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lunedì 25 maggio 2020

Il cappotto di Marcel Proust e un libro bizzarro

Stringendo tra le dita quei lembi di stoffa lisa e logora, prova forse la stessa emozione che sente quando sfoglia le pagine di un volume raro o le carte sgualcite di un manoscritto creduto perduto. Qualcosa passa attraverso le dita e arriva fino a lui.

E' un libro, Il cappotto di Proust di Lorenza Foschini (Strade Blu, Mondadori), che poteva scrivere solo una persona che ama l'autore della Recherche di un amore quasi inspiegabile. Però è anche un libro che può leggere anche chi di Marcel Proust non ha letto mai una riga, magari rimanendo aggrappato solo al sentimento del tempo perduto, alla voglia di ridare un senso e un'emozione a ciò che è stato.

Molte cose ci sono in queste poche pagine. E forse a mancare è proprio lui, Marcel Proust, ombra, enigma, profondità che non si lascia sondare, uomo che è diventato il suo capolavoro. 

Piuttosto c'è il cappotto da cui non si separava mai, nemmeno nei giorni più caldi dell'estate, nemmeno sul letto dove ha scritto gran parte delle sue pagine. C'è un raffinato bibliofilo, Jacques Guérin, industriale dei profumi che sapeva impiegare la sua memoria olfattiva anche per i libri,  capace di annusare ciò che vale davvero come un cane da tartufo. C'è il rapporto complicato con un grande artista. C'è la battaglia tra ciò che spinge a cancellare, rimuovere, dimenticare - fosse anche una cognata pronta a bruciare le carte rimaste - e tra ciò che spinge a conservare e collezionare (il collezionismo non è forse un tentativo di resistere al tempo?).

Ci sono queste cose, in questo libro bizzarro (il bello è sempre bizzarro, affermava Charles Baudelaire), che partendo da un dettaglio ci dice su un'epoca e su un artista più di tanti ponderosi saggi.

giovedì 23 gennaio 2020

Se si sopravvive alla guerra grazie a Proust

Inverno 1940-1941: i tempi più cupi per l'Europa, un inverno che non è solo il gelo fuori, la neve in cui affondano i piedi, il vento di bufera. E' anche l'inverno della speranza, spazzata via nei campi di battaglia e soffocata nei campi di prigionia. 

Hitler imperversa con la sua guerra e può ancora coltivare sogni di vittoria. Le sue armate per ora glielo consentono. Dall'altra parte i polacchi piangono un paese che di nuovo non c'è più, cancellato dallo scellerato patto russo-tedesco. E chi, tra gli ufficiali dell'esercito, è sopravvissuto alle fosse di Katyn, ora è prigioniero. 

Questo il contesto, perchè ci sono libri in cui il contesto è importante, addirittura più importante di ciò che c'è dentro. Per esempio Proust a Grjazovec di Josef Czapski (Adelphi).

Il contesto: nel campo di prigionia sovietico di Grjazovec sono ammassati migliaia di ufficiali polacchi. C'è gelo, non speranza, ma per far fronte a tutto questo viene l'idea di coltivare l'intelligenza. E se manca il cibo da mettere sotto i denti perché non provare a sfamare lo spirito?

Viene organizzata una serie di conferenze. E Czapski propone ai suoi compagni di prigionia una lezione su Proust e sulla Recherche. Per prepararla non ha nemmeno una pagina da consultare, solo la memoria che lo riporta alle letture di un tempo. Tanto non potrà essere solo una questione di memoria, ma di cuore. 

Parlerà nel refettorio, davanti a compagni smagriti, a guardie che magari bolleranno l'iniziativa come controrivoluzionaria - per questo altri conferenzieri sono stati già deportasti verso ignota destinazione. Ma lo farà, perché questo è l'unico modo per combattere lo sconforto, tenere a bada l'angoscia, appartenere a un tempo che non è quello della detenzione, sentirsi pienamente uomo.

Proust - ricorderà un giorno Czapski - si sarebbe meravigliato e commosso se qualcuno gli avesse detto che, a vent'anni di distanza dalla sua morte, un manipolo di prigionieri polacchi, dopo un'intera giornata trascorsa sulla neve, in un freddo che arrivava spesso a quaranta gradi sotto lo zero, avrebbe ascoltato col il massimo interesse la storia della duchessa di Guermantes... La gioia di poter condividere uno sforzo intellettuale ci dimostrava come fossimo ancora capaci di pensare.

Solo quattrocento dei quindicimila prigionieri polacchi .- tra ufficiali e soldati - sarebbero sopravvissuti. Come in una lotteria in cui esce il numero giusto e non c'è ragione. 

Eppure io credo che anche Proust abbia contato. E' servito regalare cultura, condividere bellezza, anche in quella situazione. Non fosse che per queste parole che un giorno Czapski potrà mettere nero su bianco:

Su questo sfondo sinistro, le ore trascorse in compagnia dei miei ricordi su Proust e Delacroix mi sembrano oggi le più felici della mia vita.

E' importante il contesto e io lo dedico a quanto oggi sembrano poter prescindere dai libri.   





giovedì 7 aprile 2016

Quelle statuine che raccontano la storia di una famiglia

Le eredità non sono mai banali. Che cosa viene ricordato e cosa dimenticato, nel passaggio? L'oblio può perpetuarsi, i possessori d'un tempo esser via via cancellati, ma può verificarsi l'opposto, una lenta accumulazione di storie. Che cosa mi viene tramandato insieme a questi piccoli oggetti giapponesi?

Può succedere: viene a mancare un parente più o meno lontano, vi ritrovate in casa un oggetto o più oggetti che prima forse non avevate mai visto, o avevate guardato solo con sufficienza e distrazione. Cose che erano mute e che ora cominciano in qualche modo a parlarvi. C'è perlomeno una vita, quella del parente defunto, che in qualche modo viene richiamata. Ma cos'altro c'è dietro?

Figurarsi se non è solo un oggetto che arriva nelle vostre mani, ma un'incredibile collezione di antiche statuine giapponesi, non più grandi di una scatola di fiammiferi, raffiguranti divinità, animali, personaggi di ogni tipo. Figurarsi se attraverso di esse si può ripercorrere la storia non solo di un vecchio eccentrico zio che ha vissuto in un altro paese, ma le vicende di un'intera famiglia.

E' quello che viene splendidamente raccontato in Un'eredità di avorio e ambra di Edmund de Waal (Bollati Boringhieri), libro straordinario, le cui 400 pagine ho divorato nel corso di un viaggio - andata e ritorno - tra Firenze e Bari. Pensare che qualche mio conoscente l'aveva trovato un po' faticoso, forse prolisso....

Niente di tutto questo. Verrebbe da dire che questa è una saga famigliare come solo i grandi romanzi. Generazione dopo generazione, in effetti, si srotola la storia della famiglia Ephrussi, ebrei di Odessa che con il commercio di cereali sono diventati tra i più potenti banchieri d'Europa. Formidabile l'ascesa: favolose residenze a Parigi e Vienna, il titolo di baroni, la migliore arte dell'Ottocento, Degas e Renoir compresi, che entra nei loro salotti. Affari, mecenatisimo e conversazioni con Proust. Formidabile l'ascesa e spaventosa la caduta, con Hitler e le leggi razziali.

Anche solo per questo un libro da raccomandare. Eppure al centro della vicenda, vera spina dorsale della narrazione, non sono le vite degli Ephrussi, ma quelle statuine giapponesi, che passano di mano in mano, cambiano città e collocazione, accumulano ricordi.

Io - dice nelle prime pagine l'autore - voglio scoprire quale rapporto ha legato questo oggetto di legno che mi sto rigirando tra le dita - duro, semplice solo all'apparenza, giapponese - ai luoghi che ha attraversato.

Anche questo un viaggio. E un viaggio, davvero, con occhi nuovi.

venerdì 4 dicembre 2015

Marcel Proust, che storia il suo cappotto

Stringendo tra le dita quei lembi di stoffa lisa e logora, prova forse la stessa emozione che sente quando sfoglia le pagine di un volume raro o le carte sgualcite di un manoscritto creduto perduto. Qualcosa passa attraverso le dita e arriva fino a lui

E' un libro, Il cappotto di Proust di Lorenza Foschini, che poteva scrivere solo una persona che ama l'autore della Recherche di un amore quasi inspiegabile. Però è anche un libro che davvero può leggere anche chi di Marcel Proust non ha letto mai una riga, magari rimanendo aggrappato solo al sentimento del tempo perduto, alla voglia di ridare un senso e un'emozione a ciò che è stato.

Molte cose ci sono in queste poche pagine. E forse a mancare è proprio lui, Marcel Proust, ombra, enigma, profondità che non si lascia sondare, uomo che è diventato il suo capolavoro. Piuttosto c'è il cappotto da cui non si separava mai, nemmeno nei giorni più caldi dell'estate, nemmeno sul letto dove ha scritto gran parte delle sue pagine. C'è un raffinato bibliofilo, Jacques Guérin, industriale dei profumi che sapeva impiegare la sua memoria olfattiva anche per i libri,  capace di annusare ciò che vale davvero come un cane da tartufo. C'è il rapporto complicato con un grande artista. C'è la battaglia tra ciò che spinge a cancellare, rimuovere, dimenticare - fosse anche una cognata pronta a bruciare le carte rimaste - e tra ciò che spinge a conservare e collezionare (il collezionismo non è forse un tentativo di resistere al tempo che si perde?).

Ci sono queste cose, in questo libro bizzarro (il bello è sempre bizzarro, affermava Charles Baudelaire), che partendo da un dettaglio ci dice su un'epoca e su un artista più di tanti ponderosi saggi

martedì 12 agosto 2014

L'atto d'amore degli accaniti lettori di Marcel Proust

Andrè Gide ne rifiutò la pubblicazione per poi mangiarsi le mani, tanto da ammettere nero su bianco che quello era stato "uno dei rimpianti, dei rimorsi più cocenti" di tutta una vita. Succede anche con i capolavori. Dopo molti rifiuti Marcel Proust fu costretto a pubblicare a proprie spese Dalla parte di Swann, il primo dei volumi della Recherche. E pensare che a un secolo di distanza godono ancora di buona salute i lettori di Proust.

In genere non coltivano la loro passione nel segreto della stanza. Sarà che non esitano a fare outing. Si riconoscono e si lasciano andare al gioco delle citazioni e delle predilezioni. Così dalle parole di Proust discendono altre parole: scambiate in un circolo di lettura ospitato da una libreria come depositate nelle pagine di una rivista.

In questo contesto il più bell'omaggio per il centenario - non solo un omaggio in effetti - è il volumetto Dalla parte di Marcel uscito per le Edizioni Clichy con cui si raccolgono pensieri, articoli, interviste, disegni su Proust e la Recherche, pubblicati in questi anni sulla rivista Cultura Commestibile: redazione che, evidentemente, è anche un covo di accaniti proustiani, pervicacemente convinti che la Recherche sia il "libro che ha cambiato il modo di scrivere, forse anche di pensare".

E' una miniera di sorprese, questo libriccino. Io mi limito a riportare un consiglio, sottratto alla Guida essenziale per il buon proustiano:

La Recherche è l'opera più laicamente sacra dell'umanità e come tale va letta e riletta costantemente anche una sola pagina al giorno.

Buona lettura.

lunedì 18 novembre 2013

Se la narrativa ha traslocato dalle grandi città

La verità è che negli ultimi anni le metropoli sono state sempre meno dei luoghi d'esperienza. Ridotte a centri amministrativi o di potere, a mete di shopping o residenze per ricchi (per non parlare dei musei a cielo aperto cui si vorrebbero ridotte tante nostre città), costose e poco inclusive, nei propri luoghi simbolo offrono assai di meno quelle occasioni d'avventura e di incontro (tra diversi) che davano sale alle grandi narrazioni.

Questa è la risposta che si dà Nicola Lagioia, in un bel paginone centrale di Repubblica, a sua firma, di qualche tempo fa (La caduta di Metropolis), in cui  si pone la questione della perdita di centralità della grande città nella letteratura contemporanea.

Bella questione e mutamento di scenari che non avevo colto completamente, anche se la realtà come sempre è più articolata: il fascino della provincia non è solo di oggi (non scrive da oggi Philip Roth, con la sua Newark che è un altro mondo rispetto a New York) e comunque c'è ancora tanta narrativa che vive grazie alla linfa vitale di metropoli come Berlino, Londra, Parigi, Barcellona.

Eppure è vero - come è vero che anche in Italia da anni c'è più provincia che Milano o Roma - è vero che Londra non più la Londra di Dickens, che Parigi non è più la Parigi di Proust e Balzac.

E sarà che la grande città ha perso diverse delle sue attrattive, sarà che sono altri i luoghi di vita e di lavoro cui si aspira nel nostro immaginario. Però mi piace, mi piace pensare che in questo modo il mondo si sia fatto più largo e che la letteratura sia stata brava ad abitarlo.


martedì 15 ottobre 2013

Quando Proust e Joyce confessarono di non essersi letti

Pare che almeno una volta i due mostri sacri della letteratura del Novecento - Marcel Proust e James Joyce - si siano incontrati. Accadde a Parigi, all'Hotel Majestic, il 19 maggio 1922. Dai due non c'era da aspettarsi molto, visto l'allergia di Proust alle uscite in società e la riluttanza di Joyce alle buone maniere.

Niente mi diverte meno di ciò che, vent'anni fa, veniva chiamnato esclusivo, affermava Proust. Non riesco a trovare il mio posto nell'ordine sociale se non come vagabondo, proclamava Joyce.

E l'incontro? Se possiamo prestare fede a un terzo scrittore, Ford Madox Ford, è così che andò:

Proust: Come dico, monsieur, in Dalla parte di Swann, che senza dubbio avrete...
Joyce: No, monsieur.
(pausa)
Joyce: Come il signor Bloom dice nel mio Ulisse, che voi, monsieur, avrete senza dubbio letto....
Proust: A die il vero, no, monsieur.
(pausa)

E per ulteriori informazioni, sul contesto e sull'epilogo, c'è un libro che vi raccomando davvero, un regalo di 101 incontri straordinari: One on One di Craig Brown (edizioni Clichy). Consigliato, davvero. 

venerdì 6 settembre 2013

Ma Proust e Tolstoi avevano già tutto in testa?

In tutta onestà e con la venerazione necessaria, ti sembra mai possibile che Marcel Proust, quando ha scritto: "A lungo, mi sono coricato di buonora" potesse avere già chiaro in testa tutta "La ricerca"? 

E poi, ce lo vedi Lev Tolstoj che, fiducioso e di buon umore, va a capo al primo paragrafo di "Guerra e pace" già immaginando come andrà a finire cinque volumi più avanti? 

Forse solo quel pazzo di Dante, quando si siede e scrive: "Nel mezzo del cammin di nostra vita" sa già di dover fare dopo circa altri quattordicimiladuecento endecasillabi.

(Sandro Luporini con Roberto Luporini, Vi racconto Gaber, Mondadori)

martedì 8 gennaio 2013

Vermeer e quel paese singolare che è l'Olanda

La vera arte non sa che farsene dei proclami, si compie nel silenzio.

Così diceva Marcel Proust e sono proprio queste parole che sceglie Anthony Bailey per aprire il suo Il maestro di Delft, storia di Johannes Vermeer, il genio della pittura olandese. Proust, è noto, amava Veermer, al punto che fu solo per lui, per vedere quattro suoi quadri esposti a Parigi, che sortì fuori di casa per l'ultima volta. Eppure la sua citazione mi convince a metà. La vera arte ha bisogno anche di parole, almeno dopo, ovvero quando si può e si deve salvaguardare la memoria e conservare alcune emozioni.

E' un bel libro, questo di Anthony Bailey, un libro buono anche per i non addetti ai lavori. Buono per quanti almeno una volta nella vita si sono fatti incantare da un quadro di Vermeer, dalle sue stanze inondate di luce, dalle sue domestiche affaccendate, dai gesti fermati in un tempo fuori del tempo.

Un libro buono perfino per coloro che Vermeer non lo hanno visto: attraverso queste pagine possono entrare nella storia di quel paese assai singolare che è l'Olanda. Un paese inventato dal nulla, da terre strappate dall'acqua e da una guerra impossibile. Un paese che fece il suo ingresso nelle carte geografiche con il nome di Province Unite (anche se erano già separate dalle Province del Sud) e che nel giro di pochi anni, tra una giravolta della storia e l'altra, si scoprì grande potenza.

Da allora gli olandesi partitrono alla scoperta del mondo, accolsero nelle proprie città artigiani e mercanti in fuga da guerre e intolleranze varie, scoprirono i tulipani e ci specularono sopra fino a un incredibile crack. Soprattutto amarono e coltivarono la pittura, tanto che i quadri si trovavano ovunque, nelle case borghesi, come nelle taverne e nei bordelli.

E questo libro ci racconta tutto questo: Vermeer, il genio della pittura; il secolo d'oro dell'Olanda; e una storia che sembra un romanzo e forse lo è.

sabato 15 dicembre 2012

Se l'arte moltiplica i mondi diversi



Grazie all'arte, anziché vedere un solo mondo, il nostro, lo vediamo moltiplicarsi, e quanti sono gli artisti originali, altrettanti mondi abbiamo a nostra disposizione, più diversi gli uni dagli altri di quelli che ruotano nell'infinito; mondi che mandano ancora fino a noi il loro raggio inconfondibile molti secoli dopo che s'è spento il fuoco, si chiamasse Rembrandt o Vermeer, da cui esso emanava.

(Marcel Proust, Il tempo ritrovato, Bur)

lunedì 21 maggio 2012

Se gli odori dominano il cuore degli uomini

Colui che domina gli odori domina il cuore degli uomini.

È questa citazione, la prima cosa che mi ha riportato a galla, dopo essermi tuffato dentro le pagine di questo singolare, spiazzante, affascinante libro di Stefania Valbonesi. Una citazione, come il bordo di una vasca a cui aggrapparsi per riprendere fiato, per raccogliere i pensieri.

Parole che ho incontrato diverso tempo fa, leggendo Il Profumo di Patrick Süskind e che oggi mi viene da piegare diversamente, riflettendo su come gli odori non si lascino imbrigliare, gli odori semplicemente ci sono e condizionano le nostre vite.

Sono emozioni, gli odori. Sono onde che si agitano dentro, sono ricordi che affiorano, sono impronte che segnano le nostre relazioni.

Sono importanti gli odori, ma la letteratura poche volte ha voluto, o saputo misurarsi con essi. Come se fossero stati lasciati in deposito ai grandi  investigatori delle memorie individuali e domestiche, Marcel Proust su tutti, oppure ai poeti come Charles Baudelaire, perché si sa, i poeti sanno che è attraverso i sensi, perfino attraverso l'olfatto, che si può arrivare alle cose infinite.

Stefania Valbonesi l'odore lo mette al centro di un vero romanzo, lo usa come un'arma, un alibi, un movente. Intorno all'odore si dipana una trama dove non mancano il delitto e l'inchiesta.

Non perché oggi sia necessario, magari per catturare i lettori. Questo non è un giallo, almeno non lo è secondo le convenzioni del genere. Non lo è, anche se la terra dove si dipana questa storia non mi sembra molto lontana dalla Sicilia di Sciascia e Camilleri. Anche se le atmosfere sono quelle di certi polizieschi metafisici che in altri anni ci sono arrivati dal Sudamerica, alla Borges per intendersi.

Però se l'odore ha a che vedere con ciò che di noi è meno consapevole, e magari più animalesco, perché no, richiama anche la legge della giungla, se legge c'è. Si fiuta il pericolo, si traccia il territorio, si dipanano attrazioni e repulsioni. Ci si eccita all'odore del sangue.

E se forse può essere letto con un giallo, c'è molto di più, in questo libro. In un piacere della lettura – questa è la prima cosa – che non lascia pause.

Per questo quando sono tornato a galla, mi sono fermato. Ho raccolto le mie emozioni. E naturalmente, ho respirato a fondo.

(dalla mia prefazione a Lo strano caso del Barone Gravina di Stefania Valbonesi, Romano editore)












lunedì 20 giugno 2011

Se anche Franzen non ce la fa con La Recherche

Se anche Jonathan Franzen non ce l'ha fatta con Marcel Proust, forse possiamo tutti essere più sereni: abbandoniamo ogni senso di colpa per non aver finito e a volte nemmeno cominiciato uno dei capolavori più citati e mi sa anche meno esplorati della letteratura moderna.

Perchè è così, dici La Recherche e vai in confusione. Arrossisci e provi a dileguarti dalla domanda con qualche frasetta di circostanza. Ma tu l'hai letta? Fossero tutti sinceri con se stessi e con il prossimo, ammettendo la propria ignoranza, magari rivendicandola.

C'è anche chi rivendica letture remote, parziali, rabdomantiche, frettolose (con La recherche?), ma sempre con qualche imbarazzo, perché Proust, si sa, è Proust.

Afferma Angelo Aquaro su Repubblica, a proposito dell'outing di Jonathan Franzen:

L'opera di Marcel Proust incute un rispetto così sacrale che perfino i più grandi ci si rapportano con lo stesso senso di colpevole inadeguatezza che attanaglia il comune lettore

Sarà per questo che il grande Franzen subito dopo l'outing si è lasciato andare a una mezza sorpresa? Ancora no, però questa estate, sapete, magari sarà la volta buona.

venerdì 4 marzo 2011

Se James Joyce vince la palma dell'illeggibile

Beh, non tutti hanno letto Proust, ma oggi non esiste lettore acculturato che non abbia perlomeno gli strumenti onde fingere convicentemente di averlo fatto

Così assicura Masolino D'Amico in una bella pagina di Tuttolibri dal titolo eloquente, E' formidabile! Ma chi lo legge?

E come dargli torto? Ha ragione lui. Ci sono grandi libri non molto letti, ci sono grandi libri illeggibili, ci sono grandi libri che la gente fa finta di avere letto. Concettualmente sono tre categorie diverse, anche se quasi sempre i libri coincidono.


Alla ricerca del tempo perduto è sicuramente uno di essi: non illeggibile, ma sicuramente poco letto. Ed è anche uno di quei libri che spesso e volentieri si dice di avere letto, perché non sta bene non averlo letto. O che si ammette solo a malincuore, diciamo per dovuta e rassegnata sincerità, di non avere letto.

Ma c'è un'opera che per Masolino D'Amico ha la palma incontestata del libro grande e illeggibile allo stesso tempo. Il Finnegans Wake di James Joyce.

Chi ci ha provato? Chi ci è riuscito?

 Figurarsi che in diversi hanno alzato bandiera bianca anche per l'Ulisse (e male hanno fatto, perché io alla seconda o alla terza in fondo ci sono arrivato: ed è una lettura di straordinaria bellezza). Si dice che lo stesso Hemingway, che pure fu un grande divulgatore di questa opera, in realtà abbia lasciato intonsa la sua copia.

Ma il Finnegans, come si fa? Come sostenere quell'invenzione linguistica che occupò sedici anni vita di James Joyce, sfida estrema, avventura insensata nei territori più inesplorati della parola?

Leggo ancora da Tuttolibri:

Anche nella sua operazione matta e disperatissima Joyce vuole che il lettore capisca; ma a costo di risalire all'origine di tutte le sue invenzioni, parola per parola

Io forse non capisco bene nemmeno questo. So che intanto dell'opera tra tutte una volta considerata la più intraducibile è uscito in italiano il libro secondo. Oltre cinquecento pagine di fatica.

E tanto di cappallo a Luigi Schenoni, eroe solitario di tanta impresa. La traduzione è opera sua. Apprendo ora che è morto prima di terminarla.



La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...