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lunedì 13 gennaio 2020

Nella guerra d'Algeria come il macchinista ferroviere di Guccini

Come il bombarolo di De Andrè, o meglio ancora come il macchinista ferroviere di Guccini con la sua locomotiva scagliata a bomba. Sogni ed esplosivi, aneliti di giustizia e destini crudeli. 

Non ha bisogno di artifici ed effetti speciali un libro come Dei nostri fratelli feriti di Joseph Andras (Fazi), potente romanzo di esordio che ci porta nell'Algeria francese e negli anni della guerra di indipendenza. C'è già una storia che parla da sè, una storia autentica e triste, che ha bisogno solo di una voce misurata, allergica agli artefici. 

E' la storia di Fernard Iveton, operaio francese comunista, che sceglie consapevolmente di stare con gli algerini, la parte sbagliata che è anche la parte giusta. Sarà solo, sempre più solo, in ciò che farà discendere da questa scelta. E come un anarchico dell'Ottocento cercherà la strada dell'azione solitaria, del gesto esemplare. Un giorno del 1956 proverà a piazzare un ordigno nella fabbrica dove lavora. Non farà in tempo ad allontanarsi che lo cattureranno e lo porteranno via.

Un attentato sventato, soprattutto un attentato che difficilmente avrebbe potuto mettere a repentaglio la vita di qualcuno. Ma con lui - il traditore, il senzapatria - la giustizia francese sarà implacabile. Contro ogni aspettativa e previsione e malgrado le prese di posizione di gente come Albert Camus, Fernard Iveton sarà condannato a morte e la sentenza sarà eseguita: l'unico europeo ghigliottinato durante la guerra d'Algeria.

Di quest'uomo - che appare nell'immagine di copertina al momento del suo arresto, non si sa se più incredulo per quello che ha fatto o quello che non ha fatto - Andras sa raccontare splendidamente la breve parabola. E' la storia di un cuore puro, di un sognatore e di un colpevole meno colpevole di tanti che lo hanno giudicato. La storia di una follia politica e di un delitto per cui è stato pagato troppo. 

Dentro c'è anche una storia d'amore, perché poi è questo che sfugge alle cronache giudiziarie. Soprattutto c'è il silenzio, c'è la mancanza di pietà, che certo è dote che quasi sempre difetta alle istituzioni: in Francia, incredibile, la ghigliottina è stata cancellata solo nel 1981.

Ps: non ha necessariamente un indizio sulla qualità dell'opera, ma sull'autore sì. Con questo libro Joseph Andras ha vinto il Goncourt Opera Prima, premio da lui rifiutato con questa motivazione: la competizione, la concorrenza e la rivalità per me sono nozioni estranee alla scrittura e alla creazione. Applausi.

 

venerdì 11 ottobre 2019

Con quella voglia di toccare di nuovo l'America

Così scoprii che non conoscevo il mio paese. Io, scrittore americano, che scrive sull'America, lavoravo a memoria, e la memoria è, al meglio, una cisterna fallosa e contorta. 

Ecco, questo non te lo aspetti dallo scrittore che ha raggiunto il successo proprio grazie alle sue storie americane, di più, grazie alla capacità riconosciuta di raccontare l'America vera. Proprio lui, John Steinbeck, l'autore di Furore, l'uomo capace di dare voce e dignità ai contadini messicani della California. 

Lui che ha vinto il Nobel per la letteratura poi ha riacciuffato il sogno che accarezzava sin da bambino, col primo libro che lo aveva conquistato: è andato in Europa, ha regalato la sua penna alle vicende di Re Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda. Ma ora, dove è finita l'America?

L'America non è New York, come la Francia non è Parigi. Più facile che si possa trovare nelle parole che si ascoltano al banco di un bar o negli odori sul ciglio della strada. Da venticinque anni non toccavo il paese. Così dice e venticinque anni sono tanti, sono ancora di più se si misurano col calendario della nostalgia. Quando era più giovane, quando il lusso era viggiare su un furgone scassato e fermarsi dove si fermava la gente. 

Ecco, di tutto questo ha bisogno John Steinbeck, premio Nobel. Rimettersi per strada e toccare il suo paese. Così attrezza un  furgoncino che pare restituirgli l'ebbrezza della gioventù - ma che ribattezza Ronzinante. Per compagno sceglie Charley, un barboncino che saprà contendergli il ruolo di protagonista. Poi una bella mattina si lascia dietro la casa, la moglie e un bel po' di altre certezze.

Viaggi con Charley alla ricerca dell'America (Bompiani edizioni) racconterà tutto ciò che è successo nelle settimane successive, con un'intensità che rammento in pochi altri libri americani, senz'altro Strade blu di William Least-Heat Moon, senz'altro Mille miglia in cammino fino al Golfo del Messico di John Muir, molto altro non mi viene in mente.

Dentro c'è l'America profonda, c'è l'America che non è New York, l'America anni Sessanta che fa parte del mio, del vostro immaginario. Ma c'è soprattutto l'esperienza del viaggio, la considerazione di ciò che il viaggio può produrre a chi viaggia. 

Fin dalle prime pagine: 

Un viaggio è come un matrimonio. La maniera sicura per sbagliare è credere di tenerlo sotto controllo. 

E perché mai, se così si è più giovani davvero.











 

lunedì 17 settembre 2018

La liberia di Algeri per chio amava la letteratura e il Mediterrraneo

Un uomo che legge ne vale due.

E' questa la frase che compare sulla quarta di copertina de La libreria della rue Charras di Kaouther Adimi (L'Orma editore), un gran bel libro che parla di altri libri, delle passioni che la parola scritta accende, dei fili di vicende, luoghi, nomi che anche una libreria di pochi metri quadri può tessere

E' una storia presa dalla fine. Algeri, più o meno nei nostri anni: Ryad, studente universitario a Parigi, poche  idee e poche motivazioni, arriva per svuotare e chiudere una libreria, Les Vraies Richesses. Dentro ci sono volumi ingialliti, quadri, foto sbiadite che rimandano a un'altra vita, a un'altra storia. Quella di un altro ventenne, Edmond Charlot, arrivato da Parigi tanto tempo prima, lui sì con un'idea per la testa: fondare una libreria-casa editrice, capace di tenere insieme le due sponde del Mediterraneo. 

Sarà una biblioteca, una libreria, una casa editrice - si legge nel suo diario - ma sarà innanzitutto un luogo per gli amici che amano la letteratura e il Mediterraneo.    

Proposito da cui discenderà una straordinaria storia, umana e professionale. Perché quella piccola libreria,  al 2 bis della rue Charras, diventerà un ponte tra mondi diversi e un porto sicuro per una comunità di ingegni e affetti. Perchè la casa editrice - un giorno saranno ricordate come le mitiche Éditions Charlot - ospiteranno l'esordio di Albert Camus, diventeranno punto di riferimento per scrittori del calibro di Antoine de Saint-Exupéry e André Gide, faranno man bassa di premi e riconoscimenti.

Poi ci saranno altri anni, assai più tristi: i tempi difficili dell'editoria, la guerra d'Algeria, le due sponde sempre più distanti l'una dall'altra. Rimarrà solo quella piccola libreria, ormai chiusa. E quindi il dolore, che su queste pagine ho anch'io avvertito, per quella stessa libreria da svuotare. Lascerà il posto a un altro esercizio commerciale.

Pare la liturgia di un funerale, che lascia spazio solo alla nostalgia del passato. E invece no, se penso a tutte le vite che sono state alimentate da questa libreria-casa editrice, se solo provo a immaginarmi quanto ne deve essere disceso. 

Perchè un uomo che legge non ne vale solo due, ne vale quanti sono i libri che accoglie nella sua vita.




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giovedì 16 febbraio 2017

Per il fiocco di neve è di conforto il rigagnolo di acqua sporca

Sono solo un giornalista, e per giunta dei più comuni, nel vero senso della parola. Con una moglie, due bambini e un cocker. 

Così dice di sé Hervé Clerc. E benché non sia propriamente un giornalista comune non è per questo che merita farne la conoscenza, piuttosto per quello che di lui scrive il suo grande amico Emmanuel Carrère: "Hervé appartiene a quella categoria di persone per le quali essere non è un fatto ovvio".

Di Hervé sostiene anche che sia l'uomo meno fanatico del mondo e il più libero dai pregiudizi. E già questo basterebbe. Ma la questione è che un giorno ormai lontano, svanito l'entusiasmo del Maggio francese ma non ancora conclusa la giovinezza che invita alla ricerca, Hervè si trovò a incrociare il buddismo.

 Lo scoprì nudo, immobile, vuoto. Nemmeno seppe dargli un nome e del resto tutto accadeva al di fuori delle parole. Ma senza diventare buddista da allora ha continuato a inoltrarsi in quell'oceano di saggezza, sospinto dal vento delle domande più che dalla fame di risposte.

Tutto questo ora potete leggere in Le cose come sono (Adelphi), libro scritto avendo per la testa il lettore più lontano dal buddismo: un lettore francese radicato nella propria cultura, con il basco e la baguette sotto braccio, un lettore che ha tanta voglia di convertirsi al buddismo quanto di barattare il proprio bicchiere di Beaujolais con una tazza di sakè.

E così potrete scoprire che per un fiocco di neve è confortante pensare di non aver concluso la corsa, quando si confonde con l'acqua sporca del rigagnolo. Che siamo chiamati a percorrere una strada, non a raggiungere una meta, perché la fine del mondo, il luogo senza nascita né vecchiaia né morte, è in realtà il nostro corpo. Che bisogna abbattere gli alberi che nascondono la foresta. Che a volte la follia è la cosa più ragionevole che ci sia al mondo. E molto altro ancora.

No, non è la solita storia del naufrago del Sessantotto che si aggrappa al relitto di una fede purchessia. Buddismo, dice Hervé, è la religione dell'attenzione. Queste pagine sono una buona palestra di attenzione.

lunedì 21 novembre 2016

Quando i sogni non svaniscono con l'alba

E ancora una volta mi viene da dirlo: meno male che non ci sono solo i grandi editori che inseguono il colpo da  best-seller, meno male che c'è ancora chi crede alla possibilità di scoprire e proporre voci originali, capaci di raccontare nuove storie, di usare linguaggi diversi, di sottrarre all'ombra ciò che troppo volte è dimenticato o taciuto.

Ecco un libro che non avrei letto senza un editore come Primamedia e che non avrei scoperto senza quel passaparola che per qualche buon libro a volte fa la differenza: I sogni non svaniscono all'alba di Gianni Manghetti.

Libro che intreccia due viaggi e due parabole di vita: quella del Biondo che ritorna nella sua Toscana dopo un passato di operaio in Francia, dove ha perso il lavoro e la famiglia per non aver voluto piegare la schiena; e quello di Gent, in fuga dalla guerra civile nel suo Sudan, che attraversa il Mediterraneo e cerca asilo politico in un'Italia che si dimostrerà paese assai diverso da quello sognato e auspicato.

Due storie di immigrazione che si intrecciano: ieri e oggi, l'italiano che va via come tanti altri hanno fatto - e magari oggi tendiamo a dimenticarcelo - e lo straniero che da noi cerca di cominciare un'altra vita - e quasi sempre di lui si ignora ciò che è stato prima, tanto da ridursi a presenza, a corpo estraneo per le nostre strade.

Due storie che raccontano il nostro presente di muri, confini liquidi, indifferenze e rimozioni. Due storie che attraversano il nostro presente e lo chiamano in causa. Un filo comune che non è solo il destino dell'uomo che migra - e che sempre migrerà per cercare altra fortuna. Se il Biondo perde il lavoro è perché non ha accettato che la sua fabbrica producesse quelle mine che nel Sudan di Gent macellano donne e bambini, in una guerra sporca combattuta contro i civili.

Quanta tristezza in questo libro: ci sono ritorni dove tutto è cambiato, uomini che faticano per niente, sudore nei campi di pomodori, notti alla stazione, bevute solitarie. Eppure, eppure, i sogni non svaniscono all'alba, come dice anche il titolo. Possono resistere, i sogni, basta avere la testa dura, basta guardare oltre. Basta affidarsi, magari a chi viene dopo di noi: come ai ragazzi del libro, che i loro sogni non li sacrificano per un buon posto e una carriera promettente.

Tristezza e poi una speranza che si schiude, un domani che può essere diverso. Grazie a un libro che non è a tesi, che è romanzo a tutto tondo, che semplicemente si fa leggere pagina dopo pagina: per vedere come va a finire.

venerdì 5 agosto 2016

Quel circolo al bar nella Parigi di Sartre

Loro erano programmati per odiarsi e distruggersi e invece erano caduti l'uno nelle braccia dell'altro. Era bello sentire il proprio patronimico. In Francia, si aveva soltanto un nome. Di colpo, un poco dell'odore, della musica e della luce del loro Paese tornava, anche se l'uno era un russo bianco, ortodosso praticante, antisemita e misogino, che odiava i comunisti, e l'altro un ex nemico, un rosso fervente, convinto ed entusiasta, che aveva partecipato all'instaurazione del comunismo. Quel tipo di differenze, che vi facevano sbuzzare quando eravate al paesello, lì sparivano. Soprattutto se si trattava di due russi insonni.

Diffidavo di questo libro, diffidavo come mi capita di diffidare dei libri pompati da centinaia di migliaia di copie già vendute altrove, con tanto di premi - in questo caso nientemeno che il Goncourt - accaparrati con incontenibile voracità.

Se ho finito per comprarlo, Il club degli incorreggibili ottimisti di Jean Michel Guenassia (Salani), mi sa che è solo per la copertina, bellissima, per questa immagine che evoca tutto un mondo e un'epoca, la Parigi della rive gauche, i bistrot e i pernod, le appartenenze ideologiche e gli sradicamenti del mal di vivere, discussioni tirate fino all'alba, poesia, volute di fumo.

E non sarà un capolavoro, ma questa Parigi c'è tutta, Jean Paul Sartre compreso. E in questa Parigi c'è un bel pezzo di mondo. In particolare il mondo degli esuli, vite sottratte a dittature e offese varie, sospinte verso la Francia come i relitti di un naufragio.

Esilio come rinascita, esilio come incapacità di riannodare i fili dell'esistenza. Esilio ed esili, le molte storie che si intrecciano in uno di quei locali dove la Storia si riduce a una partita di biliardo, a un litigio inconcludente, a un gruppo di uomini che a notte fonda cercano di ritrovare la via di casa, se casa c'è.

sabato 11 giugno 2016

Annie Ernaux, per salvare il tempo in cui non saremo mai più

Salvare qualcosa del tempo in cui non saremo mai più.

Questo è il tempo, questo fa il tempo. Col tempo svaniranno le nostre immagini, le foto che custodiamo gelosamente nei nostri album, le foto con cui siamo finiti negli album degli altri, svaniranno come stanno svanendo, come sono svanite, le foto dei nostri genitori, dei nostri nonni.

Questo è il tempo, questo fa il tempo. Col tempo si annienteranno le parole con cui abbiamo nominato le cose, le persone, le azioni e i sentimenti, le parole con cui cui abbiamo provato a dare un senso, se non un ordine, al mondo.

Questo è il tempo, questo fa il tempo. Però poi ci sono altre parole, che il tempo lo riescono a raccontare. Certo non lo fermano il tempo, però sono come acqua nel grande fiume. Fanno in modo che anche noi si sia acqua che discende e va verso il mare. Senza sofferenza, senza nemmeno eccessi di nostalgia.

Parole come queste. Parole di un libro che considero un capolavoro: Gli anni di Annie Ernaux (L'Orma editore).  Parole, pagine in cui mi son tuffato. Poi la corrente mi ha portato via dolcemente per consegnarmi all'ultima riga. Questa, appunto:

Salvare qualcosa del tempo in cui non saremo mai più.

Libro che non so nemmeno definire, come succede con i libri più grandi. Libro che non è né autobiografia né saggio né cronaca collettiva, ma qualcosa di tutto questo e altro ancora. Certo straordinariamente capace di amalgamare in un'unica narrazione i fatti della vita privata e i fatti della storia. Di alternare la terza persona singolare alla prima persona plurale (mai la prima persona singolare): e anche questo qualcosa vorrà dire.

Libro che è semplicemente la vita. La mia stessa vita, anche se non sono una donna, non sono francese e ho qualche anno in meno. La mia vita, quale vorrei raccontare. Sicuro dello stesso epilogo:

Sarà il silenzio, e nessuna parola per dirlo, Dalla bocca aperta non uscirà nulla. Né io né me. La lingua continuerà a mettere il mondo in parole.

Sicuro di questo epilogo, ma senza rimpianto.




domenica 5 giugno 2016

Inseguendo l'ombra di Stevenson e della sua asina

Poi dicono che la letteratura di viaggio è finita, tanto tutto è stato già visto e raccontato. Meno male che si sbagliano e si sbaglieranno fino a quando ci sarà qualcuno che si mette in gioco con se stesso e sa usare non solo le gambe, ma anche una certa dose di immaginazione, la capacità di interrogare i posti, la buona compagnia di libri e di ombre del passato.

In cammino con Stevenson di Tino Franza (Exòrma edizioni) è un libro che tutti questi ingredienti li possiede in abbondanza. 

Non ci consegna un altro continente eppure ci porta molto lontano, in una Francia che non è la Francia delle consuete rotte turistiche, Normandia o Costa Azzurra per non dire di Parigi, ma la Francia rurale, montanara, selvaggia delle Cévennes, che sarebbe come dire a un francese di lasciar perdere Roma e Venezia e concentrarsi piuttosto sul nostro Aspromonte.

Ci porta lontano anche nel tempo, perché al viaggio di oggi intreccia il viaggio che il grandissimo Robert Louis Stevenson qui fece più o meno un secolo e mezzo fa, giovane che ancora doveva scrivere i suoi capolavori e decidere davvero cosa fare della sua vita. 

E inseguendo l'ombra di Stevenson - lungo il sentiero che oggi furbescamente si chiama Le chemin di Stevenson - sono molte altre le ombre che spuntano fuori. Briganti e ribelli, carbonai e contadini, osti e bestie feroci. Perché è questo - più volte l'ho sperimentato anch'io - che viene dato in dono ai camminatori: di spremere l'invisibile dalla terra che attraversano. Spesso si tratta proprie delle vite di chi ci ha preceduto.

Se qualcosa manca al viaggio di Franza mi sembra che sia solo un asino. Anzi, un'asina come quella Modestine che accompagnò Stevenson nei suoi giorni a piedi e dalla quale alla fine si separò a fatica. Problema dell'autore non del lettore, che per l'appunto sa confortarsi con l'ombra di Modestine, sempre presente in queste pagine.

sabato 28 marzo 2015

La guerra che cominciò come una cosa da niente

Dopodiché è venuto il momento di salire in treno ed era passata esattamente una settimana dal suo giretto in bici allorché, partito da Nantes sabato alle sei del mattino, Anthime è arrivato lunedì nelle Ardenne a fine pomeriggio.

Ecco cominciò così, come una cosa da niente. Con uno sventolio dai campanili e con un annuncio salutato da brindisi e berretti lanciati in aria. Con una sbronza e una partenza che era solo un arrivederci, a presto, tanto tra quindici giorni è finito tutto. Con un ufficiale che rassicurava, delle pallottole non dovete preoccuparvi, ma dell'igiene sì, perché è la mancanza di pulizia che ammazza. Con una marcia per entrare nell'idea che si era sì soldati, ma tanto che sarà mai. Con un primo assalto i cui i fanti vestivano divise sgargianti ed erano preceduti da un'orchestrina che, sotto il fuoco nemico, intonava la Marsigliese.

Sapete, di libri sulla Grande Guerra ne ho letti diversi, in questo periodo, alcuni molti belli. E di diversi ne ho parlato qui, su questo blog. Eppure li batte tutti questo libro di poche pagine pubblicato da Adelphi, che non è un saggio e che è prima di tutto l'ennesima prova narrativa di Jean Echenoz, scrittore che vi consiglio caldamente.

Il titolo, essenziale, dice già tutto: '14. Così, semplicemente, anche con l'apostrofo.

Si comincia con l'irruzione della guerra in una cittadina nella Francia del Nord. Irruzione che è già una parola sbagliata, perché la guerra arriva di soppiatto, come un gatto nella cristalleria. Sembra un gioco, all'inizio.

Poi ci saranno gli assalti e le trincee, ci saranno gli amici che moriranno e i corpi fatti a pezzi. Ma soprattutto Anthime, questo personaggio di cui finiremo per assumere lo sguardo incredulo, leggero, malgrado tutto sorridente. Lo sguardo di chi fa fatica a crederci ma che alla fine sa adattarsi e resistere. Come se questo fosse davvero l'unico modo per scamparla.

venerdì 5 dicembre 2014

Balzac e la vita che alla fine pretende il conto

Ci sono vite che la letteratura salva, ma anche vite che poi chiedono di saldare il conto alla letteratura: e il conto a volte è davvero troppo salato.

Prendete per esempio il grande Balzac, l'autore della straordinaria Comédie humaine, in Francia il più letto e acclamato degli scrittori, monumento nazionale quando ancora era vivo. La storia degli ultimi suoi anni è stata a lungo tenuta ben nascosta sotto una bella coltre di ipocrisia e forse anche di pietà. All'inizio del Novecento ce l'ha raccontata un altro scrittore francese, Octave Mirbeau, con una manciata di pagine che fecero scandalo e vennero addirittura bloccate dalla censura. Solo ora arrivano in Italia, grazie a Skira.

E dunque, cosa ci racconta Mirbeau in La morte de Balzac? Ci porta dentro un uomo alla fine della sua vita, che l'arte non può più salvare. Ci invita a trascurare le sue pagine per entrare nella stanza della sua agonia. Ci impone a fare i conti su ciò che rimane di tante glorie e di tante ambizioni.

Balzac nel suo epilogo, migliaia di pagine dopo: un uomo malato e derubato di molte cose, un corpo sfasciato e umiliato, soprattutto una solitudine che si fa perfino fatica a credere, figurarsi a sostenere. Nemmeno la moglie vorrà vederlo e salutarlo.

Un corpo abitato ancora da una splendida mente, che fino all'ultimo, mentre l'uomo se ne sta andando, spingerà lo scrittore a rivolgersi al medico: Pensate che domani possa rimettermi al lavoro? Suvvia! Sbrigatevi a curarmi! Devo lavorare!

Come in un romanzo, un romanzo di Balzac, il romanzo che Balzac non ha avuto modo di scrivere. Un romanzo invece della vita troppo vera e troppo esigente.

martedì 18 novembre 2014

La notte di Romain sarà calma

Ci sono persone che conosco a malapena che si confidano con me con una facilità davvero sorprendente. Non so proprio perché lo facciano: sono portato a credere che sia perché sanno che non sono della polizia.

Il mestiere di madre, lo sai, è piuttosto mal pagato. La mia, almeno, ha avuto diritto a un libro.

Sì, odio ogni forma di intransigenza morale, l'umano è una festa popolare.

Tutti possono sbagliare, come diceva il porcospino scendendo da una spazzola per abiti.

Conosco un uomo molto distinto che in tutta la sua vita non è mai riuscito a votare, perché dare un voto a un altro che non sia lui lo manda in bestia.


Ecco, potrei continuare per un pezzo, anzi, allungarmi in un post dietro l'altro di questo blog, citazione dopo citazione, prima di finirla. Ovvero, prima di esaurire questa autentica miniera di saggezza e provocazione, buon senso e trasgressione che è La notte sarà calma di Romain Gary (Neri Pozza).

Solo uno come lui poteva scrivere un'autobiografia così, un'autobiografia che non è un'autobiografia, ma l'ennesimo tiro mancino che si è concesso, nel corso di una vita in cui, tra moltissime cose fatte, forse si è impegnato davvero solo per fuggire da se stesso.

Ebreo lituano naturalizzato, ma anche quintessenza del francese secondo ogni stereotipo e aspettativa. Raffinato intellettuale e sovvertitore di ogni discorso davvero serio. Eroe di guerra e diplomatico quasi contro se stesso e certamente per il gioco delle circostanze. Scrittore acclamato ma anche deciso a nascondersi sotto molteplici nomi fittizi. Innamorato della vita e suicida, un giorno a Parigi, poche ore dopo aver acquistato e indossato una magnifica vestaglia rossa per non far notare troppo il sangue.

Chi è stato davvero Romain Gary? Nemmeno questa autobiografia, che non è un'autobiografia, ci sazia con le risposte, al contrario. Semmai ci abbaglia, ci seduce, ci depista. Ci lascia andare e poi, un attimo prima che sia troppo tardi, ci riprende. Figurarsi, un'autobiografia che in realtà è una finta intervista, con la parte dell'intervistatore assegnata a un amico di infanzia.

In fondo, lo stesso gioco degli pseudonimi con cui beffò perfino i giudici del Goncourt. La vita come un gioco maledettamente serio. Come del resto pretende anche il cognome, quello autentico. In russo bari non vuol dire forse "brucia"? La vita come gioco, la vita come fuoco.

Fiamme che a volte se ne stanno buone tra gli alari di un caminetto. E che altre volte non si lasciano controllare.

domenica 3 agosto 2014

Ecco come finisce una guerra, per chi rimane

Ecco come finisce una guerra, mio povero Eugène, un immenso dormitorio di gente stremata che non si è nemmeno capaci di rispedire a casa come si deve.

Nessuno che ti dice una parola o soltanto che ti stringe la mano.

I giornali ci avevano promesso archi di trionfo, e invece stiamo ammassati in sale esposte ai quattro venti. Il "grazie affettuoso della Francia riconoscente" (l'ho letto sul "Matin", ti giuro, parola per parola) si è trasformato in beghe continue, stanno a lesinare sui 52 franchi di premio di smobilitazione, a lagnarsi per i vestiti, la zuppa, il caffé che ci danno.

Ci trattano da ladri....

(Pierre Lemaitre, Ci rivediamo lassù, Mondadori)

sabato 21 giugno 2014

Ma sono mille papaveri rossi... con Ugo nella Grande Guerra

Dormi sepolto in un campo di grano, non è la rosa non è il tulipano che ti fan veglia dall'ombra dei fossi ma son mille papaveri rossi... Dormi sepolto... ma come continua?

Scontato, lo so, ma è da un pezzo che mi girano per la testa le parole della Canzone di Piero. Familiari, come un'abitudine che invecchia bene, come un diario che non è stato abbandonato in soffitta. Familiari e senza pretese. Perfino indulgenti Senza recriminazioni per la mia bocca sigillata.
 

 Meglio così. Anche Fabrizio De André, sono sicuro, queste parole se le sarebbe lasciate dentro. Dormi sepolto in un campo di grano. Dormite sepolti in un campo di grano. Fabrizio De André, nel caso, si sarebbe acceso un'altra sigaretta, mescolando il suo fumo all'ultima nebbia. Forse avrebbe scollinato Piero e la sua canzone, per andare a pescare la tristezza di qualche poeta francese.
 

Invece io non le mollo, queste parole. Sono esili fili di luce nel grigio di questa mattina, triste come lo sanno essere solo alcune mattine al Nord. Puntine da disegno che provano a immobilizzare i pensieri, così che non galoppino lontano da ciò che mi aspetta.
 

Quante volte l'ho cantata, questa canzone. Da ragazzino era tra le poche che sapevo persino strimpellare. Assieme all'attacco di Smoke on the Water dei Deep Purple e di Stairway to heaven dei Led Zeppelin. Tre accordi e via.
 

Sparagli Pietro, sparagli ora e dopo un colpo sparagli ancora. Però soprattutto i papaveri rossi, i mille papaveri rossi.
 

Ci sono ancora, i papaveri rossi, ondeggiano nel vento freddo, tra le spighe di grano che non hanno fretta di maturare. Uniche macchie di colore vivo in questo giorno spento, che ha adoperato solo la tavolozza della malinconia.
 

E sono importanti i papaveri, in questo mio viaggio. Sono i fiori dei morti in guerra, del ricordo di ciò che è stato. Il rosso dei loro petali è il rosso del sangue che è stato sparso nelle trincee. Per capirlo sono dovuto arrivare fin  qui, sui campi della Somme. Francia del Nord, vicino alle Fiandre. Uno dei più terrificanti mattatoi della Grande Guerra. 

(da Paolo Ciampi, Nel libro, figlio, tu vivrai, Sarnus)

venerdì 13 dicembre 2013

Le Antille scoperte per caso in un negozio

La Martinica che non ti aspetti, quella che non ha niente a che vedere con i depliant turistici. Perché è senz'altro un libro di viaggio, quello che ci propone Ambrogio Borsani con Martinica incantatrice di poeti (Archinto editore) ma un viaggio del tutto particolare, dove non si cercano spiagge da favola, scenari naturali mozzafiato, rum e ritmi caraibici. Piuttosto un'anima che solo le parole della poesia possono in qualche modo scovare e illuminare. Parole che sanno anche scavalcare i tempi, recuperare storie, approdare alle pagine più scure del passato.

Guardate come comincia, Borsani. Mica con un colpo d'occhio su questo pezzo di Francia dall'altro lato dell'oceano. Mica con il vento caldo che lo avvolge scendendo dall'aereo. Ma con una nave che lascia il porto di Marsiglia il 25 marzo 1941, una delle ultime possibilità di fuga dall'Europa schiacciata dal nazismo. A bordo fior di intellettuali, gente come Victor Serge, Anna Seghers, Claude Lévy-Strauss. E anche André Breton, il grande poeta surrealista.

Cambio scena, la nave ha gettato l'ancora in Martinica, dopo un lungo viaggio in cui in molti hanno passato notti insonni, a interrogare le stelle. André Breton scende a terra e comincia a girellare per le strade di Fort-de-France. Ha bisogno di un nastro, entra a caso in una merceria. Mentre attende, impaziente, l'occhio gli cade sulla pagina di una pubblicazione locale. Alcuni versi, che lo folgorano.

Ha appena scoperto un'oscuro poeta delle Antille, Aimé Césaire. Possibile che dall'altra parte del mondo si stesse scrivendo una storia parallela della letteratura?

E attraverso questa scoperta molte cose cambieranno, per la Martinica, per le Antille, per la Francia, per tutti noi. Non continuo, però ecco come si può scrivere un libro di viaggio. Un gran bel libro di viaggio.

lunedì 21 ottobre 2013

Quante domande pone, la storia di Goliarda Sapienza

Goliarda era addoloratissima, perché sapeva di aver scritto qualcosa di grande, ma per anni tutte le case editrici l'una dopo l'altra rifiutarono il romanzo, in una sequenza impressionante. Le motivazioni erano di vario genere, tutte compresenti: di tipo politico, moralistico, e infine editoriale poiché il testo era lunghissimo. Lei rispondeva che anche La storia della Morante era lunga. Inutilmente. I motivi più gravi erano quelli moralistici, ma era evidente che nessuno comprendeva il testo; e d'altronde Goliarda era diversa dagli altri autori. Poi vennero altre urgenze, di scrittura e di vita, e Goliarda accantonò L'arte per scrivere altro.

Così il marito di Goliarda Sapienza racconta l'incredibile e deprimente storia dei rifiuti che l'editoria italiana oppose alla pubblicazione de L'arte della gioia (ricavo questa citazione dal supplemento domenicale del Corriere della Sera di qualche tempo fa). Lui, il marito, con le lettere di rifiuto ci ha fatto persino un libro. E fa riflettere questa storia di 20 anni senza pubblicazione di un libro che oggi è raccomandato agli studenti e salutato come un capolavoro persino in Gran Bretagna e Stati Uniti. Pensare che ci furono critici che al tempo lo bollarono come un cumulo di iniquità.

E non sono poche le domande, al di là della dolorosa parabola, artistica ed esistenziale, di Goliarda Sapienza. Per esempio, abbiamo rischiato di perdere una volta per tutte un libro di questo valore? E quanti altri capolavori sono rimasti tra i non letti e i rifiutati, dimenticati magari in un cassetto o forse addirittura distrutti?

E ancora: fu una piccola casa editrice - Stampa Alternativa - a dare un primo sbocco editoriale a L'arte della gioia che poi - come a volte è capitato anche per la grande musica italiana - fu davvero scoperta in Francia per ritornare in Italia sulle ali del successo. Potrebbe ripetersi oggi questa strana traiettoria, con la crisi che attanaglia tutta l'editoria, ma soprattutto le piccole case che vorrebbero scommettere ancora sulla ricerca e sulla qualità?

giovedì 22 agosto 2013

Non perdete la promessa dell'alba

Non mi sento colpevole. Ma se tutti i miei libri sono pieni di appelli alla dignità, alla giustizia, se vi si parla tanto dell'onore di essere uomini, forse è perché ho vissuto, fino all'età di ventidue anni, del lavoro di una donna vecchia, malata e spossata. Gliene voglio ancora, per questa ragione.

Anche a prescindere dalla sana invidia che provo per la scrittura di Romain Gary e dall'incanto di molte delle sue pagine. A rendere imperdibile La promessa dell'alba può bastare questa donna che sembra racchiudere dentro di sè tutta la tenacia dell'amore e la capacità di allagare il mondo con i suoi sogni. Trovatelo un altro personaggio così, nella varietà della letteratura planetaria: e in effetti è davvero difficile inventarselo, può essere solo vero.

Il libro, in effetti, ruota tutto intorno alla figura della madre di Romain, ebrea lituana che dopo la Rivoluzione fugge col figlio in Francia. E' sola e senza mezzi, ma sa già quale futuro dovrà spettare a Romain. Aviatore, diplomatico, scrittore. Non può essere che la Francia tradisca le attese, così come non può essere che la Francia sia invasa dalle truppe di Hitler. Così sicura che a certi dettagli - se dettagli sono - è il caso di provvedere per tempo.

Bisogna trovare uno pseudonimo, disse con fermezza, un grande scrittore francese non può portare un nome russo. Se tu fossi un virtuoso del violino andrebbe molto bene, ma per un titano della letteratura francese non va...

E chi l'avrebbe detto. E' proprio quello che è successo. La certezza del sentimento, è evidente, può resistere più e meglio della Linea Maginot. Il resto è solo la fatica di un figlio per non tradire le aspettative di una madre che aveva perso tutto se non un'idea di futuro.




venerdì 10 maggio 2013

In quel bistrot di Parigi, con Jean Paul Sartre

Loro erano programmati per odiarsi e distruggersi e invece erano caduti l'uno nelle braccia dell'altro. Era bello sentire il proprio patronimico. In Francia, si aveva soltanto un nome. Di colpo, un poco dell'odore, della musica e della luce del loro Paese tornava, anche se l'uno era un russo bianco, ortodosso praticante, antisemita e misogino, che odiava i comunisti, e l'altro un ex nemico, un rosso fervente, convinto ed entusiasta, che aveva partecipato all'instaurazione del comunismo. Quel tipo di differenze, che vi facevano sbuzzare quando eravate al paesello, lì sparivano. Soprattutto se si trattava di due russi insonni

Diffidavo di questo libro, diffidavo come mi capita di diffidare dei libri pompati da centinaia di migliaia di copie già vendute altrove, con tanto di premi - in questo caso nientemeno che il Goncourt - accaparrati con incontenibile voracità.

Se ho finito per comprarlo, Il club degli incorreggibili ottimisti di Jean Michel Guenassia, mi sa che è solo per la copertina, bellissima, per questa immagine che evoca tutto un mondo e un'epoca, la Parigi della rive gauche, i bistrot e i pernod, le appartenenze ideologiche e gli sradicamenti del mal di vivere, discussioni tirate fino all'alba, poesia, volute di fumo.

E non sarà un capolavoro, ma questa Parigi c'è tutta, Jean Paul Sartre compreso. E in questa Parigi c'è un bel pezzo di mondo. In particolare il mondo degli esuli, vite sottratte a dittature e offese varie, sospinte verso la Francia come i relitti di un naufragio.

Esilio come rinascita, esilio come incapacità di riannodare i fili dell'esistenza. Esilio ed esili, le molte storie che si intrecciano in uno di quei locali dove la Storia si riduce a una partita di biliardo, a un litigio inconcludente, a un gruppo di uomini che a notte fonda cercano di ritrovare la via di casa, se casa c'è.

giovedì 18 aprile 2013

Storia dell'uomo che perse la sua ombra

Personaggio intrigante, Adelbert Von Chamisso, pensare che fino a ieri per me era solo l'eco di un nome, incontrato chissà su quale pagina.

Adelbert Von Chamisso, cioè uomo a cavallo tra due secoli, tra la rivoluzione e la reazione, tra la speranza di futuro e la nostalgia del passato. A cavallo anche tra due paesi ai tempi contrapposti dalla guerra, visto che era di famiglia aristocratica francese ma scelse la Germania.

(Thomas Mann disse di lui: Canzoni francesi echeggiarono presso la sua culla.... cantava in francese... ma quel che nasceva era tuttavia grande poesia tedesca).

Scrittore che ebbe uno straordinario successo in vita, e che pure, poesie a parte, in tutto l'arco della sua esistenza, scrisse solo un romanzo breve - o un racconto lungo che dir si voglia. Dopodiché divenne direttore dell'orto botanico di Berlino e fece lunghi viaggi scientifici ai quattro angoli del mondo, lavorando alle sue collezioni naturalistiche: destino da non disprezzare per uno scienziato che sosteneva di non avere più o di non avere ancora una patria.

Qualunque cosa Chamisso si sia atteso dalla scrittura, è un piccolo gioiello la sua Storia straordinaria di Peter Schelemihl, una settantina di pagine che narrano le vicende di un uomo che vende al diavolo la sua ombra. Cosa che non sembrerebbe un grande sacrificio, non fosse che proprio la perdita dell'ombra lo escluderà di fatto da ogni relazione sociale.

C'è molta letteratura a venire, in questo libriccino, da tante pagine sulla normalità che non c'è più fino a quella figura di diavolo borghese - un signore elegante e impacciato, che arrossisce parlando - che mi sembra porti già dalle parti del Maestro e Margherita di Michail Bulgakov. Per non dire di quella perdità di identità di cui è presumibile sia metafora la perdita dell'ombra...

Nello spazio di un viaggio in treno quasi da pendolare me la sono fulminata, questa piccola grande opera. E sono contento che Adelbert Von Chamisso non sia più solo l'eco di un nome incontrato per caso.

lunedì 7 gennaio 2013

Le stelle e i treni di Vincent Van Gogh

La vista delle stelle mi fa sempre sognare, come pure mi fanno pensare i puntini neri che rappresentano sulle carte geografiche città e villaggi.

Perché, mi dico, i punti luminosi del firmamento ci dovrebbero essere meno accessibili dei punti neri della carta di Francia?

Se prendiamo il treno per andare a Tarascon oppure a Rouen, possiamo prendere la morte per andare in una stella. Ciò che però è certamente esatto, in questo ragionamento, è che essendo in vita non possiamo arrivare in una stella, non più di quanto, essendo morti, possiamo prendere il treno.

Comunque non mi sembra impossibile che il colera, i calcoli alla vescica, la tisi, il cancro, possano costituire dei mezzi di locomozione celeste, così come i battelli, gli omnibus e il treno sono mezzi di locomozione terrestri. Morire tranquillamente di vecchiaia sarebbe come viaggiare a piedi.

Per ora vado a dormire, perché è tardi e ti auguro buona notte e buona fortuna. Una stretta di mano,
                                                                         
                                                                                                                             tuo Vincent

(Vincent Van Gogh, Lettere a Theo, Guanda)

venerdì 12 ottobre 2012

Sos da Francoforte, sono tempi grami

Che le cose andassero male si sapeva, però una cosa è dirsela così, un'altra è ragionare sulla cruda evidenza delle cifre. E dunque, brutte cifre arrivano dalla Buchmesse di Francoforte in relazione all'editoria italiana. Siamo al cortocircuito: mentre più titoli e più copie sono immesse sul mercato, sono sempre meno le persone che leggono, anche un solo libro all'anno.

E' quanto denuncia l'Associazione italiana editori, segnalando un crollo del fatturato dell'8,7%  nei primi mesi del 2012. E' la crisi economica che svuota le tasche e frena gli italiani - magari a questo punto anche i lettori forti? Sono scelte editoriali sballate, non ultime quelle legate a un'ipertrofia produttiva e a una corsa esaperata alla novità piuttosto che alla cura del catalogo?

O è la sola Italia dove da sempre si legge comunque poco? Fatto sta che in Italia coloro che nel 2011 hanno comprato (e si presume anche letto) almeno un libro sono stati il 45,3%. In Spagna, dove l'economia, si sa, non è che proceda a gonfie vele, sono stati il 61,4%. E non parliamo della Francia o della Germania.

E per dirla tutta, a proposito di chi decanta le meravigliose e progressive sorti dell'ebook: rappresenta sempre lo 0,38% del mercato complessivo. Povero libro, povera cultura, povera Italia.




La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...