mercoledì 29 marzo 2023

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

 Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone, posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il mondo da lì, mi sembra che sia diverso e non è solo la pedana che mi alza di dieci centimetri.


Sono a Ferrara lontano però dal Castello, dal Palazzo dei Diamanti, dalle strade lastricate di giarroni e dai mattoni ferraresi che nei tramonti d’estate s’incendiano. No, qui siamo al Foro Boario, casette basse e solo qualche palazzone all’orizzonte: un bar di periferia, ma diverso da tutti gli altri perché qui si è fermata la carovana.

Il bar è del mio prozio che prima di acquistarlo, in un’altra vita, era un clown, un capo carovana che con il suo piccolo circo ha girato tutto il mondo. Ho visto cento volte lui e i suoi compagni inciampare nel bordo della pista mentre mi chiamano nuod, «nipote, vieni a farti vedere!»

Ma la magia del tendone, degli animali, degli acrobati si è fermata. Forse non era neppure stanco, Trento, ma per i suoi figli, Gianni e la Susy, e per i nipoti voleva qualcosa di stabile, così questo bar è diventato posto di tappa, come quelli verso Samarcanda, perché quando un circo passa nei paraggi molte attrazioni vengono a salutarlo. Hanno un misto d’invidia e di riprovazione negli occhi.

Mi vuole vicino, vuole che ascolti mentre il bar diventa quello che sono tutti i bar: un porto delle storie. In decine di lingue o in quella franca del circo ci si informa su parenti, si rievocano avventure, si ride e si piange mentre Trento traduce per me, ma non ce n’è troppo bisogno perché questo è un popolo che gira il mondo da sempre e non si è mai potuto permettere di non essere capito. Non hanno calzamaglie, pelli di leone o trucchi di scena – sempre che non siano arrivati di corsa da uno spettacolo appena finito – ma quello che sono se lo portano addosso e chiedono a Trento che effetto faccia stare fermi, l’essere stanziale ed è l’unico momento in cui lui, fiero come un hidalgo, abbassa gli occhi.

Narrano come se fossero accanto a un fuoco, a loro agio nei racconti orali del bar perché hanno lasciato ad altri la parola scritta. Loro sono solo voce, sembra che le storie abbiamo aspettato quel posto, quell’ora per manifestarsi di nuovo, così il bar diventa approdo sperso nelle luci di periferia che perdono consistenza per cedere ai contorni indistinti dell’acqua o della sabbia.

«Avrai tempo», mi ripeto ora, aveva ragione e no allo stesso tempo. Succede. Ho avuto tempo nei bar come in una poesia di Eliot, ho avuto molti racconti, ma mi sono perso una parte di quelli accompagnati da una musichetta da circo fantasma sotto il cielo di un Ferrara periferica che si faceva yurta, stazione di posta di Babele, però ancora avverto l’eco di applausi spenti e il bisbiglio di mia madre leggero come una foglia che si abbatte al suolo.

Io sto dietro il bar e guardo, si usa ancora la segatura e non i detergenti per pulire per terra, la stessa che si usava sulla pista per assorbire il sudore, le paillette e le risate perse, qualche volta il sangue. Sono quasi sicuro che quando Gianni la passa, un po’gli manchi il fiato sospeso e l’ooo di quando saltava, le donne si coprivano gli occhi e gli uomini erano umiliati dalla sua prestanza fisica. Di certo, me l’ha confessato lei, a Susy manca l’essere ammirata mentre inguainata in una calzamaglia saltava in piedi da un cavallo all’altro come se fosse uscita da un film di cappa e spada.

Ma è Trento il mio preferito, da sempre. So che è di una razza antica e lo spiavo nel suo camerino quando si sfilava il naso tondo da clown e si struccava la bocca grottesca, mi sono sempre chiesto cosa si possa desiderare di più che far ridere perché è una cosa che ha del divino, ho imparato dopo che le risate le devi toglierle a te stesso per darle ad altri, ma questo è un altro discorso.

Di tanto in tanto lo sento chiamare: «nuod! Nuod!» Vuol dire che è arrivato qualcuno del circo e vuole farmelo conoscere. Mi presenta come quello che studia e se mi stringo nelle spalle lui sorride. In fondo è quello che faccio, mi dice, molto diverso dal reggersi a un trapezio, ammaestrare animali o fare il clown, e magari a loro diverte conoscere qualcuno che fa una cosa normale.

Vedo mio zio sorridere, è di nuovo capo carovana, giurerei che attorno alla bocca si è materializzato di nuovo il trucco di scena. Vedo gli avventori normali a bocca aperta, abbandonare il biliardo, stringere il bicchiere di lambrusco e avvicinarsi alla compagnia stravagante restando però in piedi. Vedo mia madre che arriva a prendermi – quanto ho sperato che si fosse distratta! - sono ancora troppo piccolo per fare tardi al bar. 

«Avrai tempo, vedrai» mi sussurra mentre qualcuno mi dedica una smorfia del suo repertorio, un trucco, un ultimo salto per togliermi dalla faccia quell’espressione delusa da bambino piccolo.

Chi l’ha detto? Non lo so, lo so, non voglio dirlo.

Massimiliano Scudeletti


martedì 28 marzo 2023

La Terapia del bar: Arnaldo Melloni racconta i Bruin Café dell'Olanda

 

I miei amati Paesi Bassi hanno dei locali tipici, tradizionali e di quartiere simili, anche se meno famosi, alle public house d’oltremanica. Si tratta dei Bruin Cafè dove gli abitanti (e i turisti) si ritrovano a bere principalmente birra e gin (jenever), chiacchierare e ascoltare musica. Non sono una sottomarca dei pub inglesi, hanno caratteristiche originali anche se li accomuna lo scopo sociale e di estensione del salotto di casa.

Bruin significa marrone perché sono tutti in legno scuro, sempre le pareti e spesso anche i pavimenti. L’atmosfera è soft, molto piacevole e confortevole, con luci soffuse e banconi spettacolari. Meno le seggiole che per qualche strano motivo sono quasi sempre d’epoca e decisamente scomode, soprattutto per chi è fuori misura come il sottoscritto e buona parte della popolazione locale.

L’odore all’interno è inconfondibile. Un concentrato di salsedine, birra e patate fritte che riprende in maniera decuplicata ciò che si respira in tutte le città olandesi. All’aria aperta il mare del nord e ogni tanto l’odore di pesce fresco hanno il sopravvento, dentro i Bruin cafè il profumo di luppolo e malto domina. Prima, quando si poteva fumare, era l’odore di tabacco a prevalere. Si sentivano soprattutto i tabacchi da sigaretta in busta e quelli da pipa. La fitta nebbia presente dentro i cafè contribuiva ad incrementare il colore scuro delle pareti.

Le mie esperienze nei Bruin Cafè sono state varie, anche grazie alle numerose trasferte in terra d’Olanda per lavoro e per diletto. Ne cito due di segno diverso. La prima, in gioventù a Groningen dove, in una chiesa sconsacrata trasformata in birreria, venni introdotto da un amico del luogo al terribile Kopstoot. Il locale serviva agli avventori birra al metro (un metro di birra, nel senso di boccali disposti in lunghezza per arrivare alla misura desiderata) e l’usanza locale prevede sorsi alternati di jenever e birra. Come mi spiegò l’amico, il gin accende il fuoco e la birra lo spenge … diciamo che non finì benissimo. Per capirsi, Kopstoot significa colpo in testa.

La seconda, in età più matura, ad Amsterdam giusto per segnalare i Bruin Cafè che preferisco: il De Zotte nel quartiere Joordan (il più vivo della città) che ha un ambiente molto accogliente, con un meraviglioso gatto bianco che si aggira tra i tavoli rafforzando l’idea del salotto di casa. La scelta di birre è indirizzata soprattutto su etichette belghe. 

Per soddisfare il mio patriottismo, cito anche lo splendido Arendsnest posizionato in Herengracht, lungo uno dei più bei canali della città, che si distingue dagli altri perché serve solo birre olandesi. Nella parte inferiore c'è anche una sala degustazione, la sala Bartholomeus, dove viene insegnato a degustare correttamente la birra, e vengono spiegati i processi di fermentazione.

Arnaldo Melloni


domenica 26 marzo 2023

La terapia del bar: Mario Pini e il quartier generale al Circolo Arci


La terapia sì, mai titolo poteva essere più appropriato, perché di 
malattia si trattava. Dolorosa che non ti dava scampo, intrigante come non mai. Generazione di anticorpi che ti avrebbero permesso di non incontrarla di nuovo, purtroppo, quella malattia: si chiamava gioventù.


Erano i primissimi anni '70, il '68 girava ancora a pieno regime nelle menti e sulle strade. La presa di coscienza, le P38, le domeniche di austerity. 

Eravamo un manipolo fiorentino di portatori sani di quella malattia chiamata gioventù, nel biennio che avrebbe portato alla maturità, e avevamo bisogno di un Quartier Generale, una Centrale Operativa alla quale far confluire tutti gli Huston, we have a problem del periodo. 

La casa del Pelucco fu il primo luogo designato. Non poteva che essere così. La nonna Fanny sempre disponibile, i genitori Tullio e Guglielma oberati da tanto lavoro, una presenza più rarefatta ma sempre intensa. All'anagrafe Pelucco faceva Alessandro, e si era guadagnato il nomignolo grazie al ciuffo ribelle di capelli sempre ritti al risveglio, come i  Robby e Quattordici della Gallina Tric Trac

Eravamo tanti, sempre in movimento, un'andare e venire continuo da suggerire spazi e orari più ampi da adibire allo scopo.

Prima il Circolo ARCI a pochi metri, un bel giardino con la pista di pattinaggio, coadiuvato in un secondo tempo da una casa nel mezzo di ciò che allora era campagna. Presa in affitto grazie alla maggiore età già raggiunta dallo Sceriffo, facente a scuola funzione di capoclasse, al secolo Alessandro pure lui. 

Ma era il Circolo il luogo dove si faceva la storia e si sviluppavano gli anticorpi alla malattia chiamata gioventù. Dove confluivano fra gli altri Fabio da Oltrarno, Marcello dal vicino Campo di Marte, Marco da piazza della Vittoria. E poi Cinzia, Roberta, Rossella e altre amiche dei dintorni, con le loro incertezze e la loro capacità di amare più sviluppata della nostra. Lunghe serate e tardi pomeriggi passati lì, una busta di patatine, un pezzetto di pizza, una birra, in compagnia degli intrighi di cuore e dei dibattiti infiniti sull'esistenza. Ma lì, anche per organizzare le gite domenicali al mare, la prima uscita in campeggio all'Elba, l'Interrail in giro per l'Europa.

Doveva passare qualche anno prima che uscisse Ecce Bombo, ma noi eravamo già lì, funzionava proprio in quel modo. 

E di anni ne mancavano ancora quindici prima che Ligabue pubblicasse Bar Mario, ma noi eravamo già lì, funzionava proprio in quel modo.

Il Centro Tecnico di Coverciano e lo Stadio Franchi erano a un passo, ma non avevamo tempo per il calcio, c'era da rifare il Mondo, e prima da costruire il nostro...

Mario Pini

sabato 25 marzo 2023

La Terapia del bar: Fausto Meoli racconta il suo circolino


Lo sai dove comincia la grazia o il tedio a morte del vivere in provincia. 

Sì, ecco, la mia storia potrebbe iniziare con questa strofa di Canzone quasi d’amore di Francesco Guccini. Anzi inizia tutto nei primi anni ‘70 del secolo scorso nel bar della Casa del popolo, si quella dell’allora comunisti, di un piccolo paese dell’empolese, provincia del Granducato di Firenze, città a cui si ambiva per meglio indottrinarsi. Nell’entropia attuale della mia mente, per proseguirla con la stessa canzone di Guccini alla ricerca dei visi che ti hanno dimenticato.

Le partite di calcio della nazionale, allora si vedevano solo quelle in diretta in bianco e nero fino al 1977, vero evento di goliardo/terapia di massa. Il Bicco, altro soprannome di un signore, a cui i tedeschi avevano rubato la bicicletta in tempo di guerra, furoreggiante durante Italia-Germania contro gli avversari, a cui di solito veniva indicato un tecnico della panchina tedesca e detto …è quello che ti ha rubato la bicicletta. 

Il nocio, lui si chiamava Giuseppe, per scommessa si lavò con la saponetta, d’estate, nel piazzale dei tavoli esterni prospicente la strada, sotto lo scroscio d’acqua di una gomma da giardino, rimanendo solo in mutande. Vinse la scommessa. A mezzanotte, Giovanni il barista, concludeva il turno gettando con slancio sedie e tavoli in plastica dall’esterno all’interno, attraverso le finestre e ci ricordava che il bar rimane aperto ma il servizio al bancone è self-service. Ero studente a Firenze. Vivevo questa dualità dei territori. 

Ma è grazie a quel bar della Casa del Popolo che mi è rimasta quell’ironia e quella voglia da provinciale che mi ha fatto incontrare e confrontarsi con altre persone in altri ambiti. La nostalgia di quei ricordi è lieve, struggente. Un amarcord non rinnegabile.
Riaffiorano quei personaggi. Il soprannome e non il nome ci distingueva. Noi andavamo lì e non al Circolino MCL dei democristiani. Loro erano sempre la lista N.11 sulla scheda elettorale. Mentre il PCI con il n.1. Il Governo, epiteto con cui veniva chiamato un tale di cognome Mancini che era la bandiera rossa intransigente fra i frequentatori di quel bar, diceva sempre agli scrutatori che sarebbero stati al seggio, quando la scheda è contrassegnata con il n.11, scrivete due volte il n.1. Ovviamente non lo fecero mai. 

Il capannello intorno al juke box ci faceva sognare, quello che per me e tanti altri, sarebbe stato l’invito al viaggio. Non solo Guccini o Claudio Lolli. You’re so vain di Carly Simon, Wild world di Cat Stevens prima che diventasse musulmano, Aqualung dei Jethro Tull, noi giovani di allora con i capelli lunghi, il bicchiere di “birrino” Peroni, le sigarette Nazionali o se andava meglio le Muratti, un po’ invisi agli altri paesani che preferivano il giuoco della carte. 

Fausto Meoli


La terapia del bar, per la Piccola filosofia di Viaggio


 

domenica 27 novembre 2022

Non si ferma il treno delle storie di Tito


  • Sosteneva Ryszard Kapuscinski che un viaggio non inizia nel momento in cui partiamo, né finisce nel momento in cui raggiungiamo la meta, oppure, aggiungo io, nel momento in cui facciamo ritorno a casa. 

  • Comincia molto prima, il viaggio, soprattutto finisce molto dopo. Continua perché si fa flusso di ricordi e risacca di emozioni, perché si affida a pensieri, sogni, letture, a volte anche parole scritte. 
Di tutto questo è prova provata l'ultimo libro di Tito Barbini, Il treno non si fermò a Kiev, edito da I libri di Mompracem, storia di storie di viaggio che abbracciano due continenti e si sistemano una di seguito a l'altra, seguendo due fili conduttori: uno tutto di Tito, la sua curiosità, l'empatia che sa mettere in gioco a ogni incontro; l'altro che possiamo inseguire su una carta geografica, dal Portogallo al Vietnam, percorrendo i binari del viaggio in treno più lungo al mondo, da un oceano all'altro. 

Tito spreme i suoi diari, recupera appunti su taccuini dimenticati nei cassetti, adotta altri punti di vista, investe i luoghi di ieri con  domande di oggi e diverse inquietudini. Chiama a sé le tragedie della Storia per essere più attrezzato al cospetto degli orrori del presente, a partire dalla guerra in Ucraina. Racconta storie in precedenza trascurate non perché di minore valore, ma perché dovevano attendere il tempo giusto: ed è vero che le storie più importanti a volte sono proprio quelle che abbiamo consegnato al silenzio, magari nel timore di non esserne ancora all'altezza.

Tempi, luoghi, narrazioni che la ferrovia tiene insieme, come un antidoto alla malattia del viaggiatore più autentico, in quanto tale incline alla divagazione, alla tentazione non messa in conto, al cambio di piani e di mete.

Il treno, certo, è aspetto non secondario della seduzione che questo libro esercita. Garcìa Marquez, al proposito, affermava  che Il treno è l'unica maniera umana di viaggiare. "L'aereo -  diceva - sembra un miracolo, ma va così veloce che arrivi solo col corpo, e poi ti muovi per due o tre giorni come una sonnambula, finché non arriva l'anima rimasta indietro”.

E sì, il treno è mezzo ideale per il cacciatore di storie, col suo tempo dilatato, con i pensieri che scivolano come il mondo dal finestrino. Con la sua capacità di rendere il viaggiatore presente e puntuale a se stesso. Non posso immaginare il viaggio - i viaggi - di Tito, senza il treno.

Ora che ci penso risuona in modo particolare anche quell'aggettivo ultimo con cui ho introdotto questo suo libro. Di sicuro non sarà davvero l'ultimo, e però non manca un certo carattere ultimativo. Come se in queste pagine Tito avesse voluto abbracciare per intero il mondo raccontato in precedenza  in diversi libri, ricapitolarlo per mettere qualche punto fermo. 

Che poi questa espressione, punto fermo, sembra così inappropriata. Non può che esserlo per un uomo che prova a spiegare così la sua irrequietezza:

"A chi mi domanda quale sia l'obiettivo del mio viaggio rispondo che non ne ho nessuno in testa vado dove trovo qualcosa che mi incuriosisce, mi intriga, dove comincio a sentirmi a mio agio, a star bene, insomma".

Proprio vero che a viaggiare si comincia prima di partire. 







    martedì 26 luglio 2022

    Noi siamo viandanti, non camminatori


     Noi siamo viandanti, non camminatori. 

     Così si legge già nelle prime pagine di Non mancherò la strada. Che cosa può insegnarci il cammino di Luigi Nacci (Laterza): e  sospetto che forse l'autore avebbe rinunciato alla parola cammino anche nel sottotitolo. Ma certo questo è un libro che ci insegna molto: ci insegna a essere viandanti - e tali siamo anche quando non camminiamo - ci insegna molto sulla vita. Almeno sulla vita quale dovremmo riprenderci, dando forza alla lentezza, all'attenzione, alla curiosità, al desiderio di incontro con noi stessi e con gli altri. 

    Ho letto molti dei libri di Luigi, ma questo mi sembra particolarmente importante, sarà che è un libro che riprende temi e suggestioni dei libri precedenti, come semi che si sono fatti pianta; o sarà piuttosto che queste pagine accolgono il lavoro di molti anni, una scrittura che a lungo si è interrogata. 

    Quante cose ci sono dentro: l'Est e l'Ovest, la Spagna e i Balcani, Santiago e la Francigena, il decalogo del viandante e il decalogo della partenza, il bicchiere d'acqua e la porta aperta e l'Italia della gentilezza,  i passi dei Rolling Claps che nel perdersi ritrovano antiche strade, il ricordo di Marco, viandante che non c'è più. 

    Quante cose, in un libro per cui Luigi, nell'avvertenza iniziale, suggerisce diverse possibilità di lettura: Può essere aperto a caso, essere letto dall'inizio alla fine o viceversa, essere letto a pezzi, a lacerti, o non essere letto affatto, può essere lasciato chiuso, nell'ombra, in attesa che una mano incerta venga, prima o poi, ad aprirlo

    Per me, invece, è da leggere per intero. Facendo tesoro delle sue pagine. Indugiando poi nelle poesie che Luigi sparge tra un capitolo e l'altro. Come questa, distillato di saggezza.

     

    Rendi il tuo passo incerto

    Scansa la strada maestra

    Attardati nei margini

    Cerca semi nelle pietraie

    Compi gesti fertili

    Fiorisci in ogni stagione

    Confida nella sconfitta

    Mettiti i piedi in testa

    Cresci senza invecchiare

    Stai dalla parte dei fragili




     

    La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

      Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...