Visualizzazione post con etichetta Tibet. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Tibet. Mostra tutti i post

sabato 30 giugno 2018

Il mio Jack: c'è ancora strada?

Eppure funziona sempre così con Jack. Non lo trovi mai dove lo cerchi. Non ti risponde mai come ti aspetteresti. 

Forse è anche per questo che uno scrittore così intrinsecamente americano, inimmaginabile in un altro paese, ha saputo conquistare generazioni di giovani europei -  soprattutto italiani, francesi e tedeschi – con una presa ininterrotta anche quando negli Stati Uniti la sua parabola era in declino. 


Forse anche per questo ha saputo parlare alla generazione che nella politica ha coltivato le sue speranze di cambiamento, malgrado le sue stesse convinzioni. Parlando anche alla generazione successiva, quella che sulle macerie di quelle speranze se n’è andata per il mondo, poco importa se in Tibet, in Patagonia o in Nicaragua. 


 E oggi? Ora che è considerato uno dei più grandi scrittori americani del Novecento, i ragazzi di vent’anni possono ancora riconoscersi in Jack Kerouac? 


Che poi è una domanda assai meno scomoda rispetto all’altra: ovvero quanto possa riconoscermi ancora io, alla mia età. 


(da Jack Kerouac. The man on the road, Edizioni Clichy)

sabato 6 febbraio 2016

Tornando a casa in bicicletta, dalla Siberia

Prendete per esempio una cosa così: pedalare tre anni in bicicletta solo per tornare a casa, dall'ultimo lembo della Siberia alla placida Inghilterra, passando però anche per il Giappone, la Nuova Guinea, l'Australia, il Tibet, l'Afghanistan, l'Iran...

E' quanto ha fatto Rob Lilwall, insegnante di geografia che a un certo punto la geografia ha smesso di insegnarla per andarla a sperimentare nelle distanze del mondo. Ed è quanto poi, dopo, ci ha raccontato in In bici dalla Sibera a casa, pubblicato da Ediciclo. 

Che dire: è un viaggio pazzesco, un ritorno lungo 56 mila chilometri, il che vuol dire assai più di quanto misuri l'equatore; è il disegno, se disegno c'è, di un viaggiatore che schiva la linea retta e predilige il vagabondaggio. E' l'Odissea su due ruote dell'uomo che si perde, non si arrende, trova nuove vie, allunga il suo sguardo.

Non sarà un grandissimo narratore, Rob Lilwall, ma il libro è tutto in questa straordinaria avventura, che comincia nell'autunno siberiano, non lontano dai luoghi dello sterminio stalinista, con le temperature che dopo qualche giorno precipitano fino a meno quaranta, pensate.

Più volte il nostro mette a repentaglio la sua vita o avverte un pericolo che può essere letale, per esempio attraversando quelle lande della Nuova Guinea dove la vita di un uomo vale zero. Eppure, eppure, le pagine più belle del libro sono quelle su uno stupore che si rinnova quasi ogni giorno. I sorrisi della gente nell'Afghanistan dei talebani, l'ospitalità che non viene mai meno ovunque, anche in Iran, le oltre 200 persone che lo accolgono sotto il loro tetto - Robe ne tiene il conto -, il cibo o una bevanda o un saluto condivisi per strada.

Solo all'ultimo, quando ormai avverte l'aria di casa, gli viene rifiutata l'acqua. In tre anni anni è la prima volta che gli capita. E accade in un bar in Francia.

Un libro che è un giro sul mappamondo, ma anche un libro contro i pregiudizi, contro i luoghi comuni. Sarà un caso che dopo il suo ritorno l'ex insegnante di geografia si è messo a studiare teologia ed è andato a vivere a Hong Kong?

venerdì 14 agosto 2015

Amsterdam era un brivido di libertà

Era un brivido di libertà, Amsterdam, un sogno che aveva qualcosa a che vedere con altri sogni persi per strada. Anche un risarcimento, in un certo senso. 

Per ottenerlo erano sufficienti un treno nella notte, poche cose infilate in uno zaino e qualche lira in tasca – in tempi in cui l'euro non c'era e un viaggio era tale anche perché toccava cambiare valuta. 

Solo questo ed era un altro mondo che si spalancava. 

Chissà cosa aveva per la testa quel ragazzo che ero io. Chissà su quale futuro almanaccava. Oggi ad Amsterdam, domani in Tibet, o in Nicaragua, o forse anche in Patagonia. E sul serio, cosa avrei scelto nella vita? Il teatro d'avanguardia a New York o una capanna affacciata sul mare dei Tropici? 

Almeno almeno mi aspettava un appartamentino a Kreuzberg, il più  multietnico dei quartieri di Berlino. In ogni caso lontano. Oltre l'orizzonte su cui si allungava lo sguardo di ogni giorno. 

Via dal mio quartiere. Via dall'università da rievocare solo per le chiacchiere in corridoio e qualche morso di apprensione sul futuro, giustappunto. Via dalle cose che si poteva ragionevolmente pretendere dal sottoscritto. Lontano, lontano. 

E Amsterdam, è evidente, sarebbe stato un buon trampolino per staccarsi dalle cose come erano, verso le cose che mi attendevano.

(Paolo Ciampi, L'Olanda è un fiore, Ediciclo)

sabato 4 aprile 2015

Era un brivido di libertà, Amsterdam

Era un brivido di libertà, Amsterdam, un sogno che aveva qualcosa a che vedere con altri sogni persi per strada. Anche un risarcimento, in un certo senso. 

Per ottenerlo erano sufficienti un treno nella notte, poche cose infilate in uno zaino e qualche lira in tasca – in tempi in cui l'euro non c'era e un viaggio era tale anche perché toccava cambiare valuta. 

Solo questo ed era un altro mondo che si spalancava. 

Chissà cosa aveva per la testa quel ragazzo che ero io. Chissà su quale futuro almanaccava. Oggi ad Amsterdam, domani in Tibet, o in Nicaragua, o forse anche in Patagonia. E sul serio, cosa avrei scelto nella vita? Il teatro d'avanguardia a New York o una capanna affacciata sul mare dei Tropici? 

Almeno almeno mi aspettava un appartamentino a Kreuzberg, il più  multietnico dei quartieri di Berlino. In ogni caso lontano. Oltre l'orizzonte su cui si allungava lo sguardo di ogni giorno. 

Via dal mio quartiere. Via dall'università da rievocare solo per le chiacchiere in corridoio e qualche morso di apprensione sul futuro, giustappunto. Via dalle cose che si poteva ragionevolmente pretendere dal sottoscritto. Lontano, lontano. 

E Amsterdam, è evidente, sarebbe stato un buon trampolino per staccarsi dalle cose come erano, verso le cose che mi attendevano.

(Paolo Ciampi, L'Olanda è un fiore, Ediciclo)

lunedì 20 ottobre 2014

Il fiume al centro del mondo

Una Cina priva di un tale immenso corso d'acqua è quasi impossibile da immaginare.

E' il Fiume Azzurro, anche se di azzurro ha davvero poco. O piuttosto il Fiume Lungo, nome assai più comprensibile, visti gli oltre 6 mila chilometri dal Tibet a Shangai, attraverso lo sterminato continente asiatico. E anche, e più semplicemente, il Fiume: così, per antonomasia.

In cinese, è lo Yangtze: e per noi è poco più di una reminiscenza geografica dei tempi della scuola. Difficile, in ogni caso, essere pienamente consapevoli dell'importanza di questo fiume, cuore della storia e della civiltà della Cina (e quindi, tenendo a freno le nostre visioni eurocentriche, anche del mondo).

Forse non sarebbe stato così, senza quella spettacolare inversione di rotta di cui lo Yangtze è protagonista a sorpresa, con le sue acque che dopo una corsa di milleseicento chilometri incontrano la Montagna della Nuvola. Unico tra tutti i grandi fiumi che, nati dalle grandi montagne asiatiche, non si dirige al sud, ma punta a est, ancora più a est, senza sottrarre alla Cina una solo goccia d'acqua.

Viene da pensare che proprio quelle rocce su cui si infrange lo Yangtze siano l'ombelico del mondo, il luogo in cui si è decisa un bel po' della nostra storia. Ed è questa la sensazione che mi ha lasciato il bel libro di Simon Winchester, Il fiume al centro del mondo (Neri Pozza). Titolo davvero eloquente, per un viaggio straordinario, raro, imprevedibile.

Un viaggio a ritroso, dalla foce alle sorgenti. Verso le prime acque del Tibet, verso ciò che c'è stato prima di noi. Forse prima anche della stessa Storia, con i suoi disastri, le sue vergognose tragedie.


lunedì 14 luglio 2014

Il leopardo delle nevi che sta dentro di noi

Era il 1973 e l'inverno era alle porte. Partire prima di tutto è rispondere a una domanda che ancora oggi risuona: cos'è che spinge un uomo a partire e percorrere a piedi più di 400 chilometri, tra le montagne dell'Himalaya? 

Cosa c'è prima di questo bel libro che il tempo non ha logorato, Il leopardo delle nevi di Peter Matthiesen (edizioni Neri Pozza)?


Forse il fascino dell'antica civiltà tibetana, ancora non travolta dai tempi moderni. Forse il richiamo di questi posti, di queste cime innevate e gole profonde. 

O forse proprio quell'animale, quella creatura che è più un mito che una presenza. E in effetti solo in questo modo si può dare un senso a questo incredibile viaggio di due mesi e centinaia di chilometri dietro un animale raro ed elusivo, tanto che sembra avere la consistenza del sogno.

Del leopardo delle nevi di Peter Matthiesen riesce più facile raccontare qualcosa intorno a un fuoco che rintracciare le orme. Però è proprio questa la sfida. 

Tranne comprendere che, in qualche modo, il leopardo delle nevi siamo noi stessi e che in effetti ciò a cui si dà la caccia è un significato alla vita

lunedì 12 dicembre 2011

Il gioco dell'universo tra un padre e sua figlia

Era troppo, Fosco. Un uomo straordinario, nel bene e nel male. Affascinante e impossibile, ma niente a che vedere con la canzone di Gianna Nannini. Troppo bello, troppo eccentrico, troppo curioso. E troppo libero.

Fosco Maraini: i suoi viaggi per abbracciare il mondo, i suoi affetti che non si lasciavano rinchiudere tra quattro pareti.

Cosa può rimanere a una figlia di un padre così? Amore e ferite, senz'altro.Ma se la figlia è una scrittrice, se la figlia ha coltivato il senso delle parole, allora anche una manciata di taccuini può rappresentare un ponte tra due vite, il codice che svela il segreto, una promessa che si rinnova.

Dacia ce li ha sotto gli occhi e forse non sa bene cosa farsene, se aggiungere parole ad altre parole, se consegnarli ad altri sguardi. Dice, con Goethe:

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...