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martedì 6 settembre 2011

Inseguendo quei due eccentrici in velocipede

Autunno 1884: in Toscana arriva una giovane coppia decisamente eccentrica.


Lui è l'americano Joseph Pennell, 24 anni, quotato illustratore di libri e riviste. Lei è Elizabeth Robins, inglese, scrittrice che ha già dato alle stampe, tra le altre cose, una biografia di Mary Woollstonecraft.

Ma la cosa davvero strana è il marchingegno che si sono portati indietro. Bisogna farci mente locale per capire quello che in effetti è: un velocipede.

Chiamiamolo così, anche se con le sue tre ruote (due enormi ai lati più una da triciclo davanti),i suoi due posti a sedere e il suo portabagagli rammenta piuttosto una carrozza a pedali.

Joseph ed Elizabeth hanno le idee piuttosto chiare: con quell'affare partiranno da Firenze e raggiungeranno Roma.

La gente li prende per matti. Una cosa del genere non si è mai vista nè sentita, non è mica come oggi che tanti poveri Don Chisciotte in bicicletta sfidano le automobili per strada.

Alla partenza da Piazza Santa Maria Novella i due sono salutati dalla folta colonia anglo-americana con molte apprensioni. C'è chi teme malaria e colera, chi li mette in guardia dagli osti senza scrupoli e addirittura dai briganti. E poi le strade: pessime ovunque. Quella era un'impresa da disperati. Una follia.

Forse anche un peccato, se è vero che una povera monaca, al loro passaggio, si farà il segno della Croce nemmeno avesse visto il Diavolo sui pedali.

E loro appena fuori da Firenze registreranno il primo guasto e certo avrebbero di che scoraggiarsi.
Però basta sollevare la testa, guardarsi attorno. Guardare tutta quella gente che sgomita per salutarli, spinta dalla curiosità e dalla meraviglia. Guardarsi intorno e godersela:

E' vero che spesso accade di vedere tutte queste cose in fretta, dai finestrini del treno in corsa. Ma solo seguendo il serpenteggiare della strada o i lunghi rettifili come facevamo noi, fermandoci a nostro agio o rallentando, si può godere dell'intensa bellezza del paesaggio e provare gli stessi sentimenti degli uomini del passato che sapevano bene come rendere piacevoli i loro viaggi”

E a noi non resta che inseguire quei due sulle pagine de L'Italia in velocipede (Sellerio). E con loro inseguire un'Italia che non c'è più, un'altra possibilità di viaggio, un desiderio di lentezza sempre e comunque salutare.

sabato 23 luglio 2011

Senza Internet, il fantasma di una vita intera

Chissà perchè ho acquistato Quando Internet non c'era.

So solo che l'ho fatto praticamente a scatola chiusa, senza essermi mai imbattuto prima in Angelo Morino (consapevolmente intendo, volete che non mi sia mai capitata tra le mani una sua traduzione?), chissà perché, forse perché con le copertine blu della Sellerio vado sul sicuro o quasi, o forse perché il titolo mi ha fatto scattare qualcosa.

Sì, sarà per il titolo, anche se il titolo c'entra fino a un certo punto, vale per contrasto o meglio ancora per contesto, giusto per capire che oggi è tutto così semplice con Internet, hai un dubbio, una curiosità, un nome che ti suona in un certo modo, e non devi impazzire tra enciclopedie e bibliografie, te ne stai comodo a casa e vai dove ti pare, altro che tonnellate di carta in polverosi archivi...

Eh sì, c'è anche questo, nella storia che Angelo Morvino ci racconta, la sua storia di grande ispanista, di docente universitario, di traduttore dei grandi sudamericani (da Gabriel Garcìa Marquez a Osvaldo Soriano, da Mario Vargas Llosa all'amico Manuel Puig), raffinato intellettuale che ci aspetteremmo in cattedra e che invece ci sorprende al nostro fianco, lettore per il piacere di leggere, lettore che semmai, a differenza di tanti di noi, ha avuto la fortuna di vivere del suo piacere.

Ma c'è di più in queste pagine, un di più che va oltre l'autobiografia di un intellettuale e ci regala uno di quei libri strani e curiosi, curiosi perché vivono di curiosità, perché si alimentano consapevolmente di quel bisogno di porsi domande e andare avanti così.

Il giovane Morino inizia la sua carriera di studioso con molte certezze e la voglia di tradurre la letteratura nei ragionamenti della scienza - non voleva questo lo strutturalismo? Finisce per inseguire per tutta la vita il fantasma di una scrittrice cilena minore, che in Italia non si era ancora conquistata nemmeno una nota a fondo pagina.


Marìa Luisa Bombal: chi era costei?

Fantasma da inseguire, ma anche fantasma che per una vita insegue Morino, rispuntando fuori nei modi più singolari e inattesi.

Ma perchè volerne sapere di più? Non c'è risposta a questa domanda, non ci deve essere, finché entrare in una libreria sarà un'operazione diversa dal rifornimento di benzina a un distributore.


E meno male che non c'era Internet. Una ricerca su Google e Marìa Luisa Bombal sarebbe stata abbandonata nel giro di pochi minuti.

Altro che il fantasma di una vita.

martedì 26 aprile 2011

Pessoa, il grande sedentario che sapeva viaggiare


La vigilia di non partire mai
almeno non ci sono valigie da fare


Non c'è solo Emilio Salgari, nel pantheon dei viaggiatori immaginari. Tra gli scrittori che ci hanno schiuso orizzonti rimanendo abbarbicati nello stesso luogo, quale fosse una condizione dell'anima, c'è anche lui, Fernando Pessoa, il portoghese dalla parola capace di dare forma all'inquietudine, al desiderio, al silenzio.

Viaggiatore dell'infinito. Grande sedentario. Poeta che seppe nascondersi dietro diversi altri nomi, poiché anche questo è un modo di essere altrove.

Ne parla Antonio Tabucchi, nel suo ultimo libro, Racconti con figure (Sellerio). Ricordando, per esempio, che l'unico vero viaggio della sua vita fu quello che lo riportò da Durban, in Sudafrica, a Lisbona, città da cui non si sarebbe più allontanato.

Scrive Tabucchi:


Altri sarebbero stati i suoi viaggi: eroici, visionari, furibondi viaggi di avventure e di scoperte, ma tutti immaginari

So di cosa sono fatti questi viaggi: impalpabili e autentici, come lo sono i moti dello spirito.

domenica 24 aprile 2011

Tutti i libri del mondo, il sogno di Alessandria

Quando il re ne fu informato, disse a Demetrio: "Credi che ci siano altri libri sulla terra che noi non abbiamo ancora?"


E Demetrio: "Sì, ce n'è una grande quantità in India, in Persia, in Georgia, in Armenia, Babilonia e ancora altrove"


Il re si meravigliò nell'udirlo e rispose: "Continua dunque a cercarli"


Non è solo la storia di uno scempio, La biblioteca scomparsa di Luciano Canfora (Sellerio), intellettuale che con la sua sapienza dei tempi antichi sa appassionarci come un giallista scandinavo. E' prima di tutto la storia di un sogno. Il sogno di possedere tutti i libri del mondo. L'idea di riunirli tutti insieme in un solo posto, cisterna e ombelico di ogni sapere, di ogni sapienza.

Scrive Canfora:

Quei dotti furono gli unici che godettero, in un certo periodo della storia della biblioteca, della visione abbagliante, poi sogno di scrittori fantastici, dei libri di tutto il mondo. Ansia di totalità e volontà di dominio non dissimili dall'impulso che spingeva Alessandro, secondo le parole di un antico retore, a cercare di "varcare i confini del mondo"

Ansia di totalità e volontà di dominio, certo. Ma prima di tutta la consapevolezza che dominare è capire. E che per capire servono i libri. I libri da tradurre, leggere, conservare.

venerdì 4 febbraio 2011

Sorpresa, c'era l'amore nel ghetto di varsavia

Hendusia avrebbe potuto uscire, salvarsi, sopravvivere. Ma non voleva che i bambini avessero paura, che piangessero. E rimase con loro, pur sapendo che cosa sarebbe accaduto. Per senso del dovere o per amore dei bambini? All'epoca era la stessa cosa

Il ricordo di Marek Edelman è un fascio di luce rapido, nervoso, incostante. Indugia per un attimo, poi si sposta per frugare altrove, perché non c'è tempo per tutti i volti, le storie, i dolori, le vite inghiottite. Si sposta e quanto c'è dietro ritorna nell'oscurità, per rimanerci fino a che qualcuno non arriverà su quella pagina, non si soffermerà su quel nome.


Marek Edelman non è uno scrittore, non lo hai mai voluto essere. Marek Edelman è stato uno dei comandanti dell'insurrezione del ghetto di Varsavia, orgoglio estremo e disperato degli ebrei che presero alla sprovvista la più micidiale delle macchine di sterminio.

Marek Edelman è uno che ha visto andare alla morte qualcosa come 500 mila uomini e donne e bambini, e che poi, dopo che tutto questo era finito, non se n'è più voluto andare dalla Polonia svuotata della sua civiltà ebraica (e ancora contaminata dall'antisemitismo), perchè ne doveva presidiare le tombe abbandonate.

Era anche un uomo che per tutta la lunga vita che gli è rimasta ha saputo coltivare la memoria senza pretendere di parlare a nome delle vittime:

Non ho diritto di parlare a nome loro, perché non so se morivano nell'odio oppure perdonando i loro carnefici. E nessuno ormai lo potrà sapere. Ma ho il dovere di vegliare affinché il ricordo di loro non scompaia.

Ed era anche un uomo che si voltava indietro per guardare meglio anche al presente, ad altre guerre, ad altri crimini dell'umanità, ad altre ingiustizie.

In tutto questo a me piace ricordare anche Marek Edelman uomo schivo che ha saputo comunque donarci parole preziose. Come queste, racchiuse in C'era l'amore nel ghetto (Sellerio), un libretto che non so bene come definire, tutto fuorché una cronaca, un diario, un romanzo.

Se proprio proprio direi che anche questa è in qualche modo letteratura di viaggio, perché anche la memoria può rappresentare un viaggio. Un viaggio nell'inferno del ghetto. Ma non solo nell'inferno, perché come il viaggiatore è tale se è capace di guardare l'umanità che abita (e abitare è verbo diverso da popolare) le terre che attraversa, così lo sguardo di Marek Edelman ci porta testimonianza di umanità, prima ancora che di crudeltà.

Grazie a lui ho capito che è si fa un torto a semplificare, generalizzare, ridurre. Che non ci si può accontentare solo del termine di vittime per le vite che fiorivano nel ghetto.

C'era l'amore nel ghetto, appunto. Anche nel ghetto si sognava, si sperava, si faceva politica, si scriveva, ci si innamorava. Ed è proprio per tutto questo che l'orrore dello sterminio fa ancora più orrore.

mercoledì 4 agosto 2010

Elvira Sellerio, l'editore che ci mancherà

Ne sono sempre stato convinto, ma oggi lo sono ancora di più, con la consapevolezza che ti infligge il peso di una scomparsa a cui non ti eri preparato: ci sono libri che, necessariamente, non sono solo dei loro autori, che portano, indelebile, anche l'impronta dei loro editori.

Sempre che si tratti, è ovvio, di editori intelligenti, coraggiosi, innovativi. Che amano il loro lavoro, che sanno che i libri non sono solo dei prodotti da piazzare. Che difendono la loro impresa – uso questo termine per richiamare sia gli obblighi dell'economia che il senso dell'avventura – sicuri che in primo luogo si tratta di difendere un'identità.

I libri della Sellerio erano in realtà i libri di Elvira Sellerio. E oggi mi manca Elvira Sellerio, una donna che non ho mai incontrato di persona, ma che credo di aver conosciuto attraverso le sue scelte editoriali.

Proprio domenica scorsa, una domenica piacevolmente oziosa, ho indugiato a lungo su tutti i libri della Sellerio che anno dopo anno ho acquistato (sono fatto così, nella mia libreria i titoli sono ordinati per casa editrice). In particolare di quella fantastica, immensa, imprescindibile collana che è La memoria: quei piccoli grandi libriccini che sono una macchia di blu, con la carta vergata e la riproduzione di una pittura al centro della sovraccoperta. Una gioia solo a guardarli. 

E quello che c'è dentro poi, perché non è solo eleganza. Spesso con loro in libreria sono andato sulla fiducia, confidando sulla scoperta: un marchio di qualità.

Ed è in questo modo che nella mia vita sono entrati Gesualdo Bufalino e Andrea Camilleri, due nomi per andare sul sicuro, perché poi non si contano i viaggi che ho fatto grazie a queste pagine: sono stato alle Azzorre con Antonio Tabucchi e a Sarajevo con Adriano Sofri, sulla strada di Sintra con due autori portoghesi che mi sa oggi non dicono niente a nessuno e nell'antica Grecia con Aristotele che si improvvisa detective.

Domenica guardavo quell'esplosione di blu, due scaffali pieni. E mi sono detto: per loro devo trovare altro posto. 

E anche questo è un modo per essere grati.




La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...