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sabato 30 marzo 2013

Lui che sapeva bene come ammazzare il tempo

Gli anni che gli restano da vivere sono ancora molti, ma Filippo il tempo sa bene come ammazzarlo, sa come esorcizzare il male di vivere, come scampare alle ambizioni, agli impegni che ti impigliano e ti stritolano, allo stesso modo di Charlie Chaplin catturato dalle ruote dentate di Tempi Moderni. La sua è una lunga, dolce eutanasia.

Così lascia sfilare i giorni come i libri che divora uno dietro l’altro, esempio concreto di quello che Montesquieu diceva della lettura quale pigrizia travestita. Quando non legge inganna le ore riempiendo fogli e fogli di piccole prose.

Sono pagine in cui prende le difese del riso che, per dirla con Buffon, è la qualità distintiva dell’uomo, e per dirla con Yorick, allunga d’un dito la misura della nostra esistenza; dello sbadiglio, che annunzia il placido sonno, il dolce risvegliamento, il salutare appetito, la felice sazietà; della notte, benefattrice di tutto ciò che respira, che per gl’infelici è il fine delle fatiche, per i felici il cominciare dei piaceri; del vivere in campagna e del perdono.

Alcune cronache, però, ce lo ricordano impegnato soprattutto a ravvivare brigate di amici per intere serate, una battuta dietro l’altra, un verso improvvisato che scappa e uno che gli va dietro, e così a trascorrere le ore, magari davanti al fuoco di un caminetto, magari con qualche castagna a cuocere e parecchio vino da spartirsi. E' quello che ha sempre voluto, con i cari amici al caro loco viver temprando il verno al proprio fuoco.

Sono le veglie di uno zio un po’ stravagante, accattivante già nell’aspetto, con il suo naso acquilino, gli occhi vivacissimi, i capelli crespi che prendono sempre la piega sbagliata, gli abiti che più semplici non si può, con l’unico vezzo di un fazzoletto bianco sempre avvolto intorno al collo. Scapolone tanto sciolto di lingua, quanto impacciato nei doveri del tran-tran quotidiano, con la sua memorabile distrazione, lui che non riesce mai a segnarsi o a ricordarsi una data, e che talvolta si dimentica persino di firmare le proprie lettere.
 
Il tempo, da parte sua, gli concede di riflettere lungamente sulla vita, sul bene e sul male che questa gli ha portato e che lui ha colto. Può predisporsi alla morte con tutta calma, privilegio raro, dispiaciuto solo di non saperne in anticipo l'ora.

"La morte sarebbe allora come una cosa lungamente meditata... arriverebbe allora come un viaggiatore, a cui si è preparato il letto".

Non ne ha mai saputo nulla, ma sono sicuro che gli sarebbe piaciuto da matti il passo leggero con cui monaci e poeti giapponesi attraversano il mondo fluttuante. Sostituite il sakè con un buon Chianti, gli aceri con i castagni: allora le parole di Ryoi, letterato all'altro capo del mondo, sono le sue parole, la vita che ha chiesto e che alla fine ha avuto.

"Volgersi alla luna, alla neve, ai fiori di ciliegio e alle foglie rosse degli aceri, cantare canzoni, bere saké, consolarsi dimenticando la realtà".


(Da Paolo Ciampi, Il poeta e i pirati, Polistampa)

domenica 15 aprile 2012

Perdersi e ritrovarsi alla fine del mondo

Forse per questo avevo bisogno proprio dell'Antartide: perché tante cose che mi porto dentro e per le quali mi manca il dono della parola esatta possano rimergere proprio laggiù, nel continente bianco che è un mondo a sé; nel Sud oltre ogni Sud, così vicino ai sogni da poter essere abitato anche dai tanti Tito Barbini che non sono stato, che non ho potuto o voluto essere, che ho sepolto o dimenticato dentro di me.


E ogni qualvolta mi alzo in volo con questo stato d'animo, ritrovo sempre un vecchio detto tuareg a farmi compagnia:


"Mettiti in cammino anche se l'ora non ti piace. Quando arriverai l'ora ti sarà comunque gradita"


E così andrà, anche questa volta.

(da Tito Barbini, Antartide.Perdersi e ritrovarsi alla fine del mondo, Polistampa)

mercoledì 15 febbraio 2012

Quella strana solitudine dei vecchi mobili

I mobili che sin dalla nostra infanzia siamo abituati a vedere risvegliano in noi dei sentimenti che molti uomini conoscono.


E tuttavia, per quanto ne so, non si attribuisce ai mobili il potere di risvegliare in noi delle idee di una stranezza tutta particolare; mentre io so da un po' di tempo e per esperienza che ciò è spesso possibile.

Si è talvolta notato sotto quale singolare aspetto si mostrano dei letti, degli armadi con specchiera, delle poltrone, dei divani e delle tavole quando li si scorge di colpo in mezzo alla strada, in una scenografia nella quale non siamo abituati a vederli, e questo capita durante i traslochi, o in alcuni quartieri davanti alle porte delle botteghe dei mercanti che espongono sul marciapiede i pezzi migliori della loro mercanzia.


I mobili ci appaiono in una nuova luce, sono ricoperti da una strana solitudine.....


(Giorgio De Chirico, tratto da Claudio Paolini, Cose.Una piccola antologia, Polistampa editore) 


martedì 14 febbraio 2012

Quando gli oggetti diventano cose

Che differenza c'è tra le "cose" e gli "oggetti"?

Non ci avevo mai pensato, e forse avevo percepito qualcosa solo nel mezzo della scrittura di Una domenica come le altre, quando ho provato a raccontare una serie di sensazioni - un curioso impasto di familiarità ed estraneità - provate entrando in camera di mia madre dopo la sua morte.

Ora un piccolo libro in cui mi sono imbattuto per caso mi ha aiutato a capire. Si chiama - e come se no? - Cose. Una piccola antologia, l'autore è Claudio Paolini, è stato pubblicato da Polistampa per i Quaderni del servizio educativo, non un titolo facile da trovare in libreria, insomma.

Di solito, ci spiega Paolini, usiamo il termine "cose" quale sinomimo di "oggetti",  però lo avvertiamo a pelle, che tra le due parole c'è almeno uno scalino emotivo. Dice, Paolini:

Gli oggetti sono con ogni evidenza manufatti legati a un uso specifico che li riconduce al quotidiano. Hanno una loro precisa caratterizzazione che li costringe in un tempo e in uno spazio delimitati. Si guastano, si rompono e sono soggetti a tutti gli accidenti del caso.


Le cose, viceversa, sono gli oggetti quando questi si caricano di relazioni tali da far sì che la loro dimensione materiale si accompagni a quella metafisisa dei sentimenti e del ricordo.

Bello pensare che gli oggetti possono diventare cose, non per cosa servono, ma per il modo con cui si legano a noi, per le emozioni che si sprigionano nel rapporto.

Ora mi torna. E mi piace pensare che il senso della nostra vita sia anche questo, investire gli oggetti che ci circondano di sentimenti e ricordi, trasformarli in cose.


domenica 11 settembre 2011

Il clown che fece ridere un'intera città

Per chi non è fiorentino, e fiorentino di una certa età, il nome non dirà proprio nulla. Gratta? E chi era?

E anche per me, che soddisfo solo una delle due condizioni - non ho quell'età - è un nome che suona solo vagamente familiare. Come un anziano parente che da bambino hai fatto appena in tempo a incontrare, prima che se ne andasse. E che forse non hai nemmeno visto, solo che i ricordi si confondono con i desideri, con le rimozioni, con le parole che rimangono sospese intorno a una tavola, con le fotografie che forse ti sono passate sotto gli occhi.

Il Gratta era un clown. Un uomo di circo che per una vita portò in giro il suo piccolo, modestissimo spettacolo. In giro, si fa per dire, poi. Le sue tournée erano le periferie, i quartieri popolari, gli spazi ancora lasciati liberi dai centri commerciali e dalle altre colate di cemento.

Era un circo di poche cose: il giocoliere, la contorsionista, qualche numero da avanspettacolo. A volte nemmeno il tendone. Un circo da tempi di guerra, o da dopoguerra di macerie e stenti. Ma per i fiorentini il Gratta era il divertimento, la possibilità di evasione, la risata libera, finalmente, dopo l'incubo dei bombardamenti.

Era il circo che ti veniva incontro per riscattare una giornata storta, per alleviare le preoccupazioni, per strappare una risata a bambini con niente in tasca, per sciogliere la timidezza di una coppia alla sua prima uscita.

Questo libriccino di Polistampa, in gran parte fotografico, ci racconta Gratta e il suo circo, accompagnandoci così per mano in un tempo, come spiega Stefano De Rosa, povero ma autentico che non richiedeva difficili giochi di prestigio con la propria identità.

Poi, naturalmente, arrivò la televisione e tolse ogni incanto agli spettacoli del Gratta. Gli italiani divennero più ricchi e più esigenti. Più ricchi e anche più poveri di altre cose, certo.

E io che non ho mai avuto modo, ho nostalgia per quelle panche di legno, per quelle serate con il cocomero o lo zucchero filato, per quelle piazze che un clown poteva ancora trasformare con un tocco di inspiegabile magia.

lunedì 15 agosto 2011

Il poeta dimenticato e i pirati del Mediterraneo

 Capita che i personaggi dei libri ogni tanto tornino a bussare a sorpresa alla tua porta, come un amico che non rivedi da tantissimo tempo, che forse si è addirittura trasferito in un'altra città. Di tanto in tanto mi succede con Filippo Pananti, un poeta toscano "minore" (qualche anno fa gli ho dedicato un piccolo libro, Il Poeta e i pirati, edizioni Polistampa), più noto forse per essere stato portato schiavo ad Algeri dai pirati del Mediterraneo che per i suoi versi. Mi piace ricordarlo con una pagina che racconta la sua vita dopo la liberazione.


Gli anni che gli restano da vivere sono ancora molti, ma Filippo il tempo sa bene come ammazzarlo, sa come esorcizzare il male di vivere, come scampare alle ambizioni, agli impegni che ti impigliano e ti stritolano, allo stesso modo di Charlie Chaplin catturato dalle ruote dentate di Tempi Moderni. La sua è una lunga, dolce eutanasia.

Così lascia sfilare i giorni come i libri che divora uno dietro l’altro, esempio concreto di quello che Montesquieu diceva della lettura quale pigrizia travestita. Quando non legge inganna le ore riempiendo fogli e fogli di piccole prose.

Sono pagine in cui prende le difese del riso che, per dirla con Buffon, è la qualità distintiva dell’uomo, e per dirla con Yorick, allunga d’un dito la misura della nostra esistenza; dello sbadiglio, che annunzia il placido sonno, il dolce risvegliamento, il salutare appetito, la felice sazietà; della notte, benefattrice di tutto ciò che respira, che per gl’infelici è il fine delle fatiche, per i felici il cominciare dei piaceri; del vivere in campagna e del perdono.

Alcune cronache, però, ce lo ricordano impegnato soprattutto a ravvivare brigate di amici per intere serate, una battuta dietro l’altra, un verso improvvisato che scappa e uno che gli va dietro, e così a trascorrere le ore, magari davanti al fuoco di un caminetto, magari con qualche castagna a cuocere e parecchio vino da spartirsi.

E' quello che ha sempre voluto: con i cari amici al caro loco viver temprando il verno al proprio fuoco.

Sono le veglie di uno zio un po’ stravagante, accattivante già nell’aspetto, con il suo naso acquilino, gli occhi vivacissimi, i capelli crespi che prendono sempre la piega sbagliata, gli abiti che più semplici non si può, con l’unico vezzo di un fazzoletto bianco sempre avvolto intorno al collo. Scapolone tanto sciolto di lingua, quanto impacciato nei doveri del tran-tran quotidiano, con la sua memorabile distrazione, lui che non riesce mai a segnarsi o a ricordarsi una data, e che talvolta si dimentica persino di firmare le proprie lettere.

Il tempo, da parte sua, gli concede di riflettere lungamente sulla vita, sul bene e sul male che questa gli ha portato e che lui ha colto. Può predisporsi alla morte con tutta calma, privilegio raro, dispiaciuto solo di non saperne in anticipo l'ora.

La morte sarebbe allora come una cosa lungamente meditata... arriverebbe allora come un viaggiatore, a cui si è preparato il letto.

Non ne ha mai saputo nulla, ma sono sicuro che gli sarebbe piaciuto da matti il passo leggero con cui monaci e poeti giapponesi attraversano il mondo fluttuante. Sostituite il sakè con un buon Chianti, gli aceri con i castagni: allora le parole di Ryoi, letterato all'altro capo del mondo, sono le sue parole, la vita che ha chiesto e che alla fine ha avuto.

Volgersi alla luna, alla neve, ai fiori di ciliegio e alle foglie rosse degli aceri, cantare canzoni, bere saké, consolarsi dimenticando la realtà.

giovedì 2 settembre 2010

Leggere e camminare con Dino Campana

Se c'è un'operazione che risulta inutile alla comprensione dei Canti Orfici, - dice Cenacchi - questa è paradossalmente proprio l'esercizio della critica letteraria. Basterebbe forse leggere e camminare, camminare e leggere fino a confondere la prosa dei testi e quella del cammino, fino a non poter più distinguere la linea dei versi da quella dei propri sentieri

Amava le montagne, Giovanni Cenacchi, le amava e sapeva tradurle in parole e immagini che arrivavano al cuore di tutti, anche di coloro che già in collina cominciano a sentirsi fuori posto. Se n'è andato via troppo presto, Giovanni Cenacchi, portato via da una malattia che, tra le altre cose, ci ha privato di nuovi libri da tenere cari.

Come I monti orfici di Dino Campana (Polistampa), un libro che mi è capitato tra le mani quasi per caso (non credo nemmeno che sia di facile reperibilità). L'ho cominciato con l'idea di leggiucchiarlo e magari lasciarlo lì. Invece mi ha catturato, spiazzato, inchiodato a diverse riflessioni.

Beh, non capita tutti i giorni di imbattersi in un saggio letterario che è anche una singolare guida per avventurarsi in passeggiate per i monti. O se preferite, in un libro sulle meraviglie dell'Appennino meno conosciuto che è anche una formidabile biografia poetica.

Perché è questo che fa Giovanni Cenacchi, uomo innamorato della montagna che sceglie di camminare a fianco di un altro uomo, Dino Campana, per cui la montagna è stata maledizione (lui montanaro, come sperava di conquistare il mondo della cultura, lontano giù in città?), ma anche rifugio e consolazione.
Con un Dino Campana che conosciamo meno perché ha prevalso il mito del poeta maledetto e pazzo, relegato in manicomio: mito che poi è doppiamente fuorviante, perché il Campana del manicomio non è più il Campana poeta, è già un altro uomo.

Come parlare allora della sua poesia, senza le sue montagne? Forse c'è un altro modo: e si può cominciare lasciandoci dietro le biblioteche e i computer, mettendoci uno zaino in spalla, avventurandosi per gli stessi sentieri che lui stesso un tempo calpestò.


Leggere e camminare, camminare fino a riconoscersi nelle parole di Dino Campana:
E' così dolce sentirsi una goccia d’acqua una sola goccia ma che ha riflesso per un momento i raggi del sole

Camminare e leggere, appunto. Camminare e ascoltare la poesia.

sabato 10 luglio 2010

Con Filippo, dopo che tutto era successo

Capita che i personaggi dei libri ogni tanto tornino a bussare a sorpresa alla tua porta,come un amico che non rivedi da tantissimo tempo, che forse si è addirittura trasferito in un'altra città. A me oggi è successo con Filippo Pananti, un poeta toscano "minore" a cui qualche anno fa ho dedicato un piccolo libro (Il Poeta e i pirati, edizioni Polistampa), più noto forse per essere stato portato schiavo ad Algeri dai pirati del Mediterraneo che per i suoi versi. Mi piace ricordarlo con una pagina che racconta la sua vita dopo la liberazione.


Gli anni che gli restano da vivere sono ancora molti, ma Filippo il tempo sa bene come ammazzarlo, sa come esorcizzare il male di vivere, come scampare alle ambizioni, agli impegni che ti impigliano e ti stritolano, allo stesso modo di Charlie Chaplin catturato dalle ruote dentate di Tempi Moderni. La sua è una lunga, dolce eutanasia.
Così lascia sfilare i giorni come i libri che divora uno dietro l’altro, esempio concreto di quello che Montesquieu diceva della lettura quale pigrizia travestita. Quando non legge inganna le ore riempiendo fogli e fogli di piccole prose.
Sono pagine in cui prende le difese del riso che, per dirla con Buffon, è la qualità distintiva dell’uomo, e per dirla con Yorick, allunga d’un dito la misura della nostra esistenza; dello sbadiglio, che annunzia il placido sonno, il dolce risvegliamento, il salutare appetito, la felice sazietà; della notte, benefattrice di tutto ciò che respira, che per gl’infelici è il fine delle fatiche, per i felici il cominciare dei piaceri; del vivere in campagna e del perdono.
Alcune cronache, però, ce lo ricordano impegnato soprattutto a ravvivare brigate di amici per intere serate, una battuta dietro l’altra, un verso improvvisato che scappa e uno che gli va dietro, e così a trascorrere le ore, magari davanti al fuoco di un caminetto, magari con qualche castagna a cuocere e parecchio vino da spartirsi. E' quello che ha sempre voluto, con i cari amici al caro loco viver temprando il verno al proprio fuoco.
Sono le veglie di uno zio un po’ stravagante, accattivante già nell’aspetto, con il suo naso acquilino, gli occhi vivacissimi, i capelli crespi che prendono sempre la piega sbagliata, gli abiti che più semplici non si può, con l’unico vezzo di un fazzoletto bianco sempre avvolto intorno al collo. Scapolone tanto sciolto di lingua, quanto impacciato nei doveri del tran-tran quotidiano, con la sua memorabile distrazione, lui che non riesce mai a segnarsi o a ricordarsi una data, e che talvolta si dimentica persino di firmare le proprie lettere.
Il tempo, da parte sua, gli concede di riflettere lungamente sulla vita, sul bene e sul male che questa gli ha portato e che lui ha colto. Può predisporsi alla morte con tutta calma, privilegio raro, dispiaciuto solo di non saperne in anticipo l'ora.

La morte sarebbe allora come una cosa lungamente meditata... arriverebbe allora come un viaggiatore, a cui si è preparato il letto.

Non ne ha mai saputo nulla, ma sono sicuro che gli sarebbe piaciuto da matti il passo leggero con cui monaci e poeti giapponesi attraversano il mondo fluttuante. Sostituite il sakè con un buon Chianti, gli aceri con i castagni: allora le parole di Ryoi, letterato all'altro capo del mondo, sono le sue parole, la vita che ha chiesto e che alla fine ha avuto.

Volgersi alla luna, alla neve, ai fiori di ciliegio e alle foglie rosse degli aceri, cantare canzoni, bere saké, consolarsi dimenticando la realtà.

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...