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giovedì 14 luglio 2016

Tanto tempo fa, le vite che erano

Sono nato tanto tempo fa.

E' questo il primo rigo di Genealogia, l'opera con cui Izrail Metter, ebreo russo che ha attraversato tutto il Novecento, prova a mettere in ordine ciò che gli rimane del tempo.


Quanto potrebbe raccontare. Assai più, in effetti, di quanto ritroviamo in questo libro smilzo uscito per Einaudi. Assai più, se solo questa intendesse essere una autobiografia o un saggio storico.

Figurarsi, con tutto quello che Metter ha visto, fatto, subito, da uomo che arriva da quel mondo ebraico orientale spazzato via da Hitler, che ha conosciuto l'Unione Sovietica di Lenin e dei poeti della Rivoluzione, che ha resistito all'assedio di Leningrado, che è sopravvissuto allo stalinismo....

Eppure più che un filo da seguire, qui c'è bisogno di scavo. Di tornare indietro, di scavare, di oltrepassare il resoconto dell'esperienza, oppure di illuminare la propria esperienza con ciò che c'era prima e da cui in qualche modo discendiamo.

Genealogia, appunto. Genealogia che è mistero, buco nero, lapide che conclude le vite che ci hanno preceduto. Non fosse per qualche bagliore che ancora arriva a noi. Non fosse per il poco che avanza.

Come quella foto del bisnonno, un altro mondo e due o tre epoche prima. Una foto di metà Ottocento, che vai a sapere come non si sia persa. Un vecchio triste, pensoso, che indossa il soprabito a lunghe falde che era degli ebrei polacchi e galiziani. Siede con una mano poggiata sopra un ginocchio e l'altra su un grosso libro aperto.

Proprio questo libro - scrive Metter - aveva acceso la mia immaginazione.

Quel libro, esibito con orgoglio, è la dimostrazione che da tempo immemorabile nella sua famiglia si sapeva leggere. E si leggeva.

Un bagliore dal passato. La vita che non c'è più ma che ancora lancia un richiamo, come la luce di una stella ormai fredda. Riverberi della memoria, incanti, empatie. Ciò che oggi noi siamo.

sabato 30 giugno 2012

Odessa è molte cose, naturalmente. In primo luogo un nome che evoca un fascino lontano, qualcosa di esotico, direi, se poi non fossimo abituati a localizzare i luoghi dell’esotico in qualche altro angolo del pianeta.


Odessa è un crogiuolo di popoli affacciato sull’immensità asiatica, è la culla di un cosmopolitismo per predilezione, prima ancora che per vocazione, è la memoria della vecchia Russia bianca che guardava all’Europa, con i tè all’aperto e le dame con le crinoline, è il porto da cui salpavano le navi cariche di cereali con i suoi rudi lavoratori, avvezzi alla fatica e alla vodka. Le terme frequentate dall’aristocrazia e il sogno del riscatto sociale.


Isaac Babel, figlio di Odessa, quel sogno se lo fece suo per intero e prima ancora che scrittore fu militante bolscevico. Negli anni eroici della rivoluzione prestò servizio nel controspionaggio, lavorò come traduttore per la Cheka – cioè per la polizia politica istituita da Lenin – e si occupò della requisizione dei viveri. Nel 1920, quando ancora infuriava la guerra civile fu assegnato all’armata a cavallo che provò a esportare la rivoluzione fuori dalla Russia e arrivò fin quasi a Varsavia, per essere poi ricacciata indietro.


Da questa esperienza venne fuori il suo capolavoro, L’armata a cavallo, appunto. Oggi è giustamente considerato uno dei libri imprescindibili del Novecento, ma allora la pubblicazione gli costò cara. C’era troppa verità, nella guerra che raccontava, ovvero troppa brutalità.


Altro che romanticismo rivoluzionario, ideali che volano alto: nelle sue pagine c’erano lo sporco e il sudore, i corpi sbudellati e i rivoli di sangue, la ferocia gratuita e la follia dei comandi.


Si fece molti nemici, il povero Babel, ma dopo fu assai peggio. Arrivò Stalin, arrivo il plumbeo terrore degli anni Trenta. Gli orrori della guerra lasciarono il campo agli orrori di una collettivizzazione di un regime che aveva tradito se stesso.


Babel si distaccò ogni giorno di più dalla vita pubblica e dalla speranza che l’aveva animato negli anni precedenti. Ma questo ritrarsi non bastò a procurargli la quiete. Cominciarono a criticarlo per il suo “estetismo”. E’ un’accusa che oggi potremmo prendere per un complimento e in ogni caso accogliere come un legittimo esercizio di critica letteraria. Ma in Unione Sovietica, in quegli anni, essere bollati come “esteti” non era lieve: entravi di diritto nella poco raccomandabile schiera dei borghesi decadenti e irredimibili.


Nel 1934, al primo congresso dell’Unione degli scrittori sovietici Babel si strappò dalla bocca parole pesanti. Stava diventando il “maestro di un nuovo genere letterario”, proclamò: il “genere del silenzio”.


Poi ci volle poco perché tutto precipitasse.


“Ora verranno a cercarmi”, scrisse dopo la morte di Maksim Gorkij, lo scrittore nelle grazie del regime che finora era riuscito a proteggerlo. E così fu. Babel venne arrestato nella sua casa di campagna, portato alla Lubianka, processato, condannato.


Lo fucilarono agli inizi del 1940, anche se ufficialmente lo si disse morto in un campo di prigionia in Siberia: la vedova ci mise 15 anni per scoprire la verità


Dopo la morte di Stalin venne completamente riabilitato: per quanto potesse significare, a quel punto. Quanto ai suoi manoscritti, sequestrati dalla polizia segreta, non vennero mai più restituiti.


Che cosa c’era tra quelle carte? Qualche altro capolavoro?


Nessuno, temo, ci potrà più rispondere. Però una cosa è sicura: è solo un potere criminale, quello che ruba le vite, e con le vite la bellezza della vita, quella bellezza che emerge anche da una pagina scritta.


E pure questi sono crimini contro l’umanità.

(da Caduti dal Muro, scritto con Tito Barbini, Vallecchi editore)

martedì 2 agosto 2011

Le fiabe di Andersen nella furia della guerra

Ci sono molte cose che meritano di essere viste e meditate, al bellissimo museo che la città di Odense, in Danimarca, ha dedicato a Hans Christian Andersen, l'uomo che regalò al mondo la Sirenetta e il Brutto Anatroccolo, lui stesso nella sua vita brutto anatroccolo che con le fiabe si scoprì cigno.

L'altro giorno ero a Odense e al museo ci ho trascorso una mezza giornata senza alcun rimpianto, anzi.

Sono entrato in ciò che rimane della casa natale dello scrittore, ho seguito passo passo la sua vita, più disgraziata di quanto si possa in genere presumere, malgrado il successo e la ricchezza.

Per tutta la vita Andersen inseguì amori impossibili senza mai a farsi una famiglia. Però riuscì a incantare i bambini di tutto il mondo, generazione dopo generazione. Non avendone di suoi, passava molto tempo con i figli dei suoi amici più cari, strampalata figura di "zio" che faceva sognare con le sue parole.

Però la cosa che più mi ha commosso l'ho scovata nella sala dove si conservano alcune delle edizioni più rare e particolari delle sue fiabe. Per dire, ce n'è una in lingua della Groenlandia e una degli anni del nazismo, dalla quale è stato scrupolosamente cancellato ogni riferimento a una famiglia ebrea.

Ma ce un libro, soprattutto. Porta una data e un luogo: Leningrado, 1943.

Proprio così, è stato stampato durante l'assedio, uno dei più terribili della nostra storia. Quando i sovietici riuscirono a fermare l'avanzata dei tedeschi e a imprimere una svolta alla guerra. Mancava tutto, a Leningrado. C'era solo fame, con quei 125 grammi di una specie di pane che erano la razione giornaliera per ogni uomo e donna.

Mancava tutto, però trovarono il modo di stamparlo, quel libro.

E non erano i discorsi di Lenin. Erano le fiabe di Andersen.

domenica 13 giugno 2010

La signora dei libri e l'arte della vecchiaia



Un'autrice che mi dispiace di non aver avuto mai modo di conoscere e un libro, scritto da una signora di 93 anni, che mi riprometto di fare mio quanto prima.

Beh, su di me ha avuto davvero un buon effetto il titolo presentato sulla Repubblica di ieri da Leonetta Bentivoglio. Pensare che spesso solo alla parola "recensione" ci si tira indietro: più o meno sensatamente, credo. E invece quell'articolone su doppia pagina mi ha permesso di prendere confidenza con Diana Athill, inglesissima signora del libro nata, pensate, nel 1917 (l'anno di Lenin e di Caporetto), donna che ha attraversato il secolo con il suo lavoro di editor (ha lavorato tra gli altri con Philip Roth, Norman Mailer, Mordecai Richler, Margaret Atwood, Simone de Beauvoir, può bastare?).

Leggo che oggi Diana Athill si è ritirata in una casa di riposo piena di splendidi amici, così dice lei; che è un po' sorda e che cammina con un bastone. Ma evidentemente ha ancora molto da dirci e lo fa con un libro, Da che parte verso la fine, che la Bentivoglio racconta così:

Lei, che dopo i settant'anni ha cominciato a firmare saggi e critiche letterarie, riferisce di averlo scritto, già ultranovantenne, su precisa indicazione dell'editore. "Mi disse che avrebbe voluto leggere qualcosa sull'essere vecchi". Da quell'impulso è fiorito questo volumetto che è un po' autobiografia, un po' collage di prospettive esistenzialie un po' raccolta di riflessioni sul momenti dell'addio. Un testamento che si lascia assaporare come un piccolo-grande viaggio capace d'illuminare la giornata a chi lo sta leggendo e d'inculcargli la voglia di regalarlo alle ersone a cui vuole bene...

Come un bel regalo è quello che ci fa Diana, con la sua arte della vecchiaia.

Diana è diversa. Lieta dell'essere, del non rammaricarsi, del non cavillare, del non invidiare, del godere in pieno di se stesso, per questo va ringraziata.

lunedì 10 maggio 2010

Odessa e la pagine perse di Isaac Babel


Odessa è molte cose, naturalmente. In primo luogo un nome che evoca un fascino lontano, qualcosa di esotico, direi, se poi non fossimo abituati a localizzare i luoghi dell’esotico in qualche altro angolo del pianeta.

Odessa è un crogiuolo di popoli affacciato sull’immensità asiatica, è la culla di un cosmopolitismo per predilezione, prima ancora che per vocazione, è la memoria della vecchia Russia bianca che guardava all’Europa, con i tè all’aperto e le dame con le crinoline, è il porto da cui salpavano le navi cariche di cereali con i suoi rudi lavoratori, avvezzi alla fatica e alla vodka. Le terme frequentate dall’aristocrazia e il sogno del riscatto sociale.

Isaac Babel, figlio di Odessa, quel sogno se lo fece suo per intero e prima ancora che scrittore fu militante bolscevico. Negli anni eroici della rivoluzione prestò servizio nel controspionaggio, lavorò come traduttore per la Cheka – cioè per la polizia politica istituita da Lenin – e si occupò della requisizione dei viveri. Nel 1920, quando ancora infuriava la guerra civile fu assegnato all’armata a cavallo che provò a esportare la rivoluzione fuori dalla Russia e arrivò fin quasi a Varsavia, per essere poi ricacciata indietro.

Da questa esperienza venne fuori il suo capolavoro, L’armata a cavallo, appunto. Oggi è giustamente considerato uno dei libri imprescindibili del Novecento, ma allora la pubblicazione gli costò cara. C’era troppa verità, nella guerra che raccontava, ovvero troppa brutalità.

Altro che romanticismo rivoluzionario, ideali che volano alto: nelle sue pagine c’erano lo sporco e il sudore, i corpi sbudellati e i rivoli di sangue, la ferocia gratuita e la follia dei comandi.

Si fece molti nemici, il povero Babel, ma dopo fu assai peggio. Arrivò Stalin, arrivo il plumbeo terrore degli anni Trenta. Gli orrori della guerra lasciarono il campo agli orrori di una collettivizzazione di un regime che aveva tradito se stesso.

Babel si distaccò ogni giorno di più dalla vita pubblica e dalla speranza che l’aveva animato negli anni precedenti. Ma questo ritrarsi non bastò a procurargli la quiete. Cominciarono a criticarlo per il suo “estetismo”. E’ un’accusa che oggi potremmo prendere per un complimento e in ogni caso accogliere come un legittimo esercizio di critica letteraria. Ma in Unione Sovietica, in quegli anni, essere bollati come “esteti” non era lieve: entravi di diritto nella poco raccomandabile schiera dei borghesi decadenti e irredimibili.

Nel 1934, al primo congresso dell’Unione degli scrittori sovietici Babel si strappò dalla bocca parole pesanti. Stava diventando il “maestro di un nuovo genere letterario”, proclamò: il “genere del silenzio”.

Poi ci volle poco perché tutto precipitasse.

“Ora verranno a cercarmi”, scrisse dopo la morte di Maksim Gorkij, lo scrittore nelle grazie del regime che finora era riuscito a proteggerlo. E così fu. Babel venne arrestato nella sua casa di campagna, portato alla Lubianka, processato, condannato.

Lo fucilarono agli inizi del 1940, anche se ufficialmente lo si disse morto in un campo di prigionia in Siberia: la vedova ci mise 15 anni per scoprire la verità

Dopo la morte di Stalin venne completamente riabilitato: per quanto potesse significare, a quel punto. Quanto ai suoi manoscritti, sequestrati dalla polizia segreta, non vennero mai più restituiti.

Che cosa c’era tra quelle carte? Qualche altro capolavoro?

Nessuno, temo, ci potrà più rispondere. Però una cosa è sicura: è solo un potere criminale, quello che ruba le vite, e con le vite la bellezza della vita, quella bellezza che emerge anche da una pagina scritta.

E pure questi sono crimini contro l’umanità.

(da Caduti dal Muro, scritto con Tito Barbini, Vallecchi editore)

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