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venerdì 15 settembre 2017

Il Vietnam di Kim, così vicino, così distante

La storia del Vietnam e dei vietnamiti - dice Kim Thúy - vive, cresce e diventa complessa senza essere né scritta né raccontata.

Vero - e ho potuto scoprirlo solo a Mantova, in un incontro al Festival che nemmeno avevo messo in conto. Sono contento di aver scoperto questa scrittrice dal sorriso irresistibile e dalla straordinaria empatia, ancora più  sorprendente alla luce di una scrittura che invece si distingue per la sua rarefazione, la sua leggerezza poetica. 

E' tant'altro la storia del Vietnma, soprattutto per chi come me è più o meno rimasto ancorato al Vietnam di Apocalypse Now e dintorni o che al massimo ha orecchiato qualcosa sulle impetuose trasformazioni della città che un tenpo si chiamava Saigon. E in questa storia c'è anche la storia dei vietnamiti che hanno abbandonato il loro paese su barconi che non possono non rammentare altri barconi, altri mari dei nostri tempi: i nostri mari.

Kim, ragazzina, fu una delle persone che ce la fecero. Scampò ai naufragi e ai pirati. Insieme a tanti altri fu accolta in Canada. Ai suoi familiari venne data la possibilità di ricostruirsi una vita, magari ripartendo dia lavori più umili. Oggi - spiega - molti vietnamiti in Canada sono medici o dentisti o ingegneri. 

C'è tutto questo in Il mio Vietnam (Nottetempo), libro di poche pagine e grande poesia: il Vietnam dell'infanzia, il Vietnam del ritorno, il Vietnam trapiantato in Canada. 

Una finestra su un mondo che non conoscevo, la storia di una vita che è la storia di molti.  

mercoledì 30 dicembre 2015

Poche pagine per raccontare grandi vite

Ci sono Voltaire e Zenone, Baudelaire e Teresa d'Avila, Freud e Pitagora, Balzac e Ildegarda de Bingen, ci sono loro e ci sono tanti altri personaggi, tante altre figure che hanno lasciato il loro segno. Scrittori e mistici, poeti e sapienti, sovversivi dello spirito e sognatori.

Che galleria, quella che percorriamo con Silvia Ronchey ne Il guscio della tartaruga (Nottetempo), magari scoprendo che per raccontare la loro vita, per spremerne il succo, non c'è bisogno di volumi ponderosi, possono bastare anche tre paginette di parole distillate.

Che cosa hanno in comune? Che cosa raccontano davvero le loro vite?

Forse il genio, la forza della creatività, la fame di profondità.

Forse. Ma in comune c'è soprattutto lo sguardo di una storica che non si accontenta di mettere insieme nomi e date (date, anzi, non ce ne sono proprio), ma che cerca lampi di umanità, frammenti di vita autentica.

Questo non è un dizionario di uomini (e donne) illustri.

Piuttosto una trama di citazioni, profonde, illuminanti, spiazzanti, essenziali per il tessuto del nostro passato, del nostro presente. E' bello perdersi dentro. 

lunedì 1 giugno 2015

Il mondo è più bello se visto da una vetta

Non credete troppo al titolo. E' assai più di un vademecum, Vademecum per perdersi in montagna di Paolo Morelli (edizioni Nottetempo): un glossario divertito, irriverente, eccentrico, ora surreale con leggerezza ora spietatamente incollato alla verità delle cose.

Con tanto amore della montagna e altrettanta sana diffidenza per molti dei suoi sprovveduti frequentatori della domenica (tra cui grosso modo potrei annoverarmi anch'io).

Con diversi mirabili incontri ma anche una bella dose di disavventure possibili e pronosticate.

E su tutto la serena e condivisibile convinzione che il mondo è assai più bello se colto dalla prospettiva di una vetta, laddove ci si può illudere, non per tanto ma almeno per un pezzetto, che non esistano davvero ipermercati e giungle d'asfalto e spiagge prese d'assalto e... il resto aggiungetelo voi, al primo squarcio di orizzonte che vi spalanca un sentiero.

domenica 30 dicembre 2012

Un vademecum per perdersi in montagna

Non credete troppo al titolo. E' assai più di un vademecum, Vademecum per perdersi in montagna di Paolo Morelli (edizioni Nottetempo): un glossario divertito, irriverente, eccentrico, ora surreale con leggerezza ora spietatamente incollato alla verità delle cose.

Con tanto amore della montagna e altrettanta sana diffidenza per molti dei suoi sprovveduti frequentatori della domenica.

Con diversi mirabili incontri ma anche una bella dose di disavventure possibili e pronosticate.

E su tutto la serena e condivisibile convinzione che il mondo è assai più bello se colto dalla prospettiva di una vetta alpina, laddove ci si può illudere, non per tanto ma almeno per un pezzetto, che non esistano davvero ipermercati e giungle d'asfalto e spiagge prese d'assalto e...

mercoledì 25 gennaio 2012

La scrittrice da bambina e il brutto anatroccolo

Non sono giovane e penso anche di non essere una scrittrice.

Così dice di sé Milena Agus, all'inizio di questo piccolo intelligente libriccino, Perché scrivere (senza punto interrogativo), pubblicato da una piccola intelligente casa editrice come Nottetempo.

E non è vero, quello che Milena Agus afferma, anzi, nega di sè. Siamo di fronte a una delle migliori voci della narrativa italiana, anche se il successo è arrivato a sorpresa, in una storia che sa quasi di fiaba.

Però non è questo che conta. Milena Agus ci prende per per mano e ci accompagna nel suo laboratorio di scrittura, spiegandoci come ha cominciato a scrivere e che cosa questo significa per lei. Senza che questo abbia a che vedere con i soliti consigli per aspiranti scrittori.

Piuttosto è bello inseguire le sue parole di scrittrice - e di donna che si intuisce incline alla ritrosia sui fatti personali - e con lei ritrovare la Milena bambina, quando i libri erano il rifugio e il sogno di un'età difficile.

Scrivere aveva il sapore di libertà di un'adolescente che non sapeva fare niente di quello che sapevano fare gli altri e perciò provava a rifarsi in questo modo, scrivendo e vergognandosi di scrivere, equilibrista in una prova che era facile presumere che non sarebbe riuscita a portare a termine.

E oggi, oggi la scrittura, così dice, è ancora la tana che si porta dentro. Però questa storia è anche una bella versione della metamorfosi del brutto anatroccolo.

Che dopo tanto penare ora può concedersi uno scatto di orgoglio:

Scrivo come mangio: mi abbuffo e poi mi pento che nel piatto non sia rimasto nulla.

lunedì 11 aprile 2011

L'africano che al mistero diede del tu



E Agostino, il grande Agostino, il filosofo, il teologo, il maestro dello spirito, il vescovo di Ippona.


Agostino era africano. E già questo qualcosa lo dice. Comincia così il suo ritratto di Agostino la storica e scrittrice Silvia Ronchey, nel suo straordinario Il guscio della tartaruga (Nottetempo), galleria di vite più che vere ricostruite attraverso la trama delle loro citazioni.

Bello, davvero bello: uno sguardo sbilenco e curioso, la capacità di cogliere il corpo vivo, pulsante, sotto il guscio della tartaruga, appunto.

E Agostino, allora. Agostino che ebbe un'anima turbata e una prosa incantata. Che da ragazzo si imbestialì in amori diversi e tenebrosi. Che divenne un grande enigma a se stesso e prese a domandare alla sua anima perché fosse così triste.

Agostino che capì che la tristezza si consuma perché perde ciò che desidera nel momento in cui lo possiede. E che il piacere, dunque, non potrà mai scindersi dal suo contrario, il dispiacere, come due lati della stessa medaglia.

E forse fu proprio per questo che Agostino divenne Agostino, colui che oggi conosciamo o diciamo di conoscere.

Al mistero Agostino diede del tu

Lo cita Silvia Ronchey, che io cito, nello stesso libro in cui ci racconta di Charles Baudelaire.

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  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...