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venerdì 10 aprile 2020

L'austro-ungarico a zonzo nell'America di Lolita

Prendete un autore come Gregor Von Rezzori, nato nella Bucovina quando faceva ancora parte dell'impero austro-ungarico, uno che sembra incardinato in un'epoca al tramonto, dove i confini e i regni si disfano, le certezze si sbriciolano, il tempo pare declinato solo al passato. Prendetelo e speditelo nell'America del sogno - il sogno americano, ovvio - non nel primo ma nel secondo dopoguerra, quando l'impero austro-ungarico è un ricordo sbiadito e il presente è l'impero stelle e strisce. 

Non  più passeggiate in carrozza per Vienna, concerti di musica classica nei gazebo, balli in società, ora si fa avanti il mondo rappresentato nei libri di Dos Passos e Steinbeck o nei quadri di Hopper: diners, motel, distributori di benzina, coca cola e hamburger. 

Ecco, questa è l'esperienza di Gregor Von Rezzori, che a un certo punto della vita si trova a collaborare alla traduzione di Lolita di Vladimir Nabokov: un uomo, quest'ultimo, che ha lasciato San Pietroburgo e la sua lingua per l'America. 

Da quando ero diventato consapevole dell'esistenza dell'America - scriverà Von Rezzori, col suo cognome che di per sè rimanda a un'altra geografia  - ero stato invaso dal  desiderio di andarci e vagare per i suoi spazi sconfinati, che nella mia immaginazione erano popolati da bufali e grattacieli, pellerossa su mustang, gangster con le loro pupe, sassofonisti neri che suonavano musica nera, e Buster Keaton.

Mai avrebbe immaginato di fare questo viaggio sulle tracce di Humbert Humbert, l'annoiato professore scandalosamente sedotto. Mai  di arrivarci in un tempo in cui - come dirà - ciò che rimanevca dell'Europa non era più europeo. Per lo più si era trasformato in un'America di seconda mano

Ciò ne seguirà - tra scoperte, rivelazioni e delusioni - è raccontato in questo delizioso libretto, Uno straniero nella terra di Lolita (Guanda editore, con prefazione di Zadie Smith). 

Disneyland, Las Vegas, qualche indizio di beat generation - l'anno in cui il professore e Lolita si aggirano per l'America è lo stesso dei vagabondaggi dei protagonisti di On the road - un'irresistibile seduzione per un paese che è un continente e  si sta avviando a diventare mondo. Malgrado tutto, verrebbe da aggiungere.

La mia Lolita, in realtà, era l'America. Incredibile, lo scrittore austro-ungarico: l'America come una farfalla dei sogni che finalmente riesce a catturare. Allo stesso modo di Nabokov, grande entomologo, con le farfalle vere. 



lunedì 2 ottobre 2017

A San Pietroburgo, la città che è uno stato d'animo

Se  San Pietroburgo non fosse esistita, avrei inventato io questa città che sonnecchia sul fiume, come uno stato d'animo che mi corrisponde sempre.

Mi piace come Jan Brokken scrive, mi piace come sa raccontare i luoghi cogliendone l'anima attraverso le storie e le persone e in questo modo raccontando anche se stesso. Senza esibizionismo, senza la presunzione a cui potrebbe cedere un uomo di grande cultura. Con semplicità, piuttosto, la semplicità che sa farsi densità e che è più impresa di tanta complessità.

Nell'ultimo suo libro - Bagliori a San Pietroburgo, sempre per Iperborea - ci prende per mano e ci accompagna in una città straordinaria, che davvero è anche uno stato d'animo.

A ogni passo - dice - mi viene in mente un libro o mi risuona in testa una musica. E' una scoperta continua.

E scoperta continua è anche per il lettore, è anche per il sottoscritto, che tante volte ha frequentato l'arte di San Pietroburgo, magari non sempre riuscendo a collocarla in una mappa della Grande Madre russa.

E via, sfilano le immagini. Anna Achmatova che ogni giorno sosta davanti al carcere che gli ha inghiottito il figlio; Dostevskij che muore mentre si accinge a scrivere il seguito dei Fratelli Karamazov, cercando di recuperare la penna stilografica che gli è caduta sotto la scrivania; Sostakovic che oggi sera alle dieci, l'ora degli arresti, attende che lo vengano a prendere con la valigetta pronta; Rachmaninov distrutto dal fallimento della prima della sua sinfonia; Esenin nell'ultima sua notte all'Hotel Angleterre...

Gesti, immagini, fotografie che fissano un'emozione o che si fanno porta aperta. Glorie e sofferenze in una galleria che mette insieme il principe dandy che scannò Rasputin e fuggì a Parigi con un Rembrandt sotto braccio e le dolenti constatazioni di Osip Mandel'štam sulla poesia in Russia: solo da noi hanno rispetto per la poesia, visto che uccidono in suo nome. In nessun altro paese uccidono per motivi poetici.

Passeggia per San Pietroburgo, Jan Brokken. A volte a colpo sicuro, altre volte lasciandosi guidare dal caso e dalla curiosità. Come si dovrebbe fare in ogni città con le sue storie. O con un libro come questo, che mi ha fatto viaggiare dove non sono mai stato.

Se non con la poesia, i romanzi, la musica. Incontrandola così, nella sua bellezza, nella sua malinconia.

venerdì 9 maggio 2014

Era San Pietroburgo, anzi Leningrado, l'inverno del 1941...

San Pietroburgo, che allora chiamare San Pietroburgo era un insulto e presumibilmente anche un reato, San Pietroburgo che allora era orgogliosamente, tenacemente Leningrado. Oppure, familiarmente, Piter. Inverno 1941, una città che è l'estrema trincea opposta ai nazisti. L'assedio che sarà una delle pagine più terribili e cruente di un secolo, il Novecento, che in questo non ha certo scherzato.

E' questa l'ambientazione di uno splendido romanzo su cui ho posato gli occhi solo grazie al suggerimento di un amico - e davvero, quanto è prezioso il passaparola per le nostre letture. La città dei ladri di David Benioff, lo stesso autore della Venticinquesima ora, il libro da cui è stato tratto il film di Spike Lee.

Con questa ambientazione, che cosa vi aspettereste? Solo macerie e corpi straziati, solo dolore o retorica, immagino. E invece quante cose, che ci sono dentro queste pagine. La storia di due ragazzi, amici in tempo di guerra, ma anche molto di più. Humour, emozione, implacabile suspense fino all'ultimo rigo. Una scrittura che lascia parlare la storia, mai sopra le righe, ma sempre capace di arrivare al cuore.

Vaffanculo a Mosca. La sensazione diffusa a Piter era che se doveva esserci un assedio, era meglio che fosse capitato a noi, perché saremmo sopravvissuti a qualsiasi cosa, mentre quei porci della capitale, senza la loro razione settimanale di storione, si sarebbero arresi al primo Oberstleutnant. "Sono peggio dei francesi" diceva sempre Oleg, anche se perfino a lui sembrava un'esagerazione.

Ecco, appena un saggio di scrittura. E ancora rimpiango di essermi lasciato alle spalle un personaggio come Kolja, affabulatore, venditore di fumo, artista della parola e poeta della vita. E ancora stento a credere di aver finito questo formidabile romanzo picaresco, proprio così, picaresco, però ambientato non nella Spagna di Don Chisciotte, ma nella Leningrado del 1941.

giovedì 25 aprile 2013

San Pietroburgo, un tempo città di scrittori

Provate a percorrere avanti e indietro la Prospettiva Nevskij cercando gli umori, le contraddizioni e i tormenti dei racconti di Gogol.

Provate oggi a sentire tra un canale e l'altro della "città più bella di Russia" l'eco dei versi di Blok e di Mandelshtam o anche soltanto delle note dei Ddt o degli Akvarium, rockettari d'assalto che accompagnarono gli anni della perestrojka.

Difficile cavaer fuori qualcosa dell'anima culturale di San Pietroburgo tra fast-food americaneggianti, boutique italiane, e offerte di gite in battello comprensive di "cena e musica dal vivo". 

Per non parlare degli incontri che si possono fare in città nel 2013. Qualcuno con una bislacca divisa da cosacco dello Zar può fermarvi per chiedervi una firma contro l'ennesima rappresentazione di "quel pedofilo di Nabokov" e della sua Lolita.

(da Nicola Lombardozzi, San Pietroburgo, la città dei no, su D di Repubblica)

sabato 9 febbraio 2013

La rivoluzione che dissipò i suoi poeti

E prima di Maiakovskij toccò a Esenin, il grande Esenin, il poeta visionario e alcolizzato, il marito di Isadora Duncan, altro naufrago degli affetti e degli ideali. S’impiccò ai tubi del riscaldamento della sua camera all’hotel Astoria di San Pietroburgo. Poche ore prima, la notte del 27 dicembre, si era tagliato un polso e aveva scritto una poesia d’addio con il suo stesso sangue.

“Morire in questa vita, non è una novità – aveva scritto – Ma più nuovo non è certamente vivere”. Majakovskij lo aveva corretto: “In questa vita non è difficile morire - Vivere è di gran lunga più difficile”. Però chissà quali riflessioni gli strappò, solo il titolo di quell’ultima poesia: “A presto, amico mio, a presto”. Chissà.

Ti ringrazio, Tito, perché è merito di questo tuo viaggio tra le macerie dell’Unione Sovietica, se ho finalmente riaperto il cassetto dei miei ricordi, restituendo la luce ai miei poeti. Li avevo messi via, come si fa con una crisi adolescenziale di cui stentiamo a non vergognarci. Come l’album di fotografie che si abbandona a prendere la polvere.

Ora posso ritornare a uno dei libri che tra tutti mi hanno più emozionato nella vita. Pensa, un saggettino di poche pagine, uscito in quella collana dell’Einaudi con il quadrato rosso in copertina che negli anni Ottanta andava per la maggiore tra gli intellettuali di sinistra. Testi importanti e spesso anche decisamente pallosi.

Beh, a giudicare dal suo autore, pure questo libretto poteva essere classificato ad alto rischio di noia e indecifrabilità. Si tratta di Roman Jacobson, linguista di origine russa, maestro del pensiero che si definisce formalista e strutturalista – e pensa, Tito, ogni volta che nella cultura sento una parola che si chiude in –ismo, io propendo per la fuga.

Però il titolo è “Una generazione che ha dissipato i suoi poeti” e dentro c’è tutto quello che Majakovskij, ed Esenin, e tutti gli altri, mi hanno dato e poi tolto. C’è la bellezza della rivoluzione e il suo disastro. 

C’è la poesia che ha cantato una nuova epoca per essere poi da quest’ultima divorata, annichilita. La speranza e la disperazione. La vita che fa a pugni con la politica più alta, più generosa di ambizioni, quella che la vita la vorrebbe mutare dalle fondamenta. I versi che non ti possono salvare e che pure ti riscaldano il cuore. Preziosi. Insostituibili.

Non mi piacciono le citazioni troppo lunghe, lo sai, però questo brano di Jakobson te lo voglio trascrivere per intero. Dice esattamente quello che vorrei dirti, Tito, ma lo dice assai meglio di quanto potrei fare io.

In queste parole ci sei tu, e forse ci sono anch’io.

“Ci siamo gettati con troppa foga e avidità verso il futuro perché ci potesse restare un passato. S’è spezzato il legame coi tempi. Abbiamo vissuto troppo del futuro, pensato troppo ad esso, in esso troppo creduto, e per noi non c’è un’attualità autosufficiente: abbiamo perso il senso del presente.
Siamo i testimoni e i compartecipi di grandi cataclismi sociali, scientifici e d’altri ancora. La vita quotidiana è rimasta indietro. Secondo una splendida iperbole del primo Majakovskij, “l’altra gamba corre ancora nella vita accanto”. Sappiamo già che i più intimi pensieri dei nostri padri erano in disaccordo con la loro vita quotidiana. 

Ma i nostri padri avevano ancora dei residui di fede nel suo carattere confortevole e universale.

Neppure il futuro ci appartiene. Tra qualche decennio ci affibbieranno duramente il titolo di “uomini dello scorso millennio”. Quando i cantori sono uccisi e le canzoni trascinate al museo e attaccate con uno spillo al passato, ancora più deserta, derelitta e desolata diventa questa generazione”.

(Da Tito Barbini e Paolo Ciampi, Caduti dal Muro, Vallecchi editore)

venerdì 20 luglio 2012

La generazione che dissipò i suoi poeti

E prima di Maiakovskij toccò a Esenin, il grande Esenin, il poeta visionario e alcolizzato, il marito di Isadora Duncan, altro naufrago degli affetti e degli ideali. S’impiccò ai tubi del riscaldamento della sua camera all’hotel Astoria di San Pietroburgo. Poche ore prima, la notte del 27 dicembre, si era tagliato un polso e aveva scritto una poesia d’addio con il suo stesso sangue.

“Morire in questa vita, non è una novità – aveva scritto – Ma più nuovo non è certamente vivere”. Majakovskij lo aveva corretto: “In questa vita non è difficile morire - Vivere è di gran lunga più difficile”. Però chissà quali riflessioni gli strappò, solo il titolo di quell’ultima poesia: “A presto, amico mio, a presto”. Chissà.

Ti ringrazio, Tito, perché è merito di questo tuo viaggio tra le macerie dell’Unione Sovietica, se ho finalmente riaperto il cassetto dei miei ricordi, restituendo la luce ai miei poeti. Li avevo messi via, come si fa con una crisi adolescenziale di cui stentiamo a non vergognarci. Come l’album di fotografie che si abbandona a prendere la polvere.

Ora posso ritornare a uno dei libri che tra tutti mi hanno più emozionato nella vita. Pensa, un saggettino di poche pagine, uscito in quella collana dell’Einaudi con il quadrato rosso in copertina che negli anni Ottanta andava per la maggiore tra gli intellettuali di sinistra. Testi importanti e spesso anche decisamente pallosi.

Beh, a giudicare dal suo autore, pure questo libretto poteva essere classificato ad alto rischio di noia e indecifrabilità. Si tratta di Roman Jacobson, linguista di origine russa, maestro del pensiero che si definisce formalista e strutturalista – e pensa, Tito, ogni volta che nella cultura sento una parola che si chiude in –ismo, io propendo per la fuga.

Però il titolo è “Una generazione che ha dissipato i suoi poeti” e dentro c’è tutto quello che Majakovskij, ed Esenin, e tutti gli altri, mi hanno dato e poi tolto. C’è la bellezza della rivoluzione e il suo disastro. C’è la poesia che ha cantato una nuova epoca per essere poi da quest’ultima divorata, annichilita. La speranza e la disperazione. La vita che fa a pugni con la politica più alta, più generosa di ambizioni, quella che la vita la vorrebbe mutare dalle fondamenta. I versi che non ti possono salvare e che pure ti riscaldano il cuore. Preziosi. Insostituibili.

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