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giovedì 22 agosto 2019

Sei stato felice, ora è tempo di partire

Sei stato felice, vecchio, maledettamente bene in certi giorni, anche.

Succede di chiamarsi vecchio quando hai poco più di vent'anni, età complessa, età di sfide come gran premi della montagna. Succede persino di parlare al passato: e come suona strano, quando quei vent'anni sono davvero passati da un pezzo.

Ma ancora più strano è scrivere un romanzo d'esordio come questo, a poco più di vent'anni. Come a voler dare ragione nei fatti a Italo Calvino: in fondo il primo libro è il solo che conta, forse bisognerebbe scrivere quello e basta.

Beh, meno male che Giovanni Arpino non si è fermato, che ha proseguito con molti altri libri che oggi meriterebbe andarsi a rileggere, uno a uno. Però che libro straordinario è Sei stato felice, Giovanni (ripubblicato da Minimum Fax, postfazione di Gianni Mura), così intenso, così grondante di libertà: forte di un'età acerba che sa ancora voltare le spalle, dire addio, ricominciare da zero. 

Prima di queste pagine c'è Giovanni stesso, la sua vita di ragazzo che è già bracconiere di personaggi, incontrati nei bar e nelle osterie: pittori stravaganti, poeti della Resistenza, giocatori di carte per ammazzare le notti. 

Poi un giorno sente il richiamo del mare e della città di porto. E' il 1950 -  proviamo a immaginarci quell'Italia - è maggio - e maggio sembra fatto apposta per le fughe.

Così arriva a Genova, prende alloggio in una pensioncina di via Pré che è una topaia, col suo asse da stirare come scrivania e le voci sbronze che salgono dal vicolo. E' qui che in tre settimane scrive il suo libro e quante cose ci porta dentro, tra bevute e pasti a uova fritte: le sue letture di Hemingway e Steinbeck, ma anche di Pavese e Moravia, il ventre di Genova con le sue puttane e i suoi contrabbandieri, come in una canzone di De Andrè; i volti incontrati per strada, il piacere della precarietà, la smania di altre città.

Si è laureato con una tesi su Esenin, Giovanni, ama - e si intuisce - Dino Campana: ma ciò che ha dentro è grande come l'America dei sogni. Solo che per l'America bisogna partire e la partenza è sempre una separazione, un distacco.

Potevo dirmi con semplicità, con ordine e calma, tutte le voglie diventate nette e precise nel cuore anche se lontane  e difficili nella speranza. Qualcosa era successo ed era successo bene.

E così è ancora dentro questa vita, ma allo stesso tempo è già un passo avanti. E' già tempo di partire, anche per lui. Ho un sacco di cose da mettere a posto, dice. E vai a sapere dove, non importa. Qua e là. Tante cose.

venerdì 11 gennaio 2019

Shakespeare & Co, a Parigi una libreria come una casa

Era un'altra America, era un'altra Europa. Su questa sponda dell'oceano le intemperanze e le sperimentazioni di inizio secolo avevano lasciato il posto al mattatoio della Grande Guerra, sull'altra erano gli anni del proibizionismo e di una generazione di scrittori che beveva troppo e che ancora non aveva capito il suo posto al mondo.

Parigi però era sempre Parigi ed è in questa città, porto franco di artisti e di sogni, che un giorno sbarcò una giovane americana di Baltimora. Si chiamava Sylvia Beach, era sui trent'anni e non aveva le idee chiare: aveva accarezzato l'idea di aprire una libreria francese a New York, ora voleva provarci con una libreria americana a Parigi. Se non altro a Parigi, chi l'avrebbe detto, tutto costava decisamente meno, era un  posto dove se la cavavano anche i più spiantati degli scrittori.

Così nasceva una libreria che ancora oggi è un mito, la Shakespeare and Company (da non confondere con un'analoga libreria che, nel secondo dopoguerra, diventerà riferimento dei poeti beat e di tante altre inquietudini). Chi non la ha mai sentita nominare?

Shakespeare and Company ora è anche il titolo delle memorie di Sylvia Beach che Neri Pozza propone ai lettori italiani: un libro che si legge di un fiato, tra sguardi su un mondo che non c'è più e un mondo che in qualche modo si vorrebbe ancora trattenere.

Sono i tempi in cui Fitzgerald ha già dissipato buona parte del suo talento e in cui Hemingway deve ancora dimostrarlo. James Joyce ha lasciato Trieste, spende nei ristoranti come un marinaio ubriaco e fatica a tenere a bada i suoi creditori. Ezra Pound pare più pronto a dimostrare la sua abilità con i lavori di falegnameria che con la poesia. Per tutti la libreria è il luogo dove ritovarsi, magari portandosi via sporte di libri che Sylvia Beach presta spesso senza riaverli indietro. 

E la storia più incredibile, certo, è quello dell'unico libro che la libraia deciderà di editare in proprio: pensate, l'Ulisse di Joyce.

Senz'altro una bella storia, per fantasticare su quanto può mettere in moto anche una piccola libreria. Eppure ripensando a quel posto in rue de l'Odeon è un'altra la cosa che mi viene in mente. La Shakespeare and Company non era solo scaffali con tanti libri. Era quella che gli americani dicono home away from home, casa lontano da casa.

Le vere librerie questo sanno essere. Posti dove ci si sente a casa. Questo libro aiuta a crederci.

martedì 3 gennaio 2017

Otto montagne più la montagna che ci abita dentro

E diciamo: avrà imparato di più chi ha fatto il giro delle otto montagne, o chi è arrivato in cima al monte Sumeru?

Sono contento di aver cominciato il 2017 con questo libro, è un regalo che mi sono fatto. Me l'ero tenuto da parte, nonostante le buone recensioni che avevo già letto, per consegnarlo a questi giorni più rarefatti, dove anche il freddo e i vetri appannati e le feste che se ne vanno sembrano invitare al raccoglimento e alla parola che risuona dentro. Per una volta non mi sono sbagliato: Otto montagne di Paolo Cognetti (Einaudi) è come una passeggiata su una montagna di inverno, dove gli unici rumori sono i tonfi della neve dagli alberi; è come un lago alpino che alla vista ti allarga il cuore.

Semplice e complesso, questo libro: narra una storia minima, di un figlio i cui genitori amano intensamente la montagna e di un'amicizia che su una montagna scandisce tutte le tappe della vita; i silenzi sono più intensi delle parole; gli sguardi si dirigono sugli stessi boschi, gli stessi pascoli, le stesse creste. Eppure in ogni pagina sembrano vibrare le grandi domande che frugano nel senso della vita.

C'è un padre e un figlio che trascorrono la notte in un rifugio e poi cercano di risalire un ghiacciaio; ci sono due bambini che appartengono a due mondi diversi - la città e la montagna, appunto - ma che nelle scorribande dell'estate si scoprono; c'è l'eredità di un rudere che potrà diventare un rifugio da tutto e da tutti; ci sono questi due amici che crescono e si trovano di fronte alle scelte che contano, alla prese entrambi con la loro solitudine, che sembra consentire solo la loro amicizia, in mezzo a tanta distanza.

Solitudini diverse, scelte diverse, ma l'amore per la montagna come denominatore comune. Più quella domanda che ho messo all'inizio e che richiama la ruota che è simbolo scoperto sulle cime del Nepal:  otto raggi che corrispondono alle otto montagne, circondate da otto mari, e al centro il monte Sumeru. Chi avrà dato più senso alle vita? Pietro, il ragazzo di città, che si metterà in movimento per il mondo, senza alcuna radice, cercando altre montagne? Oppure Bruno, che dalla sua montagna non si distaccherà mai, anche quando lo esigerà lo stesso buon senso?

Magnifico romanzo, Otto montagne, compiuto e asciutto come un romanzo breve, eppure con il respiro lungo della grande storia. Con un italiano bello, ma aiutatemi a dire quanto, che lascia il sapore di ogni frase, sarà che Cognetti non cerca effetti speciali ma lingua precisa, sarà che c'è dietro la lezione dei grandi americani (Jack London? Ernest Hemingway?). Ma soprattutto con tanta montagna: non la montagna dei turisti usa e getta, degli sciatori della domenica, degli alpinisti a caccia dell'ennesimo trofeo, piuttosto la montagna di chi la abita - malgrado tutto -, di chi ci lavora, di chi la sente dentro.

lunedì 8 settembre 2014

I fatti che ti portano fuori pista e le mille luci di New York

I fatti sono semplici, i fatti sono fatti
I fatti sono pigri, i fatti sono matti
I fatti dipendono dal punto di vista
Se non fai attenzione ti portano fuori pista

Così cantavano i Talking Heads, la band che più di tutte credo riassuma la scena newyorkese degli anni Ottanta. Così cantavano e queste parole ritrovo in Le mille luci di New York di Jay McInerney, romanzo divorato solo questa estate, molti anni dopo essersi imposto come best-seller, con tanto di film a ruota.

"Come hai fatto ad andare in rovina?" chiese Bill.
"In due modi", rispose Mike, "gradatamente prima, e poi di colpo"

E così nel libro di McInerney ritrovo anche le parole del grande Hem, in Fiesta.

Due citazioni che ci portano perfettamente dentro questa storia. Perché, in effetti, quali sono i fatti che hanno portato "fuori pista" il protagonista (il cui nome, in un libro imperniato sulla seconda persona, non è dato sapere)? Com'è che è andato in rovina?

Ecco, è questa la storia che si racconta, la storia di un giovane che è una nave che si incaglia su un fondale basso, che è un sipario che scende e non si sa se si riaprirà per un secondo atto, che è un'auto che ha innestato la retromarcia per tirarsi indietro da tutto ciò che sarebbe ragionevole e raccomandabile.

Non sarà granché originale, la trama. Ma poi metteteci la New York degli anni Ottanta, con i suoi locali, i ritmi che pulsano nelle notti e nelle vene, le luci che seducono e illudono, i fiumi di cocaina. Metteteci una buona pena capace di scavare dentro, a volte perfino di commuovere (penso allo scampolo di vita conclusiva della madre). E allora sì, questo è un libro che si fa davvero leggere.

venerdì 11 luglio 2014

Il grande Raymond e le forbici dell'editor

"Tu credi di raccontare una cosa. In realtà, ne racconti dieci nello stesso tempo. Deve essere l'alcool".
"E se fosse quello che descrivo? Gli effetti dell'alcool?"
"Tu hai qualcosa da dire, ma troppe parole per dirlo. E a quel punto arrivo io".

Dedicato a tutti coloro che nella propria libreria hanno riservato un posto particolare a Raymond Carver - come del resto il sottoscritto. Ma non sono a loro, perchè in realtà Forbici di Stéphane Michaka (Edizioni Clichy) non può non catturare tutti coloro che nei libri cercano i segreti degli stessi libri.

Gli strani percorsi della creatività, la scrittura come inferno e paradiso, i meccanismi del successo editoriale, le inesauribili complicazioni del rapporto tra le opere e la vita... tutto questo e anche altro ho ritrovato in questo libro sorprendente che gira intorno al grande Raymond e delle persone che molto hanno contato nei suoi pochi anni.

Sono uno scrittore. Cioè, spero di diventarlo. 

E' questo il demone che agita la vita di Raymond, unica certezza tra molti incubi e fiumi di alcool. Lo ha deciso a soli 15 anni: sarà Hemingway, o nient'altro. E sarà nient'altro, sembra. Chi potrà mai scommettere su di lui? Il sogno americano e i suoi cocci, quasi una sentenza senza appello.

Poi c'è quell'editor che decide di pubblicarlo. Ma sono davvero suoi i suoi racconti? Suoi o dell'editor che a forza di tagli lo imporrà per quello che è e non è mai stato, il maestro del minimalismo?

E ci sono anche le due donne della vita, c'è la maledizione del bere, c'è la maledizione della malattia quando il peggio sembra ormai alle spalle, quando una nuova vita si spalanca...

Da leggere, questo libro singolare, spiazzante. Che raccomando anche per i quattro racconti che intervallano la narrazione, o piuttosto si intrecciano alla narrazione, in un vertiginoso gioco di corrispondenze tra la vita e la scrittura. Racconti così squisitamente carveriani, del resto....

lunedì 2 giugno 2014

Gay Talese, giornalista e contastorie

Credo che sia legittimo scrivere delle inchieste con le armi proprie di colui che racconta delle storie.

Io aspiro ad essere un buon contastorie, con una caratteristica importante, ed è che io non mi allontano dai fatti e uso soltanto dei nomi reali.

Ci sono grandi romanzieri che sono stati dei magnifici giornalisti, come Graham Greene, John O'Hara o Hemingway. Io scrivo dei reportage, e un reportage non è narrativa. Bisogna stare molto attenti a non immaginare assolutamente nulla. Spetta al romanziere immaginare.

Lo scrittore di non-narrativa deve lavorare sull'aspetto interiore del personaggio, su ciò che lo circonda, sull'atmosfera nella quale vive. Tutto ciò dà alla cronaca un'aria di narrativa, ma ci sono differenze e sfumature. In un buon reportage, i fatti si devono subordinare al personaggio e non il contrario.

(Gay Talese, sul Venerdì di Repubblica, intervistato da Eduardo Lago)

lunedì 24 febbraio 2014

L'indimenticabile montanaro venuto dall'Abruzzo

Nick Molise era convinto che ogni mattone che aveva posato, ogni pietra che aveva modellato, ogni marciapiede o muro o caminetto che aveva costruito, ogni lastra tombale che aveva ideato appartenessero alla posterità. Aveva una passione tremenda per il lavoro: e con uno sguardo amaro seguiva il sole, il quale, a suo parere, si muoveva troppo rapidamente nel cielo. Terminare un lavoro lo riempiva di una profonda tristezza. Il suo amore per la pietra rappresentava un piacere ancor più pregnante della sua passione per il gioco, o per il vino, o per le donne.

Potete metterci la mano sul fuoco: Nick Molise è uno dei grandi personaggi che la letteratura americana del Novecento ci ha portato in dono. E pensare che non ne è stata affatto avara. Eppure c'è anche lui, insieme al grande Gatsby di Fitzgerald, al Philip Marlowe di Chandler o al Robert Jordan del vecchio Hem. Anche lui tra gli indimenticabili, questo vecchio montanaro venuto dall'Abruzzo, consumato dall'alcol e dalla fatica, ignorante, insopportabile padre padrone, da prendere o lasciare.

E John Fante, già grande per molti altri libri, lo sarebbe anche solo per Nick Molise - e in ogni caso per le pagine del suo ultimo capolavoro, La confraternita dell'uva

Giudice insindacabile in famiglia, certo. Smodato e rissoso fuori, certo. Per molti versi lo stereotipo dell'immigrato italiano. Eppure quanta umanità, in Nick Molise. L'uomo orgoglioso delle sue mani con cui - anche lui - ha costruito un pezzo di America. L'uomo da non prendere mai a modello, ma che per certi versi ha saputo lui prendere la vita per il verso giusto. Magari assieme ai suoi vecchi amici - la confraternita di altri personaggi ugualmente rissosi e insopportabili. Magari sollevando fino all'ultimo un bicchiere di vino, solo per non essere da meno, solo per sentirsi vivo.
 

sabato 16 novembre 2013

Se il bere non rende più artista l'artista

Hemingway o Fitzgerald non bevevano perché erano cretaivi, diversi o moralmente deboli. Bevevano perché é quello che fanno gli alcolisti.

Probabilmente è vero che le persone creative sono più vulnerabili di altri all'alcolismo e alla dipendenza dagli stupefacenti, e allora?

Siamo tutti uguali quando vomitiamo ai bordi della strada.

(Stephen King, On Writing, autobiografia di un mestiere, Sperling & Kupfer)

sabato 14 settembre 2013

Imbarazzato da parole astratte, come gloria e onore

Non dissi niente. Ero sempre imbarazzato dalle parole sacro, glorioso e sacrificio e dall'espressione invano. 

Le avevamo udite a volte ritti nella pioggia quasi fuori dalla portata della voce, in modo che solo le parole urlate giungevano, e le avevamo lette su proclami che venivano spiaccicati su altri proclami, da un pezzo ormai, e non avevo visto niente di sacro, e le cose gloriose non avevano gloria e i sacrifici erano come i macelli a Chicago se con la carne non si faceva altro che seppellirla.

C'erano molte parole che non si riusciva ad ascoltare e si finiva che soltanto i nomi dei luoghi avevano dignità. Anche certi numeri e certe date, e coi nomi dei luoghi erano l'unica cosa che si potesse dire che avesse un significato.

Parole astratte come gloria, onore, coraggio o dedizione erano oscene accanto ai nomi concreti dei villaggi, ai numeri delle strade, ai nomi dei fiumi, ai numeri dei reggimenti e alle date.

(Ernest Hemingway, Addio alle armi, Mondadori)

mercoledì 11 settembre 2013

Addio alle armi, storia di una diserzione


Racconta, il grande Hem, di aver scritto questo libro mentre il suo secondo figlio nasceva in Kansas e di averlo riscritto mentre suo padre moriva suicida in Illinois - inquietante anticipazione del suo stesso destino.

Aggiunge il grande Hem che questo libro finì per uscire il giorno del grande crollo in Borsa, il venerdì nero di Wall Street, il disastro piantato nella storia del Novecento, in mezzo alle due grandi guerre.

Spiega, il grande Hem, che il fatto questo libro fosse tragico non lo rendeva infelice, un po' perché era già convinto di suo che la vita sia una tragedia, molto perché l'idea di creare con abbastanza verità da essere contenti di leggere ciò che si era creato e di farlo ogni giorno era comunque una bella gioia.

E anni dopo ricorderà, il grande Hem, che da quando questo libro era stato scritto solo per tre anni il mondo era stato capace di rimanersene in pace: e ora forse è chiaro perché uno scrittore debba interessarsi al continuo, prepotente, criminale, sporco delitto che è la guerra.

Questo libro ha un titolo che è già bellissimo - Addio alle armi - e una copertina - nell'ultima edizione negli Oscar Mondadori - che ritrae lo stesso Ernest Hemingway, ancora molto giovane e senza barba, disteso su un letto di ospedale della prima guerra mondiale, dopo essere stato ferito (non gravemente).

Il sorriso dice molto - esprime soprattutto il sollievo della distanza dal grande mattatoio in prima linea.

Storia anche in parte autobiografica - quella di Addio alle armi. Storia di una diserzione. Dopo i massacri, ma anche dopo le orrende rappresaglie successive alla rotta di Caporetto, le esecuzioni sommarie con cui gli alti papaveri dell'esercito italiano vollero punire i loro subordinati e liberarsi di ogni responsabilità.

 (Quelli che interrogavano avevano tutta l'efficienza, la freddezza e il controllo di sé degli italiani che sparano senza che nessuno spari a loro)

Addio alle armi, addio alla guerra, appunto. Perché di fronte a quell'ecatombe anche liberarsi della divisa e attraversare una frontiera può essere atto di umanità, sentimento più forte del piombo, fame di futuro.





lunedì 25 febbraio 2013

L'editor che inventò Hemingway e Fitzgerald

E' un nome di cui sentiremo parlare molto, se è vero che la sua storia diventerà presto un film, nientemeno che con Colin Firth protagonista, titolo Genius, che già dice molto. E davvero, non è cosa che ti aspetti, per uno che di mestiere ha fatto l'editor, mestiere splendido ma che sembra per forza di cose implicare l'ombra, il posto comunque lontano dal cono di luce.

Io per primo di Max Perkins non sapevo niente e avrei continuato a non sapere non fosse stato per un bell'articolo di Antonella Barina sul Venerdì di Repubblica.

E dunque, Max Perkins è stato l'uomo che ha scoperto gente come Francis Scott Fitzgerald ed Ernest Hemingway, per dirne solo due. O più precisamente, che ha fatto in modo che Francis Scott Fitzgerald ed Ernest Hemingway fossero quello che sono. Perché con Perkins è anche il lavoro di editor che si reinventa: non più un uomo che corregge le bozze, che interviene su qualche virgola e qualche ripetizione, ma il professionista che entra nel cuore della scrittura.

E' grazie a lui che libri come Il grande Gatsby sono quali li conosciamo.

Conclude Antonella Barina, che ci segnala anche un libro in uscita per le edizioni Elliot, Max Perkins, l'editor dei geni, di Andrew Scott Berg:

Quando Perkins morì nel 1947, a 63 anni, era ormai un mito nel mondo editoriale: aveva trasformato il ruolo dell'editor, un tempo correttore della punteggiatura (o poco più), in colui che sa quali libri pubblicare e come renderli pubblicabili. 

Eppure Perkins morì solo e logorato dall'alcol, leitmotiv della letteratura americana da Poe a Faulkner a Bukowsi. Passando ovviamente per le creature letterarie di Perkins: Fitzgerald, Hemingway, Wolfe...

Sì, credo che ci sia proprio materia per un bel film.


venerdì 17 febbraio 2012

Ma dov'è l'Ulisse di James Joyce?

Dicono che sia una festa per i filologi ma che per tutti gli altri le questioni che pone sono da rompersi la testa.

Dicono che per quanti sforzi si faccia per restituirlo alla sua versione originale non si arriverà mai da nessuna parte, perché è impossibile provare a ricostruire un testo perfetto che non esiste o non esiste più.

Dicono che non ci si può fare proprio niente, perchè lo stesso James Joyce continuò a correggerlo e ricorreggerlo senza sapere più, a un certo punto, cosa aveva davvero tra le mani.

E comunque c'è poco da fare, tanto è un libro che è un'impresa leggere, lasciato lì anche da alcuni dei più grandi estimatori. Lo stesso Hemingway si sperticava in lodi ma lo lasciò dopo poche pagine.

Chissà quante cose si può dire e non dire dell'Ulisse di Joyce. Tutto questo, tra l'altro, me lo rende quasi divertente.


Tuttolibri ha parlato recentemente della nuova edizione proposta dalla Newton Compton, proponendo il confronto tra il suo incipit e quello della classica traduzione di Mondadori, una cinquantina di anni fa.

Così cominciava quest'ultima:

Solenne e paffuto, Buck Mulligan comparve dall'alto delle scale, portando un bacile di schiuma su cui erano posati in croce uno specchio e un rasoio. Una vestaglia gialla, discinta, gli levitava delicatamente dietro.

E così comincia la nuova traduzione:

Statuario, il pingue Buck Mulligan spuntò in cima alle scale, con in mano una ciotola di schiuma su cui giacevano in croce uno specchio e un rasoio. La vestalia gialla, slacciata, era lievemente sostenuta alle sue spalle dall'aria delicata del mattino.

Ma di quale libro stiamo parlando?





sabato 10 settembre 2011

Il grande Hem è meno grande senza sbronze e safari?

Di lui ne parleremo a lungo, con l'anniversario della sua scomparsa alle porte, quindi meglio armarsi di santa pazienza. Caro vecchio Hem, che cosa ti combineranno?

E poi di chi (o di cosa) si parlerà davvero? Di te o del mito che di te è stato fatto, certo non senza la tua complicità?

Perchè è così, quando si parla di Ernest Hemingway in realtà non si sa di chi (o di cosa) si parli. E ha ragione da vendere Marco Cicala, sul Venerdì di Repubblica.

Eterno reduce dei Ruggenti anni Venti, Hemingway visse sino all'ultimo in una lunga bugia autoprodotta: l'affabulazione. Menzogna che siamo disposti a perdonare perché almeno è raccontata bene, ma pur sempre patacca rimane

E dunque, si dice che fece la Guerra di Spagna e poi partecipò alla Liberazione di Parigi del 1944, ma errore, nell'uno e nell'altro caso fu poco più di un turista. Si dice che fu un espertissimo di corride, ma gli espertissimi smentiscono sdegnati. Si dice che all'Havana fosse implicato in chissà quali storie di spionaggio e controspionaggio, ma pare che sia un film. Si dice che abbia sfidato in duello un tipo per un insulto ad Ava Gardner, ma si tratta di un altro film. Si dice che per lui l'amicizia fosse sacra, ma pensate solo a come ha trattato tutti coloro che l'hanno aiutato a diventare il grande Hem, da Sherwood Anderson a Francis Scott Fitzgerald.

E allora? Il grande Hem è meno grande senza sbronze e safari?

Afferma ancora Marco Cicala:


Per fortuna i grandi libri ci tengono al riparo da chi li ha scritti

Io faccio un passo avanti. E dico: mancherebbero all'appello diversi grandi libri, senza uomini così, sbruffoni e mitomani, incontenibili affabulatori, giganti sia nello sfiorare il cielo che nel rotolare per terra.

mercoledì 24 agosto 2011

Se il grande Hem è un po' meno grande

Di lui ne parleremo a lungo, con l'anniversario della sua scomparsa alle porte, quindi meglio armarsi di santa pazienza. Caro vecchio Hem, che cosa ti combineranno?

E poi di chi (o di cosa) si parlerà davvero? Di te o del mito che di te è stato fatto, certo non senza la tua complicità?

Perchè è così, quando si parla di Ernest Hemingway in realtà non si sa di chi (o di cosa) si parli. E ha ragione da vendere Marco Cicala, sul Venerdì di Repubblica.

Eterno reduce dei Ruggenti anni Venti, Hemingway visse sino all'ultimo in una lunga bugia autoprodotta: l'affabulazione. Menzogna che siamo disposti a perdonare perché almeno è raccontata bene, ma pur sempre patacca rimane

E dunque, si dice che fece la Guerra di Spagna e poi partecipò alla Liberazione di Parigi del 1944, ma errore, nell'uno e nell'altro caso fu poco più di un turista. Si dice che fu un espertissimo di corride, ma gli espertissimi smentiscono sdegnati. Si dice che all'Havana fosse implicato in chissà quali storie di spionaggio e controspionaggio, ma pare che sia un film. Si dice che abbia sfidato in duello un tipo per un insulto ad Ava Gardner, ma si tratta di un altro film. Si dice che per lui l'amicizia fosse sacra, ma pensate solo a come ha trattato tutti coloro che l'hanno aiutato a diventare il grande Hem, da Sherwood Anderson a Francis Scott Fitzgerald.

E allora? Il grande Hem è meno grande senza sbronze e safari?

Afferma ancora Marco Cicala:


Per fortuna i grandi libri ci tengono al riparo da chi li ha scritti

Io faccio un passo avanti. E dico: mancherebbero all'appello diversi grandi libri, senza uomini così, sbruffoni e mitomani, incontenibili affabulatori, giganti sia nello sfiorare il cielo che nel rotolare per terra.

mercoledì 20 luglio 2011

Hemingway e Moravia, chi la fa l'aspetti

Forse la critica letteraria non sarà il modo più diretto e sicuro per accertare le qualità umane di chi la critica la esercita, però mi hanno sempre fatto meditare gli strani e improvvisi movimenti che la morte di un autore produce sui giudizi che lo riguardano. Accelerazioni e scarti che, mi sa, poco hanno a che vedere con i tempi dello studio e del ragionamento, e molto invece con i vizi e le virtù che ci appartengono.

Prendete Alberto Moravia, per esempio. Leggo sulla Nuova Antologia - un articolo a firma di Gennaro Cesaro - che la salma di Ernest Hemingway era ancora calda, dopo il suicidio del 2 luglio 1961, che lo scrittore romano ne decretò la morte anche letteraria. Lo fece su L'Espresso, titolo già più che eloquente: Hemingway: niente e così sia.

Vaticinava in questo modo, Alberto Moravia, a proposito del grande Hem e di miti analoghi:

Essi sono fatti per le masse e le masse li dimenticano appena ne sorgano degli altri più moderni e più seducenti

La cosa che colpisce, naturalmente, è che parole così chiare e crude siano state pronunciate solo post mortem. Non mi ricordo bene, però mi pare che Moravia non fosse nuovo a cose del genere.

Cinque anni dopo la sua morte, intendo la morte di Moravia, lo stesso settimanale uscì con questo titolo: Moravia, chi era costui?

Hem, nel frattempo, se la cava piuttosto bene. Legge del contrappasso o semplicemente umano, troppo umano?

venerdì 15 luglio 2011

L'arte dello scrivere e il respiro

Se c'è un'arte dello scrivere io non la conosco, però ne conosco il mestiere, parola laica che mi aiuta a intendere il mio lavoro per ciò che è, un fare artigianale e quotidiano: metterti al tavolo ogni mattina senza troppi grilli sull'ispirazione, ascoltando invece l'insoddisfazione che ti abita ripetutamente quando ti accorgi che non funziona nulla di quanto hai scritto il giorno prima, quando non ti ritrovi nel modo e nel tono.
Per me scrivere è in gran parte tecnica dello scrivere


Beh, questo dice Daniele Del Giudice, in una bella riflessione pubblicata qualche tempo fa su La Domenica della Repubblica, titolo L'arte dello scrivere. Bella, certo, ma che mi convince poco. Chissà perché l'alternativa è sempre secca, la scrittura o è ispirazione che ti rapisce o è mestiere che reclama abilità e perseveranza artigiana.

E dunque, penso che l'insoddisfazione dello scrittore rispetto al suo lavoro sia cosa naturale, quasi doverosa. Sono meno convinto quando Del Giudice parla di un lavoro lungo, faticoso e a volte noioso perché è minuto e angariato dal dettaglio.

Fermo restando che perfino il grande Hemingway magari scriveva di getto (e nei fumi dell'alcool), ma dopo anche lui si faceva qualche problema - Mi chiesi che razza di scrittore ero se mi veniva bene già il primo racconto - possibile che la scrittura debba essere mestiere, e non piuttosto sguardo?

Intendo la possibilità di guardare con occhi diversi le cose del mondo e della vita. Di sorprendersi e di sentire qualcosa agitarsi dentro per quella sorpresa. Di sorprendersi per voi volerla condividere, quella sorpresa.

Diceva Henry Miller:

Direi che succede tutto negli attimi di calma, di silenzio, mentre cammini o ti radi o giochi a qualcosa, persino mentre parli con qualcuno che non ti suscita grande interesse... Tutto ciò che facciamo, tutto ciò che pensiamo esiste già, e noi siamo solo intermediari, ecco tutto, che pescano quel che c'è nell'aria


Il problema è accorgersi che si respira.

martedì 24 maggio 2011

Se la provincia è un po' come l'America

Uno pensa alle grandi città, a Roma, a Milano, magari anche a Torino, a Firenze, a Genova.... insomma alle città con le case editrici, le grandi librerie, i caffé storici, i circoli che contano, e via di seguito, facile pensare così, pensare che cultura e grande città vadano a braccetto.

Per fortuna poi che a volte lo sguardo può cadere anche su una pagina come questa di Luciano Bianciardi, tratta da Il lavoro culturale, libro straordinario di volti e parole e idee della provincia più provincia, figuratevi, la Maremma del dopoguerra.


Noi ordinavamo bicchierini di grappa e si restava lì un paio d'ore, a sorseggiarla, a guardare i camionisti, a parlare di letteratura. Letteratura americana, naturalmente; e veniva sempre il momento in cui il nostro ospite osservava che quell'angolo di provincia, così, con la campagna a ridosso e la grande strada della capitale, e i camionisti, un posticino così, tranquillo, bene illuminato, pareva proprio uscito da una pagina di Hemingway. O di Saroyan.

La provincia doveva essere un po' tutta così, fosse America, Russia, o la nostra città. La provincia, culturalmente, era la novità, l'avventura da tentare


E non so se ci voglio davvero credere, non so se vale solo per tempi ormai lontani, non so se è più un crampo di nostalgia, una velleità, o un dato di fatto, ma sogno questa provincia, mi piace pensare che l'Italia sia questa immensa rete di compagnie amatoriali, filarmoniche, associazioni delle più varie, storici locali, bibliotecari, maestri, lettori appassionati... che sia questa l'Italia della grande provincia. O che magari possa esserla.

venerdì 14 gennaio 2011

Dal suono della campana ai tre pescatori

Vi ricordate Per chi suona la campana? - non il libro di Ernest Hemingway e relativo film -  ma la poesia inglese di John Donne, grande poeta del Seicento inglese, che a quel libro e a quel film dà il titolo. La straordinaria poesia che comincia con Nessun uomo è un'isola per finire con uno dei più grandi richiami alla responsabilità? E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te. Ecco, oggi questo stesso straordinario richiamo lo ho ritrovato in una pagina della poetessa polacca Wislawa Szzymborska. Dall'Inghilterra alla Polonia, tre secoli più tardi. Lo stesso rigore, lo stesso senso di appartenenza a tutti, la stessa impossibilità della solitudine.

Dei pescatori tirarono fuori dagli abissi una bottiglia.
Dentro c'era un pezzo di carta, con scritte queste parole: "Aiutatemi! sono qui. L'oceano mi ha gettato su un'isola deserta. Sto sulla sponda e aspetto aiuto. Fate presto. Sono qui!".
"Non c'è data. Sicuramente ormai è troppo tardi. La bottiglia può aver galleggiato in mare per molto tempo" disse il primo pescatore.
"E non c'è indicazione del luogo. Non si sa neanche quale oceano sia" disse il secondo pescatore.
"Non è né troppo tardi né troppo lontano. L'isola  Qui è ovunque" disse il terzo pescatore.
Seguì una sensazione di disagio, calò il silenzio. E' quel che accade con le verità universali.

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...