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venerdì 17 settembre 2010

L'usignolo dell'Alabama e il buio oltre la siepe

Che vi dice il titolo To kill a mockingbird?

A me fino all'altro giorno niente, nemmeno a volerlo tradurre alla lettera, Uccidere un usignolo. Poi mi è capitato tra le mani un intrigante articolo di Stefano Pistolini (D di Repubblica, 11 settembre), così ho scoperto che questo era il titolo originale di Il buio oltre la siepe di Harper Lee. Ovvero, di uno di quei libri che sembrano fatti apposta per scioglierti il cuore e renderti un po' migliore.

Mi ricordo di averlo divorato una di quelle interminabili estati da studente che ho trascorso inchiodato in città. Leggevo in giardino, ma con la testa volavo in quella cittadina nel cuore dell'Alabama, provincia rurale torpida e segregazionista. Fino a quel momento i miei eroi di carta dovevano impugnare armi, guidare rivoluzioni, affrontare plotoni di esecuzione. Ora avevo con me Atticus Finch, l'avvocato che prima di tutto era una brava persona, l'onesto professionista che nell'America del Ku Klux Klan non esitava a difendere l'”uomo nero” accusato ingiustamente contro tutta una comunità che ne pretendeva il linciaggio.

Più tardi avrebbe acquistato il volto di Gregory Peck, come dire l'America più buona, idealista, rassicurante, prima del Vietnam.

Quanto a Harper Lee, ignoravo persino che dietro quel nome si celasse una donna.

La sua storia me la racconta ora Pistolini: quella di una donna che arriva fuori proprio da quella cittadina, la stessa di un'altra persona che lascerà il segno nella letteratura mondiale, Truman Capote, suo vicino di casa e compagno di giochi. Il babbo, un avvocato come Atticus, in quell'America che niente pare riuscire a smuovere dai suoi pregiudizi.

Un giorno scappa a New York, ma anche lì è un pesce fuori dell'acqua. Lavora in una biglietteria aerea, nel tempo libero si accanisce su una macchina da scrivere senza tirare fuori quello che sente nelle sue corde. Avverte la possibilità del capolavoro, ma la vita la tira da ogni parte, le pagine non prendono forma, la carta appallottolata riempie il cestino. Una versione del romanzo viene gettata dalla finestra, e allora non è che si ristampa un'altra copia dal computer. Gli amici si autotassano per regalarle un anno di stipendio, una sorta di sabbatico per continuare a scrivere.

Nell'estate 1960 finalmente il libro esce, senza grandi aspettative. Però è un gran bel libro ed esce al momento giusto, quello di un'America che vuole scrollarsi di dosso molte cose e guardare avanti, senza ripiegarsi più su se stessa.

Oggi in Italia è un libro che si dimentica, ma in America, 30 milioni di copie vendute dopo, è una lettura quasi obbligatoria, preferirei dire necessaria, a scuola. Un libro che insegna a “vedere le cose dal punto di vista degli altri”.

Quanto a Harper Lee, è stato il primo e ultimo romanzo. Mi fa riflettere anche questa cosa degli scrittori di un unico grande libro. Ma questo un'altra volta.

mercoledì 2 giugno 2010

Quando a vincere il Pulitzer è lo sconosciuto


Del libro, che non credo sia stato ancora tradotto in italiano, so solo quello che ho letto su Repubblica Donne, supplemento che, provare per credere, parla di scrittura e di viaggi come pochi altri in Italia. Dell'autore, Paul Harding, ancora meno: un perfetto sconosciuto. Ma proprio questo è il senso della storia che ho incontrato grazie a Stefano Pistolini. La storia di un perfetto sconosciuto che con un suo libro, Tinkers, ha vinto il Pulitzer 2010.

E dunque, Paul Harding viene dal Maine, da un'America che è un'America a parte, foreste e silenzi, neve, mestieri che reclamano sudore e perizia, tempo per riflettere sul significato della vita. E poi le lezioni di gente come Emerson e Thoreau. Un'adolescenza che è anche una straordinaria esperienza spirituale: l'uomo che ritorna alla natura. Che poi è anche la sostanza con cui, quasi ossessivamente, Harding monta, smonta e rimonta Tinkers. Un altro mondo che fa fatica a farsi largo attraverso le parole.

Paul Harding ha anche tutte le caratteristiche per essere classificato come un intellettuale fallito, uno con l'inedito nel cassetto destinato a rimanere dov'è. Manoscritti e ambizioni messe via insieme. Mi ero convinto che sarei stato uno scrittore non pubblicato.

Storia vista e rivista: il libro che viene mandato a un'infinità di editori e che da tutti viene rifiutato.

Alla fine salta fuori una persona, Erika Goldman, disposta a pubblicarlo. La sua è davvero la più improbabile delle proposte, perché rappresenta la Bellevue Literary Press. La minuscola casa editrice di un grande ospedale di New York, un progetto no profit che non so nemmeno spiegare, forse ha qualcosa a che vedere con la parola come terapia.

Erika Goldman evidentemente è una donna a cui piace tentare la sorte. Iscrive Tinkers al Pulitzer, il premio dei premi, dove, per inciso, da trent'anni vincono solo i più grandi editori. L'organizzazione gli abbuona anche i 50 dollari di iscrizione: è un ospedale, non un editore, e poi sarebbero soldi buttati via.

Vince Paul Harding. Pare che la sorpresa sia stata tale che gli organizzatori si sono dimenticati di avvertire il vincitore.

Poi è cominciato il mea culpa dei grandi critici. Di tanto in tanto non ci accorgiamo di un buon libro. Non entra nei nostri radar, ha attaccato Gregory Cowles sul New York Times. L'ammissione è diventato pentimento corale.

La storia di un libro che potrebbe a sua volta diventare un libro. E a me non resta che farmi qualche domandina

Per esempio, quali possibilità avrebbe avuto Paul Harding a un Campiello o a uno Strega?

E quanti critici avrebbero intonato il mea culpa, qui in Italia?

Domande, domande.

E per finirla: Tinkers può essere tradotto come "stagnai". Mestiere di altri tempi, mestiere andato.

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  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...