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lunedì 13 luglio 2020

Talete, il pozzo e i filosofi in famiglia

Vale sempre la solita storiella di Talete, il filosofo della Ionia che con la testa fissa alle stelle non si accorse del pozzo e ci cadde dentro, finendo non solo ammaccato ma anche deriso dalla sua serva. In attesa che piovano smentite è sempre così, non si scherza con le controindicazioni della filosofia nella vita quotidiana. 

Ma se a smentire sarete voi, pensate a quando vostro figlio vi confesserà cosa ha scelto all'università. Direte anche voi che con la filosofia non si mangia? Che è anche vero, benché la filosofia sia di sicuro in buona compagnia, pensate che io volevo fare l'archeologo.

Diciamo che questa può essere la giusta premessa per immergersi nella lettura de La Luna Viola, il libro con cui Andrea Serra si ripropone dopo Frigorifero Mon Amour, sempre per Miraggi Edizioni. Per brio e intelligenza un bis atteso e concesso, ma questa volta con qualcosa di più. Perché Andrea, mentre racconta le sue vicende di padre e marito contemporaneo (o postmoderno?), accende tutte le miccie dell'umorismo, ma pone anche questioni maledettamente serie.

Sì, è un insegnante di filosofia costretto a fare i conti con la moglie che vola basso e con due figlie - Luna e Viola - poco disposte all'armistizio; con spese che lievitano e vacanze al mare che sono scelta scellerata. Ma com'è che di punto in bianco spuntano strani personaggi come Giordano Bruno, Giacomo Leopardi e Platone? 

Alto e basso, umano e divino, farsa e tragedia, ma anche molte altre coppie di opposti si agitano in queste pagine, che non a caso si completano con un Dizionario lunatico dei nomi e degli incantesimi per apprendisti filosofi e con una Bibliografia sragionata

Si ride, si pensa e addirittura ci si commuove, in queste pagine, lievi e profonde allo stesso tempo, dove il pensiero più solido, se non precipita nel pozzo assieme a chi lo pensa (portatore sano?), si fa volentieri poesia, autoironia, a volte magia. 

Non so bene come classificare La Luna Viola di Andrea Serra. Meglio così, anche nei miei studi al liceo provavo allergia per i filosofi più pronti alla classificazione, tipo Aristotele e Kant. Figurarsi i libri, che più sfuggono, meglio è. Si lasciano semplicemente leggere.

giovedì 4 giugno 2020

In spiaggia e al pub insieme a Montaigne

Parlare di Montaigne alla radio, ogni giorno per tutta un'estate, all'ora in cui la gente si sta rosolando sulla spiaggia o sta sorseggiando un aperitivo?

Quando gliel'avevano buttata lì, Antoine Compagnon, illustre professore del Collège de France, l'aveva trovata un'idea piuttosto stravagante. E allo stesso tempo così azzardata da non avere il cuore di tirarsi indietro. E così aveva iniziato. Sotto il solleone di luglio e agosto, a mezzogiorno: una frase del grande Michel e alcuni minuti di riflessione pacata, intelligente, niente affatto spocchiosa.

Un successo: come temo possa succedere solo in Francia (con un pensiero sconfortato alla programmazione radiofonica delle emittenti italiane nello stesso periodo).

E ignoro in virtù di quali singolari meccanismi certe cose possano funzionare e altre invece siano destinate al naufragio. Ma ora che quelle divagazioni di Compagnon sono state pubblicate da Sellerio - con il titolo, appunto, di Un'estate con Montaigne - so di avere messo le mani su un piccolo grande libro.

Quante cose che ci insegnano, le pagine di Montaigne. Il dubbio che fa bene, la tolleranza, lo sguardo dell'altro, la giusta cautela nei confronti di ogni ambizione... 


Da procurarselo, questo libretto. E da tenerselo a portata di mano, non importa se su una sdraio, un'amaca o al tavolo di un pub.

domenica 6 dicembre 2015

Dalla Scozia l'investigatore con i filosofi nel cassetto


"Avanzò al centro della stanza, per fare spazio alla sua idea di se stesso".

"Lei attese con pazienza che tornasse dopo essersi fatto un giro intorno al suo senso di colpa".

"Possiedo un'assenza affascinante, aveva detto"

"A volte ho perso ai punti boxando da solo".

Difficile lasciarsi dietro una delle pagine di William McIlvanney senza trovare almeno una frase potente e spiazzante come quelle che vi ho trascritto qui sopra. Di questo autore, figlio di un minatore scozzese e insegnante di letteratura a Glasgow non avevo mai letto niente. Anzi, diciamo pure che non avevo mai sentito parlare, nonostante i suoi lavori più fortunati risalgano ormai a una quarantina di anno fa. Si tratta della trilogia dedicata all'ispettore Jack Laidlaw, verso la quale hanno un enorme debito di gratitudine anche autori come Ian Rankin e Irvine Welsh.

Beh, se ho comprato Come cerchi nell'acqua (Feltrinelli) e l'altra sera ne ho attacco la lettura è stato solo per la quarta di copertina che mi prometteva una storia ambientata nelle squallide periferie di Glasgow, tra sordidi pub e locali ancora più equivoci.

C'è voluto assai poco per lasciarmi conquistare. Il primo paragrafo, la prima pagina, poi avanti. Non per una trama mozzafiato, che tale non è, anzi. Ma per la scrittura rara, soprattutto nei paraggi del noir. E per questo personaggio così particolare, questo ispettore che è battitore libero e pecora nera, animato da una forte idea di giustizia e allo stesso tempo abbondantemente disincantato, capace di riconoscere un'umanità anche nel più temibile dei gangster e consapevole che un'inchiesta è in primo luogo un'inchiesta su se stessi.

Uno, per dire, che nel cassetto nascoste le bottiglie, ma anche i libri di Camus e dei filosofi dell'esistenzialismo. E si vede, anzi, si legge. Merita.

domenica 25 agosto 2013

Il salto improvviso sulla pesantezza del mondo

Se volessi scegliere un simbolo augurale per l'affacciarsi del nuovo millennio, sceglierei questo: l'agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero d'automobili arrugginite.

(Italo Calvino, Lezioni americane, Oscar Mondadori)

venerdì 16 agosto 2013

Il dottor Ingravallo, che filosofava a stomaco vuoto

Qualche collega un tantino invidioso delle sue trovate, qualche prete più edotto dei molti danni del secolo, alcuni subalterni, certi uscieri, i superiori, sostenevano che leggesse dei libri strani: da cui cavava tutte quelle parole che non vogliono dir nulla, o quasi nulla, ma servono come non altre ad accileccare gli sprovveduti, gli ignari.

Erano questioni un po' da manicomio: una terminologia da medici dei matti. Per la pratica ci vuol altro!

I fumi e le filosoficherie son da lasciare ai trattatisti: la pratica dei commissariati e della squadra mobile è tutt'un altro affare: ci vuole una gran pazienza, della gran carità: uno stomaco pur anche a posto: e, quando non traballi tutta la baracca dei taliani, senso di responsabilità e decisione sicura, moderazione civile; già: già: e polso fermo.

Di queste obiezioni così giuste lui, Don Ciccio, non se ne dava per inteso: seguitava a dormire in piedi, a filosofare a stomaco vuoto, e a fingere di fumare la sua mezza sigheretta, regolarmente spenta.

(Carlo Emilio Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Garzanti)

mercoledì 14 agosto 2013

La giornalista che voleva cambiare il mondo

Le astrazioni la lasciano indifferente, le speculazioni la irritano. Da buon inglese ama stare con i piedi per terra, ama la concretezza della vita, le idee che hanno gambe per camminare. Ama una praticità da non confondere con un eccesso di attenzione per i propri interessi.

In effetti non sarà mai una pensatrice sistematica, capace di fare ordine, di andare al fondo delle cose. L’intuito conterà sempre qualcosa più della potenza analitica.
 

Poco importa se questo la renderà terribilmente dispersiva, farfalla che vola di argomento in argomento, attratta anche da un solo gesto, purché vi sia impressa l’umanità.
 

No, non è fatta per la filosofia, se questa vuol dire tagliarsi fuori dal mondo, sigillarsi tra tomi polverosi, smarrirsi in trattati.
 

Piuttosto il giornalismo, il giornalismo come lo intende lei: possibilità di porsi al servizio di una causa, di sciogliere l’irrequietezza di giovane studentessa in significati più ampi, di dare un senso alla vita immergendosi nel grande fiume della Storia.
 

E non se la vuole davvero far sfuggire, questa possibilità.
 

Libererà parole e sentimenti per un mondo che non c’è giorno e non c’è notte che non desideri più giusto.

(da Paolo Ciampi, Miss Uragano, Romano editore)

venerdì 19 luglio 2013

Dal cranio di Cartesio all'avventura delle idee

Un giorno chiuse i libri e partì, perché aveva deciso di non andar cercando altra scienza se non quella che avrei potuto trovare in me stesso, o nel gran libro del mondo.

Nemmeno lui, che certo non mancava di presunzione, avrebbe scommesso su ciò che l'attendeva: quella vertigine di scoperta, quel fiume straripante di novità forgiate dall'intelletto, quella sensazione di aver dato la spinta definitiva a un mondo vecchio di secoli, se non di millenni. Si chiamava Cartesio, e con il suo Discorso sul Metodo, fondò una nuova visione del mondo, il battesimo della modernità.

Anni dopo, nel 1650, il più gelido inverno che la Svezia ricordi, lo troviamo morente, forse per una polmonite. Un uomo ancora aggrappato alla vita, furioso con la malattia che gli sta sottraendo le carte che ancora vorrebbe giocare, indispettito con la regina Cristina, che lo ha invitato a Stoccolma, segnando la sua sorte. Tutta la sua scienza non gli servirà a vincere la partita a scacchi con il destino.

Le ossa di Cartesio di Russel Shorto (edizioni Longanesi) incomincia da qui, da quella notte in cui il grand'uomo che ha rivoluzionato il nostro modo di pensare, così come fece Aristotele per gli antichi, si congeda dal mondo.

Non è una biografia di Cartesio, è una storia di ciò che rimane di lui dopo la morte: e nemmeno un ragionamento sulla filosofia. Questa è la storia dei suoi resti mortali, tra riesumazioni e successive tumulazioni, e soprattutto la storia di una scomparsa inspiegabile, quella del suo cranio.

Roba da specialisti che hanno tempo da perdere? Da eruditi che collezionano particolari più o meno inutili? No, assolutamente, perché da questa storia, apparentemente marginale, si squaderna la più grande avventura, quella appunto delle idee che sgomitano per imporsi al mondo.

Dice Russel Shorto nella prefazione di aver cominciato per caso, la volta che si imbattè in una curiosa figura di antropologo, quel tipo di persone che ti possono far venire il mal di testa, ma che poi, all'improvviso, ti tolgono senza preavviso la comoda poltrona del tuo punto di vista abituale.

Che bel libro, questo. Un libro che mi entusiasma ancora di più per ciò che c'è dietro. Il dettaglio che si insinua per caso nella vita, che diventa passione o forse ossessione, montagna di dubbi, di domande sul tempo perso, sulle energie prosciugate, tranne poi spalancare un orizzonte.

giovedì 13 giugno 2013

Cartesio, il filosofo che scriveva in prima persona

Cartesio rompe con la tradizione segnalandolo innanzitutto con un discorso stilistico: il Discorso sul metodo è scritto in prima persona.

Così una delle più grandi opere filosofiche è anche una delle più leggibili, e serve come adeguato punto di partenza per una nuova epoca che pone al centro l'individuo.

Il Discorso sul metodo non comincia con formule matematiche o proposizioni scientifiche, nè schierando autorità esterne, ma con un essere umano in carne e ossa - Cartesio stesso - che siede solo, e pensa.

Il testo sprigiona un'atmosfera confortevole, accogliente: si riesce quasi a sentire il fuoco crepitare sullo sfondo. 

Siamo in un ambiente familiare: quello del romanzo, della narrativa, del teatro, del film. E' umano e, sì, moderno. 

(Russel Shorto, Le ossa di Cartesio, Longanesi)

sabato 9 marzo 2013

Con la filosofia non vi sono alberi

Non basta aprire la finestra
per vedere la campagna e il fiume.
Non basta non essere ciechi
per vedere gli alberi e i fiori.
Bisogna anche non aver nessuna filosofia.
Con la filosofia non vi sono alberi: vi sono solo idee.
Vi è soltanto ognuno di noi, simile ad una spelonca.
C'è solo una finestra chiusa e tutto il mondo fuori;
e un sogno di ciò che potrebbe esser visto se la finestra si aprisse,
che mai è quello che si vede quando la finestra si apre.

(Fernando Pessoa, Versi sciolti, Mondadori)

giovedì 13 dicembre 2012

La commedia dei filosofi e il coraggio di Camus


- Ah signore! Esistono ancora costumi parigini che riescono a stupirmi parecchio.
- L'avete detto, signore. E' una città singolare: amano talmente i bei pensieri che non riescono a frenarsi e ne parlano tutto il giorno, cisa che non lascia più il tempo di leggere. Vanno talmente matti per il patriottismo che appena c'è l'occasione diventano patrioti di due o tre paesi. Si sbranano in nome della pace e promettono la galera in nome della libertà.
- Ma da dove arriva tutto questo, vi prego?

E allora, per prima cosa, meno male che esistono ancora le piccole e piccolissime case editrici, quelle che fanno fatica ad arrivare a fine mese e se per questo ad arrivare anche in libreria, meno male che ci sono ancora in tempi in cui sempre di più il pesce grande divora il pesce piccolo e cresce l'onda di quanti ritengono che degli editori si può fare a meno, tanto ci si può pubblicare da soli, tanto c'è la Rete che ci pensa.

Poi ti capita tra le mani un libriccino di poche pagine, La commedia dei filosofi, un inedito per l'Italia nientemeno che di Albert Camus. Un testo per il teatro che l'autore de Lo straniero scrisse, con evidenti intenzioni polemiche, nel immediato dopoguerra. Ripescato, tradotto, riproposto da una piccola casa editrice di Pistoia, Via del Vento.

Poche pagine per rituffarsi nel clima della Parigi dove gli esistenzialisti erano sulla cresta dell'onda e si faceva a gara per entrare nei caffé frequentati da Jean Paul Sartre. Filosofia e impegno politico, come no. Ma Albert Camus aveva già staccato i suoi ormeggi ed era pronto a fustigare quel mondo, dove non mancano pedanteria e astrusità e col pensiero si volava troppo alto, tanto alto che si finiva per perdere di vista la vita autentica delle persone.

Ci voleva coraggio, allora, per scrivere un testo così, più dalle parti di Molière che di maestri del pensiero tanto in voga. Ci vuole coraggio oggi, per riproporlo. 



domenica 28 ottobre 2012

Seneca e la filosofia che non consiste nelle parole

Analizzati, scruta te stesso sotto ogni aspetto e sta' ben attento: poni 
attenzione soprattutto ad osservare se sei progredito solo nella filosofia o anche nel modo di vivere.

La filosofia non è un'arte che serve a guadagnarsi il favore del popolo, né è qualcosa di cui si possa fare bella mostra: la filosofia non consiste nelle parole, ma nelle azioni.

E non si ricorre a lei per passare con un certo diletto le giornate, perché il tempo libero non sia rattristato dalla noia: la filosofia forma e foggia l'animo, regola la vita, governa le azioni, insegna ciò che si deve fare e ciò che si deve evitare, sta al timone e dirige il corso delle navi in balia delle onde attraverso i pericoli.

(Seneca, Lettere a Lucilio, libro II)

venerdì 4 novembre 2011

O cuore, fa' conto d'avere tutte le cose del mondo


O cuore, fa’ conto d’avere tutte le cose del mondo,
Fa’ conto che tutto ti sia giardino delizioso di verde,
E tu su quell’erba fa’ conto d’esser rugiada
Gocciata colà nella notte, e al sorger dell’alba svanita

È stato molte cose insieme, forse molte vite simultanee, Omar Khayyam, poeta persiano la cui biografia si perde nella notte della storia e della leggenda.

Poeta, ma anche astronomo, matematico, filosofo. Dicono che fosse raffinato e irascibile, indulgente e pigro, ironico e malato di nostalgia. Riverito da molti, insultato da tanti altri.

E c'è chi lo ricorda come la voce di un Islam tollerante, chi come un miscredente che amava il vino e i piaceri più effimeri, chi come un mistico che, come tutti i mistici, sfugge al giudizio esatto, quello che intende definire e incasellare.

Molte cose, davvero. Ma nelle circa duecento quartine che ci ha lasciato (moltissime altre gli sono state attribuite nel tempo) c’è soprattutto l’uomo che si interroga, l’uomo che si mette a nudo per afferrare il senso del suo cammino su questa terra.

La sua voce ci arriva da lontano e ci accompagna ancora oggi, come quella dell’amico con cui è facile condividere, la parola, il brindisi, il silenzio. Per poi abbandonarsi pacatamente alla vertigine del tempo che passa.

Poiché non sono verità e certezza in nostro possesso,
Non si può con speranze dubbiose aspettare tutta la vita.
Il palmo della mano non deve lasciare la coppa del vino.
In tanta ignoranza dell'uomo che importa esser sobri o ebbri?

martedì 25 ottobre 2011

Seneca e l'uomo che si rovista dentro

Avrà anche ragione chi va dicendo che gli antichi romani non hanno avuto grandi filosofi, che la filosofia dei latini è stata tutta presa in prestito dai greci, però mi sa che bisogna intenderci proprio sulla parola filosofia.

Sarà pure vero, se si pensa alla filosofia come pensiero sistematico, chiave per decifrare i significati ultimi della vita e del mondo, ragionamento sulle idee. Però penso che la filosofia siasoprattutto quella sapienza, meglio ancora, quella saggezza, che deve funzionare come una bussola nella vita di tutti i giorni. E allora, allora leggete pagine come quelle raccolte in La serenità (Mondadori).

Leggete il grande Seneca, che con le sue parole sbuca dagli anni di Nerone e pure sembra scrivere oggi.

Leggete cosa risponde all'amico Sereno - un nome che è quasi un programma - che in realtà è più turbato che sofferente ("non sono propriamente malato, ma non sto nemmeno bene"), in preda a qualcosa di molto simile allo spleen di Charles Baudelaire. Si rivolgono all'uomo contemporaneo, le parole di Seneca. All'uomo che rovista dentro se stesso e non si piace.

Ci invita, Seneca, a decidere cosa conta davvero, a fare un passo indietro se necessario, a conquistare una libertà che pianta le sue radici dentro di noi.

Poi anche lui, con la sua vita, ci riuscì e non ci riuscì: come succede anche a noi, che ogni momento ci ripromettiamo qualcosa che difficilmente saremo in grado di mantenere, solo che ci proviamo di nuovo.

Seneca come noi, lo stesso tempo, le stesse domande.

sabato 1 ottobre 2011

Ma il dono non è un regalo

Più che il titolo è il sottotitolo di un libro come La logica del dono (Edizioni Messaggero Padova) a essere particolarmente eleoquiente: Meditazioni sulla società che credeva d'essere un mercato.

E ha ragione Roberto Mancini, filofoso - e filosofo "teoretico", pensate un po' - che sa strappare la filosofia dai cieli (troppo) alti delle speculazioni e delle astrazioni per riportarla nel cuore della vita di ognuno di noi. Ha ragione, perché parlare di dono significa parlare del nostro tempo, del tempo in una società dove tutto sembra si possa vendere e comprare, dove tutto ha un prezzo anche se si è perso la misura del valore.

Succede anche per il dono, che è troppo facile ridurre a regalo, a oggetto dato e ricevuto.

Il dono però può essere molto, molto altro: forma di relazione e persino visione del mondo. Il dono ci lascia intravedere una diversa economia, ci suggerisce un'altra politica (se non si confonde con i "presenti" a grandi elettori e ballerine), ha a che vedere, ci spiega Mancini, con il cambiamento di vita che la crisi di civiltà esige.

Leggendo questo libro potremo capire che "dare" è in effetti "darsi" e che il problema dei nostri tempi è anche "imparare a ricevere". E finiranno per non stupirci affermazioni certamente impegnative.

Per esempio sul presente:

Ovunque persista il tratto umano nella società e nella storia, lì resiste qualche esperienza dello spirito del dono

Oppure sul futuro:

Sono persuaso del fatto che la cultura del dono custodisca in sé le fonti spirituali, culturali e motivazionali per dare corso a qual cambiamento di civiltà che costituisce la sola risposta adeguata alla crisi che tuttora arresta il cammino dell'umanità

Peggio non staremo sicuramente.

martedì 27 settembre 2011

Il filosofo che si interroga sul senso del nostro tempo


Per quanto il problema della morte sia cruciale, forse è ancora più radicale la sfida che ci viene dal tempo in quanto tale, dalla temporalità irreversibile per cui il nostro essere è un divenire

Roberto Mancini è un filosofo - e addirittura un filosofo teoretico - di cui recentemente ho letto diversi libri, complice un incontro in Casentino nel quale, sperando di essere all'altezza, dovrò porgli qualche domanda (domenica 2 ottobre, ore 15.30, Pieve di Romena, nell'ambito di Le Parole e il Silenzio). E' anche un uomo che sa far scendere la filosofia dai più alti cieli dell'astrazione e usarla per le grandi questioni della nostra vita: come il tempo, per esempio, che poi davvero è la questione delle questioni, forse più ancora della morte.

Consiglio a tutti, allora, questo piccolo libro, Il senso del tempo e il suo mistero (Pazzini editore), piccolo ma denso, denso ma capace di parlare al cuore di tutti.

Pagine in cui si spiega che il tempo non è solo un contenitore di cose ed eventi, perché noi stessi siamo il tempo, noi stessi siamo intessuti di tempo. Pagine che ci esortano a comprendere che il tempo non è il nemico che ci toglie tutto,  perché il tempo in realtà ci dà tutto ciò che siamo, compreso la possibilità di esserlo. Pagine che ci restituiscono anche la dimensione del futuro, la proiezione verso il futuro, condizione imprescindibile per poter vivere pienamente il tempo.

Altro che giochi intellettuali. In ballo qui c'è il nostro rapporto con la vita. E la possibilità di capirla un po' di più, magari grazie a parole come queste:

L'orologio è il tentativo di vedere il tempo. Ma il tempo è invisibile. Però lo posso ascoltare...

mercoledì 11 maggio 2011

Ipazia e quel mistero che affonda nel cuore

C'era una donna allora ad Alessandria, il cui nome era Ipazia. Era figlia di Teone, filosofo della scuola di Alessandria, ed era arrivata a un tale vertice di sapienza da superare di gran lunga tutti i filosofi della sua cerchia

Così ci ha lasciato detto uno storico cristiano, Socrate Scolastico, e in fondo è poco meno di quanto sappiamo di Ipazia, donna che con la sua morte, prima ancora che con la sua vita, è diventata simbolo di molte cose. Donna che ha finito per rappresentare tutte le donne escluse e perseguitate, ma anche tutte le vittime dell'intolleranza e del fanatismo religioso. Lei, la pagana che nel quinto secolo dopo Cristo, nella metropoli della grande biblioteca, fu aggredita e massacrata da una schiera di monaci

Chi era davvero, Ipazia? Sacerdotessa o matematica? Eccentrica aristrocratica o raffinata filosofa? E perché fu uccisa?

A domande come queste ha provato a dare risposta una storica come Silvia Ronchey in Ipazia. La vera storia, un libro che è assai più bello del suo titolo, anzi del suo sottotitolo, decisamente fuorviante, perché questo è un libro che procede per sottrazione, che ripulisce le incrostazioni dei luoghi comuni, che mette in discussione i fatti assodati.

Il racconto di Ipazia allora diventa una sorta di Rashomon - vi ricordate la storia di quel delitto nel Giappone dei samurai, visto da diversi testimoni e da tutti raccontato in modo diverso?

E mentre si sgretolano le certezze di chi deve dare un senso a tutto, mentre ogni idea di piano o complotto convince meno della possibilità di un delitto mosso dall'oscurità umana di sempre - l'invidia che acceda, per esempio - ecco, sembra quasi di saperne di più sapendone in effetti di meno.

E di fronte a un assassinio per cui nessuno ha pagato - al contrario di quanto succede nei gialli - di fronte a questa vita che ci sfugge come sabbia tra le mani, con Silvia Ronchey possiamo condividere una sola convinzione:


Una cosa è certa: siamo e saremo sempre dalla parte di Ipazia

Che non è nemmeno poco.

sabato 30 ottobre 2010

Vito Mancuso e il silenzio che ci fa bene

 E' un libro straordinario, La vita autentica di Vito Mancuso (Raffaello Cortina editore), uno di quei libri che mi piace dire che fanno bene: e non importa se si sia credenti o no, non importa nemmeno se amiamo teologia o filosofia, perché questo è soprattutto un libro che ci riporta al centro della vita.

Tra tutte, mi ha colpito la riflessione sul rapporto diretto che esiste tra la nostra mente, il linguaggio, la menzogna. Magari è anche evidente, però spesso ci si dimentica.

La realtà in sé è necessariamente autentica, mentre la nostra rappresentazione di essa mediante il linguaggio, e prima ancora mediante la percezione mentale, necessariamente autentica non è; può essere anche inautentica, non di rado lo è

La menzogna non è nelle cose, insomma, è nelle parole che usiamo. E' in noi stessi, viene da noi. Non ci avevo mai pensato, ma la parola latina mens è radice sia di mente che di menzogna. 

Dice Vito Mancuso:
Ma come si controlla la mente? Riportandola al reale. Fermandola sul reale. Inchiodandola sul reale

E aggiunge qualcosa di importante non solo sulle parole, ma anche sul silenzio che a volte riesce a districarsi dalle parole.

Il grado di falsità è direttamente proporzionale al numero di parole pronunciate

Per questo il silenzio fa bene. Per questo può essere più vero di tante parole. 

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...