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martedì 5 novembre 2013

Quando il grande Zátopek smise di vincere

Non so voi, ma personalmente di tutte queste imprese, e record, e vittorie, e trofei, comincio un  po' a non poterne più. Il che cade a proposito perché, proprio adesso, Emil sta per mettersi a perdere.

Lo dice Jean Echenoz, raccontando nel suo Correre (Adelphi) la storia di Emil Zátopek, lo straordinario campione della Cecoslovacchia negli anni della Guerra Fredda, l'uomo che per anni e anni dominò le piste di atletiche. Lo dice Echenoz e io condivido: nelle storie dei grandissimi dello sport le pagine migliori non riguardano quasi mai le vittorie, ma le sconfitte.

Prima c'era solo un ragazzo a cui non piaceva lo sport e che mai avrebbe pensato di abbandonare la sua fabbrica, solo che quando i tedeschi occuparono il suo paese si mise a correre e non smise più. Presto sarebbe diventato un nome acclamato dalle folle. L'uomo che volava verso il traguardo, lasciandosi tutti dietro, nonostante il suo stile impossibile, senza eleganza, la sua corsa pesante, sofferta, scandita da scatti rabbiosi.

E non è poco, quello che c'era prima. Ma volete mettere con il dopo, quando il campione si scopre più vecchio e acciaccato, quando comincia a nascondere la pelata sotto un berretto col pompon, quando arrivano le sconfitte rifilate dai rivali più giovani e motivati.

E poi dopo, quando la Storia gli salta addosso a piedi pari. La Primavera di Praga e il sogno di un altro socialismo che è anche il suo sogno. I carrarmati sovietici e lui il campione, a cui viene portato via tutto. Per anni umiliato e costretto a fare lo spazzino per le vie di Praga: strano spazzino a cui nessuno dei colleghi consente di raccogliere la spazzatura e  con gli abitanti del quartiere che scendono per strada solo per applaudirlo.

Campione anche così. E una storia da scoprire tra le pagine di questo libro.

lunedì 20 agosto 2012

Murakami e la maratona che è come scrivere

Comunque l'attività che consiste nello spostare concretamente il mio corpo nello spazio, attraverso una sofferenza diciamo opzionale, mi ha fornito un'occasione estramemamente valida di apprendimento. Forse non funziona così per tutti, ma per me sì.

Lo diceva Somerset Maugham: anche nell'atto di farsi la barba c'è una filosofia. Figurarsi se si tratta di correre, in allenamento o in gara non importa, correre perché correre significa misurarsi con se stessi prima con gli altri.

Se non ci credete è il caso di leggere L'arte di correre di Murakami Haruki, sì, l'autore di libri quali L'uccello che girava le viti del mondo, Norvegian Wood, L'elefante scomparso, che è uno che non macina solo parole, ma anche chilometri, uomo che ogni giorno si infila le scarpette di corsa e parte.

Quando corro, dice Murakami, semplicemente corro. I pensieri lo assalgano, lo attraversano, lo lasciano. Come nuvole che vagano nel cielo. Ospiti di passaggio, qualcosa che esiste e al tempo stesso non esiste.

Correre, scrivere. Anche scrivere implica pensieri che arrivano e se ne vanno. Parole come passi. Ritmo da mantenere.

E' un libro sulla corsa, questo. Ma con premesse così diventa lo straordinario autoritratto di un uomo e di uno scrittore. Murakami racconta anche il momento preciso in cui decise di mettersi a scrivere. Fu a una partita di baseball, non a una maratona. Però poi quanta strada. 

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  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...