Visualizzazione post con etichetta Guatemala. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Guatemala. Mostra tutti i post

lunedì 26 settembre 2016

Lombrichi e uva passa per una vita di talento

Ecco tutto quel che occorre, magari insieme a una certa serenità e al dono di sapersi rallegrare delle piccole cose, qualche volta anche proprio di niente.

Mi aveva già stregato con L'arte di collezionare mosche, Fredrik Sjoberg, ora si ripete con un altro libro dal titolo improbabile, Il re dell'uvetta, proposto ancora una volta da Iperborea. Con lui sembra proprio di uscire di casa con un retino per la caccia alle farfalle, non sapendo bene cosa succederà davvero. Magari quel retino si userà solo per provare a catturare la luce che sorprende le cose e le rende più incantevoli.

Entomologo, scienziato affabulatore, collezionista di insetti con lo spirito dell'artista, uomo catturato da sogni quali la possibilità di scrivere la storia naturale delle notti d'estate, questa volta il nostro ci spinge a inseguire la vita di tale Gustaf Eisen, personaggio oscuro e multiforme vissuto a cavallo di Ottocento e Novecento tra Svezia e California.

Eisen era uomo di grande talento, messo al servizio di singolari passioni. E anche uomo capace di inventarsi più volte la sua vita. Da zoologo è stato uno dei più grandi studiosi di lombrichi - e come dimenticare la vocazione allo studio delle mosche di Sjoberg? Però è stato anche grande viaggiatore, consulente di Darwin, amico di Strindberg, pioniere della coltivazione dell'uva passa in California, collezionista di tessuti maya del Guatemala, ecologista che per primo ha evocato la necessità di tutela delle sequoie, sedicente scopritore dell'oggetto che più di tutti ha destato fantasie e ossessioni, il Santo Graal... Basta?

Genio ed eccentricità, questo è stato Eisin e questo è ciò che ci racconta Sjoberg, che parlando di Eisin, parla spesso anche di se stesso e delle sue passioni. Bizzarre e marginali, ma capaci di abitare un cuore, magari fin dall'adolescenza.

Tanto quello che conta è starsene fermi ad aspettare le storie. Prima o poi - dice - tutto sembra far parte di uno stesso puzzle. Tanto la felicità può celarsi dove meno ci si aspetta, dove c'è il niente piuttosto che il tutto.

giovedì 23 giugno 2011

Vincere il Nobel e perdere a casa propria

Il giorno stesso in cui vinse il Nobel, nel 1962, il New York Times non trovò niente di meglio che infliggergli una stroncatura: che è un po' come vergognarsi della propria nazionale che vince i Mondiali.

Peggio ancora gli era andata quando aveva pubblicato il suo capolavoro, Furore. A Salinas, sua città natale, si scatenò la caccia al libro, ma solo per dargli fuoco sulla pubblica piazza.

Povero John Steinbeck, quanto è stata lunga e difficile la strada della sua affermazione anche a casa propria. Non in libreria, a dire il vero, visto che ancora oggi è un autore che vende ben due milioni di copie all'anno solo negli Stati Uniti. Ma tra i critici letterari, nel mondo della cultura che conta.

Federico Rampini nel suo San Francisco-Milano (Laterza) ci racconta come è andata. Ed è una storia che merita di conoscere, perché le ragioni per cui oggi anche l'America ha riscoperto Steinbeck sono esattamente le ragioni per cui per tanti anni fu marchiato come scrittore da cui si poteva prescindere. Volete mettere con Faulkner, Fitzgerald o Hemingway?

Troppo facile, tropo sentimentale, troppo datato, dicevano. Soprattutto troppo ideologico: e questa parola è una cartina tornasole. Steinbeck raccontava l'America stracciona, l'America dei morti di fame, l'America di chi lasciava le fattorie del Midwest e si metteva in viaggio per disperazione o al massimo per uno straccio di speranza. Parlava della California prima della Silicon Valley. Ambientava le sue storie tra poveri immigrati, contadini stremati, pescatori.

Come poteva piacere all'America di George Bush?

Ma per gli stessi motivi Steinbeck è uno degli autori riscoperti nell'America di Obama, quell'America che non ha paura degli immigrati e che si riconosce in quell'idea della California, come metafora di una vitra migliore, di un'altra possibilità.

La possibilità per cui oggi stanno lavorando duro altri braccianti, da altri paesi, negli stessi campi dei contadini di Furore. E allora sento come mie le parole di Rampini:

Invece dei bianchi poveri che fuggivano dalla carestia in Oklahoma questi ora vengono dal Messico, dal Guatemala o dall'Afghanistan. Se soltanto potessero leggerlo, loro probabilmente non troverebbero Steinbeck né fazioso, né datato

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...