Gli
anni che gli restano da vivere sono ancora molti, ma Filippo il tempo
sa bene come ammazzarlo, sa come esorcizzare il male di vivere, come
scampare alle ambizioni, agli impegni che ti impigliano e ti stritolano,
allo stesso modo di Charlie Chaplin catturato dalle ruote dentate di
Tempi Moderni. La sua è una lunga, dolce eutanasia.
Così lascia sfilare i giorni come i libri che divora uno dietro l’altro, esempio concreto di quello che Montesquieu diceva della lettura quale pigrizia travestita. Quando non legge inganna le ore riempiendo fogli e fogli di piccole prose.
Sono pagine in cui prende le difese del riso che, per dirla con Buffon, è la qualità distintiva dell’uomo, e per dirla con Yorick, allunga d’un dito la misura della nostra esistenza; dello sbadiglio, che annunzia il placido sonno, il dolce risvegliamento, il salutare appetito, la felice sazietà; della notte, benefattrice di tutto ciò che respira, che per gl’infelici è il fine delle fatiche, per i felici il cominciare dei piaceri; del vivere in campagna e del perdono.
Alcune cronache, però, ce lo ricordano impegnato soprattutto a ravvivare brigate di amici per intere serate, una battuta dietro l’altra, un verso improvvisato che scappa e uno che gli va dietro, e così a trascorrere le ore, magari davanti al fuoco di un caminetto, magari con qualche castagna a cuocere e parecchio vino da spartirsi. E' quello che ha sempre voluto, con i cari amici al caro loco viver temprando il verno al proprio fuoco.
Sono le veglie di uno zio un po’ stravagante, accattivante già nell’aspetto, con il suo naso acquilino, gli occhi vivacissimi, i capelli crespi che prendono sempre la piega sbagliata, gli abiti che più semplici non si può, con l’unico vezzo di un fazzoletto bianco sempre avvolto intorno al collo. Scapolone tanto sciolto di lingua, quanto impacciato nei doveri del tran-tran quotidiano, con la sua memorabile distrazione, lui che non riesce mai a segnarsi o a ricordarsi una data, e che talvolta si dimentica persino di firmare le proprie lettere.
Il tempo, da parte sua, gli concede di riflettere lungamente sulla vita, sul bene e sul male che questa gli ha portato e che lui ha colto. Può predisporsi alla morte con tutta calma, privilegio raro, dispiaciuto solo di non saperne in anticipo l'ora.
"La morte sarebbe allora come una cosa lungamente meditata... arriverebbe allora come un viaggiatore, a cui si è preparato il letto".
Non ne ha mai saputo nulla, ma sono sicuro che gli sarebbe piaciuto da matti il passo leggero con cui monaci e poeti giapponesi attraversano il mondo fluttuante. Sostituite il sakè con un buon Chianti, gli aceri con i castagni: allora le parole di Ryoi, letterato all'altro capo del mondo, sono le sue parole, la vita che ha chiesto e che alla fine ha avuto.
"Volgersi alla luna, alla neve, ai fiori di ciliegio e alle foglie rosse degli aceri, cantare canzoni, bere saké, consolarsi dimenticando la realtà".
(Da Paolo Ciampi, Il poeta e i pirati, Polistampa)
Così lascia sfilare i giorni come i libri che divora uno dietro l’altro, esempio concreto di quello che Montesquieu diceva della lettura quale pigrizia travestita. Quando non legge inganna le ore riempiendo fogli e fogli di piccole prose.
Sono pagine in cui prende le difese del riso che, per dirla con Buffon, è la qualità distintiva dell’uomo, e per dirla con Yorick, allunga d’un dito la misura della nostra esistenza; dello sbadiglio, che annunzia il placido sonno, il dolce risvegliamento, il salutare appetito, la felice sazietà; della notte, benefattrice di tutto ciò che respira, che per gl’infelici è il fine delle fatiche, per i felici il cominciare dei piaceri; del vivere in campagna e del perdono.
Alcune cronache, però, ce lo ricordano impegnato soprattutto a ravvivare brigate di amici per intere serate, una battuta dietro l’altra, un verso improvvisato che scappa e uno che gli va dietro, e così a trascorrere le ore, magari davanti al fuoco di un caminetto, magari con qualche castagna a cuocere e parecchio vino da spartirsi. E' quello che ha sempre voluto, con i cari amici al caro loco viver temprando il verno al proprio fuoco.
Sono le veglie di uno zio un po’ stravagante, accattivante già nell’aspetto, con il suo naso acquilino, gli occhi vivacissimi, i capelli crespi che prendono sempre la piega sbagliata, gli abiti che più semplici non si può, con l’unico vezzo di un fazzoletto bianco sempre avvolto intorno al collo. Scapolone tanto sciolto di lingua, quanto impacciato nei doveri del tran-tran quotidiano, con la sua memorabile distrazione, lui che non riesce mai a segnarsi o a ricordarsi una data, e che talvolta si dimentica persino di firmare le proprie lettere.
Il tempo, da parte sua, gli concede di riflettere lungamente sulla vita, sul bene e sul male che questa gli ha portato e che lui ha colto. Può predisporsi alla morte con tutta calma, privilegio raro, dispiaciuto solo di non saperne in anticipo l'ora.
"La morte sarebbe allora come una cosa lungamente meditata... arriverebbe allora come un viaggiatore, a cui si è preparato il letto".
Non ne ha mai saputo nulla, ma sono sicuro che gli sarebbe piaciuto da matti il passo leggero con cui monaci e poeti giapponesi attraversano il mondo fluttuante. Sostituite il sakè con un buon Chianti, gli aceri con i castagni: allora le parole di Ryoi, letterato all'altro capo del mondo, sono le sue parole, la vita che ha chiesto e che alla fine ha avuto.
"Volgersi alla luna, alla neve, ai fiori di ciliegio e alle foglie rosse degli aceri, cantare canzoni, bere saké, consolarsi dimenticando la realtà".
(Da Paolo Ciampi, Il poeta e i pirati, Polistampa)
E anche per me, che soddisfo solo una delle due condizioni - non ho quell'età - è un nome che suona solo vagamente familiare. Come un anziano parente che da bambino hai fatto appena in tempo a incontrare, prima che se ne andasse. E che forse non hai nemmeno visto, solo che i ricordi si confondono con i desideri, con le rimozioni, con le parole che rimangono sospese intorno a una tavola, con le fotografie che forse ti sono passate sotto gli occhi.
Il Gratta era un clown. Un uomo di circo che per una vita portò in giro il suo piccolo, modestissimo spettacolo. In giro, si fa per dire, poi. Le sue tournée erano le periferie, i quartieri popolari, gli spazi ancora lasciati liberi dai centri commerciali e dalle altre colate di cemento.
Era un circo di poche cose: il giocoliere, la contorsionista, qualche numero da avanspettacolo. A volte nemmeno il tendone. Un circo da tempi di guerra, o da dopoguerra di macerie e stenti. Ma per i fiorentini il Gratta era il divertimento, la possibilità di evasione, la risata libera, finalmente, dopo l'incubo dei bombardamenti.
Era il circo che ti veniva incontro per riscattare una giornata storta, per alleviare le preoccupazioni, per strappare una risata a bambini con niente in tasca, per sciogliere la timidezza di una coppia alla sua prima uscita.
Questo libriccino di Polistampa, in gran parte fotografico, ci racconta Gratta e il suo circo, accompagnandoci così per mano in un tempo, come spiega Stefano De Rosa, povero ma autentico che non richiedeva difficili giochi di prestigio con la propria identità.
Poi, naturalmente, arrivò la televisione e tolse ogni incanto agli spettacoli del Gratta. Gli italiani divennero più ricchi e più esigenti. Più ricchi e anche più poveri di altre cose, certo.
E io che non ho mai avuto modo, ho nostalgia per quelle panche di legno, per quelle serate con il cocomero o lo zucchero filato, per quelle piazze che un clown poteva ancora trasformare con un tocco di inspiegabile magia.