shelley: il poeta i cui versi, letti in una cella, un giorno lo persuasero alla bellezza della poesia.

Davvero, cosa può essere delle nostre vite.

mercoledì 12 settembre 2012

Gregory, il ragazzino che scoprì Shelley in carcere

Era un ragazzo che si era perso, come ci si può perdere nell'America degli slums, della violenza di strada, dei penitenziari. Da lui non ci si poteva aspettare altro che rapine a mano armata, condanne a raffica e alla fine il passo più lungo della gamba, quello che ti porta disteso su un marciapiede, crivellato di colpi, oppure al braccio della morte.

Invece in riformatorio scoprì Shelley e cominciò a sognare la bellezza. Poi a diciassette anni, nel carcere dove doveva trascorrere tre anni, un anziano detenuto gli passò I fratelli Karamazov, I miserabili e Il rosso e il nero.

Fu così che scrisse le sue prime poesie. Fu così che Gregory Corso divenne uno dei grandi della Beat generation, assieme a Jack Kerouac e ad Allen Ginsberg.

Della prigione e della poesia scrisse una volta: 

Quando dicevo a mio padre che desideravo moltissimo scrivere, lui diceva: non c'è posto in questo mondo per uno scrittore poeta. Ma la prigione era diversa, c'era posto per uno scrittore poeta.

Il carcere fu la sua biblioteca. La scuola da cui uscì amando i suoi simili, come scrisse, perché tutti quelli che incontrai là dentro erano fieri e tristi e belli e perduti.

Di lui diceva Jack Kerouac:

Era un ragazzino duro dei quartieri bassi che crebbe come un angelo sui tetti. 
  
Solo l'altro giorno ho scoperto che le sue ceneri sono sepolte al cimitero acattolico di Roma, all'ombra della piramide di Caio Cestio. Per l'appunto, non lontano dalla tomba di Shelley: il poeta i cui versi, letti in una cella, un giorno lo persuasero alla bellezza della poesia.

Davvero, cosa può essere delle nostre vite.

giovedì 5 aprile 2012

Cara Fernanda, grazie per la tua America


Ci sono molte cose per cui dovremmo essere tutti grati a Fernanda Pivano: per il suo sorriso e per la dolcezza con cui ci ha preso per mano e ci ha presentato alcuni dei grandissimi del Novecento, senza presunzione, senza affettazione, come avrebbe fatto una sorella maggiore; per i libri e gli autori che ci ha permesso di conoscere; per un'idea di cultura non confinata nel chiuso delle biblioteche e delle accademie, ma capace di nutrirsi di orizzonti, distanze, alternative...

Io la ringrazio per la sua America, per l'America che mi ha donato, che ha rovesciato sulle mie inquietudini, sulle mie idiosincrasie, perfino sui miei pregiudizi.

L'America che era l'altra America, un'America non scontata, un'America che era lontana e allo stesso tempo poteva cominciare oltre il cortile di casa. La via Emilia come il West. La Maremma come la California. Firenze come Boston, più o meno.

Perchè c'era l'America che non potevo proprio digerire, paese incomprensibile e odioso, industria di errori e orrori, dal Vietnam agli indiani massacrati, dalle sentenze capitali alle stragi di matti armati fino ai denti... Poteva essere facile odiare l'America. L'avrei odiata, non fosse stata per Hemingway e Jack Kerouac, per Fitzgerald e Allen Ginsberg, per Bob Dylan e parecchi altri...

Pagine, emozioni, riflessioni per cui devo essere grato alla cara vecchia Nanda. Con lei l'America mi è diventata un pollice puntato lungo una strada, un'improvvisazione jazz, un campus universitario. Guazzabuglio e possibilità. Sogno.

Da qualche tempo Fernanda Pivano se n'è andata, però non dimentico che donandomi tutto questo, donandomelo proprio in anni difficili, mi ha aiutato a essere un po' migliore di quello che ero e forse sarò.

sabato 24 luglio 2010

L'America come sa raccontarla Bob Dylan

Con la mente in grande fervore, avevo perfino covato il desiderio di andare a West Point. Mi ero sempre immaginato che sarei morto in qualche eroica battaglia

Come cambiano le cose della vita, come rimbalzano sogni e ambizioni sul panno verde dove si gioca il nostro futuro. In ogni caso colpo fortunato, questa volta. Il mondo ha perso un ufficiale dell'esercito americano, ma Bob Dylan è diventato Bob Dylan, a vantaggio di tutti noi.

Conoscevo il musicista, conoscevo il poeta (perchè per me Bob Dylan poeta è sempre stato, piaccia o non piaccia la sua musica, degno candidato al Nobel per la letteratura), con Chronicles ho scoperto un altro lato ancora, quello di uno scrittore capace di scrivere un'autobiografia che non è un'autobiografia, di raccontarsi senza mettersi su un piedistallo, perfino di mostrarci un'intera epoca senza nemmeno provare a rispettare le sequenze degli anni.

Perché questo è Chronicles, un libro buono anche per chi non sopporta le canzoni di Bob Dylan, un libro che si fa leggere per molte ragioni.

Io ci ho ritrovato la storia di un ragazzo che sa cogliere il tempo che cambia e raccontarlo come pochi altri hanno saputo fare. Altro che latte e miele, altro che canzoncini su cuori infranti, motivetti orecchiabili e ballabili, anestetico per ogni coscienza.

Immorali distillatori di liquori clandestini, madri che affogavano i loro figli, Cadillac che avevano benzina solo per cinque miglia, alluvioni, incendi nelle sedi dei sindacati, buio pesto e cadaveri sul fondo dei fiumi non erano roba per i radiofili. Non c'era niente di allegro nelle canzoni folk che cantavo io. Non cercavano di piacere a nessuno e non trasudavano dolcezza. Non si facevano gentilmente portare a riva dalle onde

Quanta grande letteratura americana mi ricorda tutto questo... L'America di Woody Guthrie e delle dure battaglie sindacali, delle praterie e delle metropoli che crescono, dei padroni e dei vagabondi. L'America del Greenwich Village a cui approda un Dylan giovanissimo, ricco solo della sua chitarra. L'America di Jack Kerouac, di Allen Ginsberg, degli altri poeti irrequieti e stralunati della Beat generation.

E c'è Bob Dylan che in tutto questo è assai diverso dall'icona che ci è stata trasmessa, che non è il provocatore, non è il contestatore di professione, non è l'artista che vive ai margini nè sopra le righe, non è né il menestrello nè la rock star. Semplicemente lui, un uomo che mette su famiglia e che parla volentieri di sua moglie.

Quante cose, in questo libro.

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  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...