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venerdì 31 ottobre 2014

Che sorpresa, gli Americani di Sullivan

 Io lo adopero ancora il vecchio detto: un buon cronista si vede dalle scarpe. E quelle scarpe devono essere consumate, anzi, logore, a dimostrazione di tutta la strada che si è fatta per vedere, ascoltare, registrare.

E' questa la prima cosa che mi è venuta in mente leggendo Americani di John Jeremiah Sullivan (Sellerio), libro di straordinari reportage attraverso un 'America insolita. Un'America che è, in gran parte, quella del dopo 11 settembre, ma che soprattutto è quale raramente ho trovato nelle pagine dei libri e dei giornali.

Perché questa è la seconda cosa che mi è venuta in mente: c'è bisogno di buone gambe, ma anche di uno sguardo che vaghi irrequieto e si posi su ciò che non è scontato. Di tanta voglia di setacciare la realtà alla ricerca di risposte non date.

Scrittore errante, reporter inquieto, Sullivan dalla curiosità è come divorato. E' fame che non si sazia e che per ogni pasto restituisce una storia.

E quante storie racconta Sullivan. Un grande raduno di "rock cristiano" e i primi passi sul palcoscenico di Michael Jackson. L'uragano Katrina e un week end a Disney World. I protagonisti di un reality show in tour tra discoteche e localini più o meno sordidi e uno scrittore del profondo Sud colto nell'ora del suo inarrestabile declino.

Per la New York Times Book Review è la più importante raccolta di saggi e reportage dall'uscita di Una cosa divertente che non farò mai più di David Foster Wallace. Non sono in grado di giudicare, però vale la pena. 

martedì 16 marzo 2010

L'11 settembre e il fondamentalista riluttante






Io non ero in guerra con gli Stati Uniti. Anzi, ero il prodotto di un'università americana; stavo guadagnando un lucroso salario americano; ero infatuato di una donna americana. Perché allora una parte di me desiderava il male degli Stati Uniti?


(...)

E' incredibile, data la sua insignificanza - dopotutto è un modo di acconciarsi come un altro - L'impatto che ha sui vostri compatrioti una barba esibita da un uomo con la mia carnagione

Ecco qui, è tra questi due estremi che oscilla il pendolo della contrapposizione, dell'intolleranza, dell'incapacità di accogliere la differenza, almeno di metabolizzarla sotto il segno del vivi e lascia vivere. Avversione che a volte viene fuori dal ripostiglio del cuore, quando meno ci si aspetta, riflesso automatico, incontrollabile. Avversione che altre volte brucia sulla pelle, mortifica e umilia, tanto più se si alimenta di dettagli.

Beh, c'è tutto questo nel libro di Mohsin Hamid, Il fondamentalista riluttante, un titolo che di per sè basta a evocare una montagna di pensieri, decisamente piuttosto brutti, su questo nostro mondo, sulle ferite ancora aperte e che pare abbiano ben poca intenzione di cicatrizzarsi.

Un libro che è tutto un monologo, un racconto in prima persona, qualcosa a metà tra una confessione e un j'accuse che si srotola in un pomeriggio e poi in una sera trascorsa in un caffè di Lahore, tra i profumi, le voci, la varia umanità del vecchio mercato di Anarkali.

Chi parla è un pakistano, Changez, giovane pakistano che una vita prima, forse anche un mondo prima, era un giovane in carriera, assunto da una delle più spietate società della finanza newyorkese. Chi ascolta, un americano che non si sa bene cosa sia, difficilmente un turista, forse un agente o un diplomatico, forse un militare.

Due uomini che in effetti fino a qualche tempo prima sembravano appartenere allo stesso mondo. Poi è arrivato l'11 settembre, i ponti sono saltati, sotto le macerie non sono rimasti solo corpi.

Sete di vendetta. Opposti fondamentalismi. Come cancellare tutto questo? Nella figura dell'ex mago della finanza che si è lasciato crescere barba e odio non c'è niente di rassicurante. E la riluttanza del suo estremismo fa ancora più paura, come se fosse la prova provata di forze superiori a ogni volontà.

Magari sappiamo che non è così. Che c'è sempre modo di guardare oltre. Ma la scrittura rapida, avvolgente, tutta in discesa (verso il precipizio?) di Hamid rischia davvero di farcelo dimenticare.

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  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...