Come se la mia vita, sfuggita al mio controllo, in mano sua si trascinasse altrove, e io non potessi porvi altro rimedio che quello di seguire da lontano le mie vicende, come in sogno.
Siamo nel Seicento, età di eserciti in movimento, corsari in mare, filosofi, mistici, poeti a caccia di risposte sulle domande ultime della nostra vita. Un gentiluomo italiano viene fatto prigioniero dai turchi e ridotto in schiavitù. Servirà un astrologo di Istanbul, figura importante alla corte del sultano, ambiente in cui è facile ottenere grandi onori un giorno e finire impalato l'indomani.
Si assomigliano come due gocce d'acqua, lo schiavo e il suo padrone, però in ballo non c'è solo la somiglianza fisica. Come fratelli gemelli le loro vite si sovrappongono e si confondono. Si guardano con sospetto, ma intanto condividono e scambiano i loro ricordi. E alla fine chi sarà chi?
E' questa la storia che Orhan Pamuk narra ne Il castello bianco (Einaudi), romanzo breve ma denso, romanzo che propone ancora una volta il tema del doppio, per sospingerlo verso latitudini meno battute. Certo, qui dentro cè tutta la fragilità delle nostre identità, che mentre si aggrappano ai nomi sembrano fatte della stessa consistenza dei sogni (e a proposito del Seicento, riferimento d'obbligo per La vita è sogno di Pedro Calderón de La Barca).
Però qui c'è anche altro: il gentiluomo e l'astrologo, lo schiavo e il padrone, sono anche una metafora dell'Occidente e dell'Oriente, della loro relazione complessa e mai risolta, ma anche fertile. Cosa saremmo, senza di essa?

Si assomigliano come due gocce d'acqua, lo schiavo e il suo padrone, però in ballo non c'è solo la somiglianza fisica. Come fratelli gemelli le loro vite si sovrappongono e si confondono. Si guardano con sospetto, ma intanto condividono e scambiano i loro ricordi. E alla fine chi sarà chi?
E' questa la storia che Orhan Pamuk narra ne Il castello bianco (Einaudi), romanzo breve ma denso, romanzo che propone ancora una volta il tema del doppio, per sospingerlo verso latitudini meno battute. Certo, qui dentro cè tutta la fragilità delle nostre identità, che mentre si aggrappano ai nomi sembrano fatte della stessa consistenza dei sogni (e a proposito del Seicento, riferimento d'obbligo per La vita è sogno di Pedro Calderón de La Barca).
Però qui c'è anche altro: il gentiluomo e l'astrologo, lo schiavo e il padrone, sono anche una metafora dell'Occidente e dell'Oriente, della loro relazione complessa e mai risolta, ma anche fertile. Cosa saremmo, senza di essa?
Quante cose che ci sono dentro l'ultimo libro di Dianora Tinti, Storia di un manoscritto (Mauro Pagliai editore) Personaggi che ti accompagnano anche dopo che si è riposto il libro sullo scaffale, con vibrazioni di sentimenti che è più difficile mettere via; una storia che spinge a girare una pagina dietro l'altra per capire come andrà a finire - anche questo è il piacere della lettura - e vi dico solo che non andrà a finire come ci si potrebbe attendere che andrà a finire; e anche la bellezza dei luoghi, questa Maremma che sa ancora essere antica e capace di circondare di un'alone di magia i piaceri che regala.
Quante cose, ma soprattutto, per quanto mi riguarda, il senso del tempo che passa ma che non è detto cancelli tutto, delle parole che sanno strappare brandelli di ricordo, della tenacia di sentimenti che allagano la vita quotidiana, delle persone che spariscono ma che in qualche modo ci sono sempre, fosse pure per l'insostenibile combinazione di un manoscritto, sì proprio un manoscritto, apparentemente quanto di più inattuale ci sia oggi, all'epoca degli Ipad....
Un libro su ciò che rimane, con ostinazione, malgrado tutto. Anche se poi ciò che rimane, ciò che tra noi è sempre presente, sfugge a ogni definizione, impalpabile come una lettura, appunto, o come un sogno.
La vita è sogno, come l'opera di Pedro Calderón de La Barca. E leggendo Storia di un manoscritto, è inevitabile, queste parole si conficcano ancora più a fondo.