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domenica 16 agosto 2020

Francisco Coloane e la vita alla fine del mondo

Ho vissuto più di quanto abbia potuto scrivere e ricordare.

Comincia così, con parole che sono una prova di umiltà, il libro di memorie del grande Francisco Coloane, scrittore per nostalgia, cantore di terre e mari australi che davvero costituiscono un altrove, il suo altrove.

Una vita alla fine del mondo (Guanda) non è la solita autobiografia che ci lascia un autore affermato. Le parti che contano meno sono quelle che raccontano gli esordi letterari, i lavori e le conoscenze a Buenos Aires, i primi riconoscimenti. Qui c'è soprattutto la storia di un uomo che nel mondo alla fine del mondo, giù, in fondo alle Americhe, ha trovato se stesso. 

I sogni di un ragazzo che per cercare se stesso scelse l'estremo sud, anzichè il nord che pare essere la meta di ogni migrante. Le tempeste di una natura che giganteggia e da cui non puoi mai prescindere. I silenzi e le storie rac
contate sulla tolda di una nave o al fuoco di un caminetto. Le tragedie consumate anche in queste terre rarefatte, dove pare ci possa essere posto per tutti. E il continuo ritorno, per quante volte la vita abbia provato a portarlo lontano.

E' in questa terra sempre spazzata dal vento che si può comprendere quanto possono essere profonde e tenaci le radici dell'uomo. E quanto possa essere irresistibile - e misteriosa - una vocazione che si fa scrittura.

lunedì 11 maggio 2020

Tutta la storia del mondo tra il bagno e la cucina

Così ho concepito l'idea di fare un viaggio tra le pareti domestiche, vagando di stanza in stanza ed esaminando il ruolo che ciascuno di esse ha svolto nell'evoluzione della vita privata. Quella del bagno sarebbe stata una storia dell'igiene, quella della cucina una storia dell'arte culinaria, quella della camera da letto una storia del sesso, della morte e del sonno, e così via. Avrei scritto una storia del mondo senza uscire di casa.


Così lo stesso Bill Bryson introduce Breve storia della vita privata (Guanda), volume robusto ma che si lascia divorare come un pranzo di Natale, allo stesso modo del suo precedente Breve storia di (quasi) tutto. Perché i titoli possono fuorviare - così seri, così impegnativi e direi anche così commisurati alle dimensioni del volume sotto gli occhi - ma Bryson no, Bryson lo conosco da troppo tempo e so cosa aspettarmi da lui. 

Bryson è un affabulatore, uno scrittore che sa fare appello alla curiosità e all'intelligenza del lettore, anzi, Bryson è prima di tutto un viaggiatore e questo non viene meno anche se affronta temi grandi come montagne. O se decide di rimanersene a casa, con uno spirito che riecheggia un libro di fine Settecento, Viaggio intorno alla mia camera di Xavier De Maistre, ottimamente riproposto da Tarka in questo mesi.

Anzi, proprio quando ciò che aspetta la sua scrittura è una montagna viene fuori la tempra di camminatore. Passi brevi e robusti, nessuna fretta, capacità di osservazione, possibilità di fermarsi sempre e comunque, di fronte a un largo panorama come a una cosa da nulla che sporge da dietro un albero o un masso.

In questo libro Bryson deve esserti sentito particolarmente a suo agio. Sarà che gira il mondo, saltando per di più da un'epoca all'altra, eppure rimanendo sempre a casa. La stessa casa in cui si è trovato ad abitare, un'ex canonica del Norfolk, in Inghilterra.

Una bella casa, indubbiamente. Ma che sorpresa scoprire che attraverso di essa si può sfogliare l'intero mondo e perfino comprenderlo un po' di più.

venerdì 10 aprile 2020

L'austro-ungarico a zonzo nell'America di Lolita

Prendete un autore come Gregor Von Rezzori, nato nella Bucovina quando faceva ancora parte dell'impero austro-ungarico, uno che sembra incardinato in un'epoca al tramonto, dove i confini e i regni si disfano, le certezze si sbriciolano, il tempo pare declinato solo al passato. Prendetelo e speditelo nell'America del sogno - il sogno americano, ovvio - non nel primo ma nel secondo dopoguerra, quando l'impero austro-ungarico è un ricordo sbiadito e il presente è l'impero stelle e strisce. 

Non  più passeggiate in carrozza per Vienna, concerti di musica classica nei gazebo, balli in società, ora si fa avanti il mondo rappresentato nei libri di Dos Passos e Steinbeck o nei quadri di Hopper: diners, motel, distributori di benzina, coca cola e hamburger. 

Ecco, questa è l'esperienza di Gregor Von Rezzori, che a un certo punto della vita si trova a collaborare alla traduzione di Lolita di Vladimir Nabokov: un uomo, quest'ultimo, che ha lasciato San Pietroburgo e la sua lingua per l'America. 

Da quando ero diventato consapevole dell'esistenza dell'America - scriverà Von Rezzori, col suo cognome che di per sè rimanda a un'altra geografia  - ero stato invaso dal  desiderio di andarci e vagare per i suoi spazi sconfinati, che nella mia immaginazione erano popolati da bufali e grattacieli, pellerossa su mustang, gangster con le loro pupe, sassofonisti neri che suonavano musica nera, e Buster Keaton.

Mai avrebbe immaginato di fare questo viaggio sulle tracce di Humbert Humbert, l'annoiato professore scandalosamente sedotto. Mai  di arrivarci in un tempo in cui - come dirà - ciò che rimanevca dell'Europa non era più europeo. Per lo più si era trasformato in un'America di seconda mano

Ciò ne seguirà - tra scoperte, rivelazioni e delusioni - è raccontato in questo delizioso libretto, Uno straniero nella terra di Lolita (Guanda editore, con prefazione di Zadie Smith). 

Disneyland, Las Vegas, qualche indizio di beat generation - l'anno in cui il professore e Lolita si aggirano per l'America è lo stesso dei vagabondaggi dei protagonisti di On the road - un'irresistibile seduzione per un paese che è un continente e  si sta avviando a diventare mondo. Malgrado tutto, verrebbe da aggiungere.

La mia Lolita, in realtà, era l'America. Incredibile, lo scrittore austro-ungarico: l'America come una farfalla dei sogni che finalmente riesce a catturare. Allo stesso modo di Nabokov, grande entomologo, con le farfalle vere. 



lunedì 28 gennaio 2019

In Svizzera il detective che usa i mezzi pubblici

"Un detective che usa i mezzi pubblici." Francesca sorrise con dolcezza. "Che cosa c'è di più autenticamente elvetico?"

Elia Contini non è un mostro di empatia e come investigatore privato è piuttosto improbabile. Del resto non sembra che sia una professione con molte opportunità nella quieta e ordinata Svizzera. Contini, poi, è un uomo svagato, distratto, a disagio con le tecnologie che oggi sono imprescindibili. Ama starsene per i fatti suoi: e questo, in effetti,  è anche di altri investigatori. Però la sua principale qualità è la pazienza: annota i dettagli, ragiona adagio, adopera la lentezza.  Ci sta bene, in una storia svizzera che è anche una storia di montagna.

Elia Contini l'ho scoperto con Gli svizzeri muoiono felici - già il titolo è intrigante - ovvero con l'ultimo romanzo (Guanda editore) di Andrea Fazioli, scrittore di Bellinzona che già ha ottenuto importanti riconoscimenti. 

Il personaggio è come una di quelle persone che sembra facciano apposta a schivarti, ma alla fine riescono a occupare un posto nel cuore. La trama, poi, è sorprendente, rovescia le convenzioni della detective story. Gioca a carte scoperte, col delitto raccontato in presa diretta fin dalle prime pagine. 

Ma sono gli umori, le atmosfere, le traiettorie esistenziali che contano davvero. Sono le parabole dei personaggi che intrecciano le cime delle Alpi ai deserti dell'Africa. Fanno di questo noir un noir diverso dagli altri. Non la storia di un uomo chiamato a risolvere un caso, ma la storia di culture diverse che viaggiano e si incontrano. Da leggere, merita. 

lunedì 31 luglio 2017

Il libro che è troppo di tutto e che funziona

Sì, tutto in questo libro è troppo. Troppe pagine, troppi personaggi, troppi dialoghi, troppe storie che si intrecciano, troppi sbalzi di umore. Forse anche troppa voglia di stupire e catturare il lettore. Troppa smania di proporre grande letteratura, che poi è una cosa naturale se sei un grandissimo scrittore, che per di più ritorna alla narrativa dopo dieci anni.

Troppo e in questo troppo ci si può perdere e allo stesso perdere il controllo delle proprie emozioni. Qualche tempo fa, a un gruppo di lettura a cui partecipo, questo libro mi ha dimostrato di poter attrarre su di sé grande amore e grande odio. Io stesso l'avevo abbandonato dopo le prime duecento pagine, solo che dopo aver sentito le opinioni del gruppo di lettura ci ho ripensato, l'ho ripreso in mano, ho cambiato marcia. Prima avevo faticato su ogni pagina, la seconda volta ho bruciato le pagine come per un giallo. Succede, a me succede addirittura spesso: a volte proprio per i libri più importanti, come l'Ulisse di Joyce.

E sono contento di averlo letto fino in fondo. Sono contento ora di provare a proporvelo. Non dico niente, né della trama, né dei protagonisti. Diciamo che è la storia di una famiglia molto particolare, che si dipana tra Washington e Israele in quattro settimane che forse è poco definire convulse.

Anche se la lettura non vi catturerà catturerete frasi memorabili, da sottolineare e segnare nel vostro taccuino. A piene mani. Anche se talvolta vi annoierete vi sorprenderete spesso a ridere come matti.

Lui è Jonathan Safran Foer. Il libro è Eccomi (Guanda). Può funzionare, in questi giorni di agosto. 

lunedì 13 marzo 2017

Perdonateli, erano giovani artisti che cercavano la bella morte

Che rogna questi arditi di città. Massì, in fondo se la cercano loro la bella morte, non si può dire che ce li ho mandati io.

Prima provarono a rivoluzionare l'arte - e con l'arte la loro vita - poi  si convinsero che perfino con la guerra si poteva cambiare il mondo - e con il mondo la loro vita. Fu una crudele illusione, destinata a finire molto male. Però perdonateli, perché erano ingenui, idealisti, sinceri. Perdonateli, perché non ci misero ben più della faccia, non furono quelli dell'armiamoci e partite.

Gianni Biondillo ripercorre la parabola di uno dei loro, non tra i più noti: Antonio Sant'Elia, giovane architetto di straordinario talento, morto sul Carso nel 1916. Ma in uno splendido romanzo che nel titolo sa di Ungaretti - Come sugli alberi le foglie (Guanda) - c'è tutta la storia di una generazione: quella masnada di artisti, irredentisti e arditi che partì per il fronte, magari arruolandosi nell'improbabile Battaglione Lombardo Volontari Ciclisti Automobilisti - e nome più squisitamente futurista non ci poteva essere.

Già, il futurismo: con le sue intuizioni e le sue provocazioni nate magari nelle aule dell'Accademia di Brera per poi animare le intemperanze di serate da scandalo. Filippo Tommaso Marinetti, ma anche tanti altri pronti a giocarsi molto, incendiando il passato e spingendo il presente a tutta velocità. Avanguardia, avanguardia: in marcia verso un altro tempo, che persino la guerra poteva accelerare.

La storia ci racconta come finì la corsa, per dirla alla Guccini. Dalla guerra igiene del mondo allo sporco delle trincee. L'immane massacro che concesse ben poco alla bella morte. E quante possibilità venute meno, quanti ingegni, quanti capolavori che ci sono mancati.

Di Antonio Sant'Elia ci restano solo una manciata di disegni, così belli che verrebbe da immaginarsi un futuro alternativo, se solo.... Una manciata di disegni e questo grande libro di Biondillo, canto dolente sulla bellezza e sull'inutilità.

martedì 7 febbraio 2017

La copertina è il vestito dei libri

La copertina giusta è un come un bel cappotto, elegante e caldo, che avvolge le mie parole mentre camminano per il mondo, mentre vanno a un appuntamento con i miei lettori.

Cosa sarebbero i libri senza le loro copertine? E quante volte abbiano comprato un libro solo perché sedotti da una copertina, senza sapere niente di un autore o di cosa ci sia dentro le sue pagine?

Così importanti le copertine, possono decidere un destino di un libro, anzi, fanno di un libro ciò che un libro è. Non solo perché un libro è anche un magnifico oggetto da toccare, da accarezzare con lo sguardo, da accudire sugli scaffali di casa. Una copertina, in realtà, è anche un modo di raccontare un libro. E' la sua prima traduzione in un'altra lingua, senza alfabeto.

Così importanti le copertine, eppure non è che ci si rifletta tanto. A me almeno è capitato molto poco, fino a che, in questi giorni, non mi sono imbattuto in Il vestito dei libri di Jhumpa Lahiri, libretto uscito per Guanda e prima ancora lectio magistralis tenuta in occasione del Festival degli Scrittori di Firenze.

La scrittrice giusta, Jhumpa Lahiri, donna che attraversa diverse culture e diverse lingue, per raccontare di come le copertine attraversano la scrittura e ne sono attraversate.

Per un autore la copertina è come un saluto. Il libro è terminato, sta per salpare verso le librerie, comincia una vita propria. L'illustratore è tra i primi che lo ha letto, valutato, interpretato. E da questo passaggio dipenderanno molte cose.

Non sempre a dire il vero scrittore e illustratore sembrano parlare la stessa lingua. E come mai lo stesso libro in paesi diversi esce con copertine tanto diverse? Come mai negli Stati Uniti conta più l'individualità della singola opera  - e quindi della singola copertina - mentre da noi pesano più le copertine di collana, che permettono di conoscere più un percorso e una famiglia di autori?

Pesano e funzionano di più, almeno per persone come me, che magari hanno dimenticato da un pezzo un nome e un titolo, ma non le copertine blu di Sellerio o le bianche di Einaudi...

Quante cose che ci dicono le copertine. A quante cose servono. A volte sbagliate, a volte così e così, a volte riuscite. Talvolta addirittura perfette, come un abito che ci sta a pennello....

 Come se lo scrittore e l'illustratore fossero salpati insieme, per quel viaggio che è un libro. 

lunedì 23 gennaio 2017

America 1927: l'estate in cui accade tutto

Qualsiasi altra cosa se ne possa dire, fu veramente una grande estate.

Così ci assicura Bill Bryson e per l'ultimo suo libro il titolo dell'edizione italiana (Guanda) va persino oltre: L'estate in cui accadde tutto. Ovvero promette assai di più di quanto faccia il titolo originario - semplicemente One summer. America 1927 - e anzi promette decisamente troppo: però che estate incredibile, entusiasmante e sconvolgente...

Bryson ce la racconta come sa far lui: con competenza e leggerezza, sbrogliando la matassa degli eventi e allo stesso tempo portandoci molto lontano.

E dunque, l'estate del 1927. Che, per quanto se ne sa, non ci suona come un anno particolarmente memorabile, figurarsi se poi ci si limita solo ai mesi dell'estate. Volete mettere con il 1914, o il 1945, o il 1968?

Eppure, eppure.... in quei mesi un manipolo di piloti spericolati e incoscienti si disputano il primato del primo volo transoceanico tra l'America e l'Europa. Fino a che l'incredibile impresa di Charles Lindbergh non regala un momento di gioia al mondo intero, rendendo peraltro evidente allo stesso mondo che ormai il futuro appartiene all'America, non più alla vecchia Europa.

Hollywood mette in circolazione i primi film sonori. I giornali si gettano sulla cronaca nera e raggiungono tirature da vertigine con delitti efferati che ci sono sempre stati ma che ora sono sotto i riflettori. Lo sport diventa fenomeno di massa, fatto culturale, dimensione per i nuovi miti e i nuovi eroi, si tratti di Babe Ruth nel baseball oppure di Jack Dempsey, il massacratore della boxe.

E ancora, la scellerata epoca del proibizionismo segna il punto più basso, seminando morti a valanga per alcol e per piombo. Immenso regalo fatto alla mafia, però intanto, tra i magistrati, qualcuno comincia a pensare che proprio negli affari si nasconda il suo tallone d'Achille: Al Capone presto finirà dentro, ma non per la strage di San Valentino, piuttosto per evasione fiscale.

Nel carcere di Charlestown la sedia elettrica è pronta per Sacco e Vanzetti, due anarchici italiani condannati perché anarchici, prima che per le prove a loro carico, tanto si sa, ci sono sempre teoremi già dimostrati, colpevoli in quanto tali.

Le auto di Henry Ford si apprestano a conquistare i mercati e a imporre una nuova civiltà. Nelle università alcuni scienziati ragionano su principi e pratiche di eugenetica che strapperanno l'applauso ai nazisti. Intanto il presidente Calvin Coolidge, il più pigro dei presidenti americani, decide di non ricandidarsi. Il paese può guardare al futuro con ottimismo, assicurerà nel suo ultimo discorso, mentre già si prepara il Black Friday di Wall Street....

E ancora, ancora.... basta per dire che l'estate del 1927 è l'estate in cui successo tutto? Decidete voi, ma vi raccomando:  prima leggetelo, il buon vecchio Bill.


lunedì 19 settembre 2016

Nove racconti per interrogarsi sul passato di tutti

Il passato, è la sola realtà umana. Tutto ciò che è, è passato.

Così affermava Anatole France: frammento di una lettura di tanto tempo fa ora tornato a galla. Perché è questo che ti muove dentro Scritto nella memoria, raccolta di nove racconti italiani curata per Guanda da Marco Vichi. Un libro  che si interroga su ciò che ci lasciamo alle spalle e su ciò che, in qualche modo, comunque rimane nel nostro presente.

C'è molta buona letteratura in questo libro che raccoglie tanti autori di qualità - oltre a Vichi, in ordine rigorosamente alfabetico, Valerio Aiolli, Laura Bosio, Cristiano Cavina, Maria Rosa Cutrufelli, Gianmarco D'Agostino, Anna Maria Falchi, Dacia Maraini, Vincenzo Pardini. Sarà perché proprio ciò che sembra ormai chiuso e definito, nel tempo che si è già consumato, in realtà più si presta a essere modellato dal pensiero, dall'invenzione, dalla forza della parola.

Vai a sapere, però in queste pagine mi sono immerso. Ho trovato la luce e la sabbia di villeggiature al mare che da bambino sembravano non finire più. Ho riscoperto oggetti dimenticati in soffitta e che sono ancora in grado di rivelare una storia. Mi sono interrogato su parenti che non ci sono più e a cui avrei dovuto porre le domande giuste al tempo giusto. Mi sono lasciato tentare dal fascino di nomi consumati dal tempo e dall'abbandono. Ho meditato sugli incroci tra storie personali e storia collettiva, soprattutto quando quest'ultima gioca pesante e bussa alla porta con le armi in pugno.

A volte basta davvero poco. Un album fotografico - come per il racconto di D'Agostino - e un mondo si schiude. La storia è lì, con le sue connessioni, i suoi nodi, le sue suggestioni. E' lì e aspetta solo di essere raccontata. Ci sono libri che ci aiutano, libri che il passato se lo tengono stretto per contrabbandarlo nei nostri giorni.


giovedì 8 settembre 2016

Inghilterra, la piccola grande isola di Bill

Mentre me ne stavo lì, mi venne in mente che una delle cose della Gran Bretagna che mi piace veramente, ma proprio sul serio, è questa: è inconoscibile.

E dunque, eccomi di nuovo a godermi un libro di Bill Bryson, nemmeno tre mesi dopo aver viaggiato in Australia sulle sue pagine: di questo passo rischia di diventare una sorta di dipendenza, ma tanto non è come per le bibite gassate o per i gelati, non fa male e se ingrassa è solo per accumulo di intelligenza e buon umore. Mi piacerebbe scrivere libri di viaggio alla maniera di Bill: e lo dico così, con tutta l'umiltà.

Ho appena finito di leggere anche Piccola grande isola. Come il postino che suona sempre due volte, Bill torna a raccontare nel paese a cui 20 anni fa dedicò Notizie da un'isoletta. Nel frattempo il giovine di improbabili speranze che un giorno sbarcò in Inghilterra è diventato autore affermato, ha messo su casa, famiglia e presumibilmente anche diversi chili di troppo. Ma nel frattempo, è evidente, qualcosa è successo anche a questo paese, che pure tra tutti è il più incredibilmente tenace  nel voler rimanere uguale a se stesso.

Bill prova a raccontarcelo in Piccola grande isola (Guanda), seguendo il filo di un viaggio più strampalato degli altri, perché l'idea è questa: prendere una mappa della Gran Bretagna, un righello e una matita; tracciare la più lunga linea retta tra due località; e quindi mettersi in viaggio, seguendo quella linea da sud a nord.

La Bryson Line congiunge Bognor Regis, cittadina sulla manica che ha visto tempi migliori, a Capa Wrath, in Scozia, faro sbattuto dalle onde atlantiche. Ma in mezzo c'è tutto il resto, compreso un numero esorbitante di divagazioni. E con esse storie, incontri, riflessioni, aforismi fulminanti. 

Il tutto sorretto da alcune convinzioni: che quest'isola di nebbia e pioggia che a volte sembra volerci punire con la monotonia sia in realtà il posto con maggiore concentrazione al mondo di cose da vedere (in realtà anche l'Italia non scherzerebbe, ma volete mettere con l'amore britannico anche per il più modesto dei dettagli?); che in fondo sia un paese fondamentalmente saggio (il voto sulla Brexit qualche dubbio me lo ha instillato); e che tuttora registri una sorprendente qualità della vita o comunque una capacità di contentarsi di quello che ha: unico popolo al mondo davvero capace di illuminarsi di fronte a una bevanda calda e a un semplice biscottino. 

Magari sarà anche per il clima, che insegna pazienza e stoicismo. Che dire, meglio lasciare l'ultima parola al vecchio Bill.

  Un britannico che si trovi in un campo minato, e al quale sia saltata in aria una gamba, ma che possa comunque dire “Te l'avevo detta che sarebbe andata a finire così”, è veramente un uomo felice. E questo, in un popolo, mi piace moltissimo. 

giovedì 12 maggio 2016

Il testimone impostore, Don Chisciotte del Novecento

Io non volevo scrivere questo libro. Non sapevo esattamente perché non volessi scriverlo, oppure lo sapevo ma non volevo riconoscerlo o non osavo riconoscerlo; o non del tutto. Il fatto è che per più di sette anni mi sono rifiutato di scrivere questo libro.

Comincia in questo modo L'impostore di Javier Cercas (Guanda), scrittore che avevo già avuto modo di conoscere con Soldati di Salamina e Anatomia di un istante. Un libro scritto malgrado tutto: malgrado le amnesie e gli inganni della memoria, malgrado un protagonista da cui è normale sentirsi traditi, malgrado il sentimento di empatia che viene fuori e che si vorrebbe in tutti i modi cacciare via.

Malgrado tutto, certo: e per fortuna che malgrado tutto Cercas è arrivato fino in fondo.

Romanzo senza finzione, in cui la verità irrompe proprio nel momento in cui viene meno. Romanzo-inchiesta che attraversa la storia della Spagna e raccoglie le voci di molti senza nascondere la parabola dell'autore. Romanzo-biografia, all'inseguimento di un uomo che è un enigma. Difficile incasellare L'impostore, più facile fissare un punto di partenza, che in effetti è solo una domanda.

Chi è Enric Marco, l'uomo che si è inventato un passato eroico di deportato sotto il nazismo e poi di strenuo oppositore al regime di Franco? Perché ha mentito, perché si è inventato persecuzioni che non ha sofferto? Proprio lui che va nelle scuole, che partecipa alle cerimonie, che prende la parola come testimone. Lui che è la memoria e la coscienza pulita del suo paese, il sopravvissuto del lager....

Un impostore, appunto, come tale alla fine smascherato. E tuttavia non c'è mai fondo alle sorprese, quando si inizia a scandagliare le profondità di un uomo. Si comincia a provare qualcosa di buono anche per chi ti ha profondamente deluso.

Eric Marco, che alla fine affronta con dignità la tempesta delle accuse e delle offese, senza scappare, senza cercare alibi, semmai con un sorriso stupito. Eric Marco, che forse aveva solo bisogno di restituire un senso a una vita con un copione da fallito. Eric Marco, che ha attraversato le tragedie del Novecento, come Don Chisciotte ha fatto con l'epoca della cavalleria, inventando una vita che era solo nei sogni e nei libri. 

lunedì 18 aprile 2016

La bellezza che affiora nel romanzo che non ti convince

Mi è piaciuto o no? Mi ha deluso oppure mi ha convinto?

Ci sono anche i libri che ti lasciano così, in questa sospensione del giudizio, in questa incertezza che poi per certi versi è anche salutare, perché con la domanda che rimane per aria anche il senso di quella lettura non viene archiviato una volta per tutte.


L'amore, un estate di William Trevor (Guanda edizioni) per me è stato uno di questi libri.

E certo, già porsi domande del genere non è il massimo. Eppure, a pensarci e ripensarci, ne sono sicuro: anche in queste pagine trovo del bello. Come no.

Per esempio: questa Irlanda di almeno mezzo secolo fa, pascoli e pub, chiacchiere e moralismo all'ennesima potenza; questa relazione che non si sa se c'è, se inizia, se terminerà prima di iniziare, in una nube di incertezza, di indeterminazione, che spesso è come va davvero la vita; questo senso di attesa di qualcosa che dovrà pur succedere e non succede mai: e certo spesso la vita è anche questo, un'attesa che non si scioglie, qualcosa che si attende all'orizzonte del nostro Deserto dei Tartari, e quasi sempre è solo un miraggio.

E poi questo giovane senz'arte né parte, che ora tenta di fare il fotografo e ora non crede più né a se stesso né alla fotografia.

Ma soprattutto la casa dove abita, una bella vecchia casa che fa tanto campagna inglese (anche se siamo in Irlanda), questa casa che era dei suoi genitori e che ora, dopo la loro morte, si trova a vendere, vendendo con essa anche le sue radici, il suo passato, le testimonianze e gli affetti.

Magari la bellezza di un libro si trova dove non si cerca, nella direzione opposta e contraria alla quale sembra portarti.

venerdì 28 agosto 2015

Il console di Roma, sul crinale tra due mondi

Il sole annunciò che il mondo mi riprendeva con sé, mi riportava tra i suoni e in mezzo alle voci: che io lo volessi o no, cominciava un nuovo giorno. Il console doveva alzarsi, per continuare il suo cammino tra i viventi. E io non era più l'uomo del giorno precedente.

Ecco il Marco Vichi che non ti aspetti, lontano dalla sua Firenze, lontano perfino da quella contemporaneità in cui si srotolano i suoi intrecci e prendono vita i suoi tanti indimenticabili personaggi. Con Il console (Guanda) azzarda un salto nel tempo di due millenni. Si inoltra in quel mondo romano dove ancora oggi, solo a provarci, potremmo trovare molte risposte. Non teme di avvicinarsi al mistero dei misteri, a quella croce piantata sul Golgota da cui è disceso tutto o quasi tutto quello che ci riguarda. Mistero avvicinato con gli occhi di un pagano, un'autorità dell'impero di Roma. Con gli occhi, con il sentito dire e poi con un incontro destinato a cambiare tutte le carte di una vita.

Eccolo, il governatore di Samaria, richiamato a Roma da Tiberio, imperatore più grande di quanto il suo carattere ombroso e gli intrighi di palazzo ci abbiano consentito di cogliere. Non è un governatore in disgrazia, in tempi in cui è facile che ogni fortuna sia travolta da un giorno all'altro. Tiberio lo vuole con sé, alla villa di Capri dove da anni si è ritirato. Presto sarà console di Roma. E intanto potrà trascorrere una notte con la sua schiava più bella.

Un console romano e una schiava. Che cosa ci può essere di più distante?

Eppure proprio in quella notte, in quell'incontro, cambieranno le traiettorie di un'intera esistenza. La prima luce su un crinale tra due mondi, tra l'impero ancora persuaso della sua forza e della sua necessità e quell'altro regno che per ora è di schiavi e di perseguitati.

Ma il crinale è anche dentro la storia di un uomo, le sue certezze, le sue prospettive. Un uomo che intuisce una singolare uguaglianza con la schiava che doveva essere solo strumento di piacere per una notte. E che dopo tanto rumore si accorge della necessità del silenzio: forse gli porterà in dono le risposte che ancora gli mancano.

Sorprendente, Marco Vichi, alle prese con il mistero dei misteri, nella Roma pagana. 

lunedì 30 marzo 2015

Tra maori e polacchi, il mondo dimenticato a Montecassino


La Storia quasi sempre è storia dei grandi, non di coloro che la fanno e la subiscono davvero: dei generali e non delle truppe. Ma se la Storia, in questo senso, quasi sempre è amnesia e silenzio, la forza della scrittura sa restituire voce a chi non l'ha mai avuta, sa raccontare le storie nella Storia, forse perfino conservare brandelli di vita.

A tutto questo - mica poco - ho pensato immergendomi de Le rondini di Montecassino di Helena Janeczeck (Guanda), romanzo corale che raccoglie e racconta parabole di vita e di morte intorno alla terribile battaglia con cui, per quattro mesi nel 1944, gli Alleati tentarono di sfondare le linee tedesche in Italia. Ma chi erano gli Alleati? Americani chewing gum in bocca e cioccolata da distribuire? Inglesi capaci di andare all'assalto con il gusto di un'ultima battuta?

E no, c'era un mondo, in quella battaglia. Indiani, nepalesi, maghrebini. Un migliaio di ebrei che imbracciarono le armi per rivendicare il diritto a esistere, mentre il loro popolo veniva spinto verso le camere a gas. Un battaglione di maori che mai si sarebbe immaginato di combattere in Europa. Persino un esercito, quello polacco, resuscitato dai suoi stessi carnefici sovietici, quanto ne rimaneva, almeno, dopo le stragi di massa e l'invio nei gulag siberiani.

Non c'è la penna dello storico, in queste pagine, ma la penna della grande narratrice, che annoda e srotola storie, cambiando punti di vista, spostandosi da un tempo all'altro per raccontare le vicende di chi, pur combattendo con i vincitori, non è sfuggito al destino dei vinti. 

E per raccontarli può servire anche l'incontro in un taxi di Milano, o un viaggio in Italia del nipote di un veterano maori, oppure le esperienze di due ragazzi cresciuti a Roma nei nostri anni.... perché è anche così che si fa storia.

venerdì 19 dicembre 2014

Il povero e prezioso segreto di Dora


Da quel giorno la Parigi in cui ho tentato di ritrovare le sue tracce è rimasta deserta e silenziosa come allora.

Cammino per strade vuote. Per me restano tali anche la sera, nell'ora di punta, quando la gente si accalca agli ingressi del metro. 

Non posso fare a meno di pensare a lei e di sentire un'eco della sua presenza in certi quartieri. L'altra sera, mi è successo vicino alla gare du Nord.

Ignorerò per sempre come passava le giornate, dove si nascondeva, in compagnia di chi si trovava durante l'inverno della sua prima fuga e nelle poche settimane di quella primavera in cui scappò di nuovo. E' il suo segreto.

Povero e prezioso segreto che i carnefici, le ordinanze, le autorità cosiddette d'occupazione, il Deposito, le caserme, i campi, la Storia, il tempo - tutto ciò che insozza e distrugge - non sono riuscite a rubarle.

(Patrick Modiano, Dora Bruder, Guanda)

mercoledì 17 dicembre 2014

Modiano e la storia di Dora, che di sé non ha lasciato traccia

Sono persone che si lasciano dietro poche tracce. Quasi anonime. Non si distinguono da certe strade di Parigi, da certi paesaggi di periferie dove ho scoperto, per caso, che avevano abitato. Ciò che sappiamo di loro si riassume spesso in un semplice indirizzo. E questa precisione topografica contrasta con quanto ignorammo per sempre della loro vita... con quel vuoto, con quel grumo di ignoto e di silenzio.

Ecco, forse è tutto in queste righe il senso ultimo di un piccolo grande libro del premio Nobel Patrick Modiano, Dora Bruder (Guanda): persone inghiottite dall'oblio, tracce evanescenti e ombre che forse abitano le strade e le piazze delle nostre città, grumi di silenzio, vuoti che si spalancano come se ci stesse per franare il terreno sotto i piedi.

Si legge in un lampo, Dora Bruder, ma poi è uno di quei libri che non se ne vanno, che continuano a interrogare come dovere della memoria, come necessità di riparazione, come vita che è stata cancellata dalle nostre mappe. Molti altri libri, molte altre storie, lascerò passare prima di non avvertire più lo sguardo addosso, enigmatico ed esigente, di quella ragazza in copertina.

Qualcosa del genere è successo anche a me, con la storia di Enrica Calabresi, che anni fa ho cercato di raccontare in Un nome (Giuntina), onestamente concedendo a me stesso che non c'era molto da raccontare, o forse c'era da raccontare più un bisogno di verità, una ricerca, che la storia di una persona.

Con Un nome la professoressa ebrea suicida prima della deportazione e una foto di tempi sereni in copertina. Con Dora Bruder un ritaglio di giornale in cui due genitori ebrei chiedono notizie della figlia scomparsa nella Parigi occupata da Hitler. Vuoto e silenzio appunto. Anche se poi la fine di Dora è, almeno burocraticamente, nota. Un treno per il lager senza ritorno per questa adolescente che non ha lasciato praticamente niente dietro di sé. Ma prima, prima che è successo? Che vita è stata quella di Dora?

Un mistero che non cambierà la nostra vita. E che pure dà un senso al nostro modo di stare al mondo e di interrogare la storia.

mercoledì 10 dicembre 2014

Il traduttore che scomparve nel nulla

Non venne fucilato un traditore: venne fucilato un uomo per trasformarlo in traditore.

Probabilmente successe anche questo, durante la guerra di Spagna, perché nelle guerre, soprattutto nelle guerre civili, succede davvero di tutto. Gli uomini sono spazzati via, mica solo dal fuoco sulla linea di fronte. Succede di tutto: tradimenti e spari alla schiena, ammazzamenti per paura e per noia, esecuzioni sommarie e fosse comuni.

Succede anche questo: che un inerme uomo di lettere finisca nel bel mezzo di uno dei conflitti più spietati del Novecento; che scelga da che parte stare - senz'altro la parte giusta - e paghi la sua scelta per mano non del nemico ma dei suoi. Chissà per quale trama, quale equivoco, quale manovra obliqua e inconfessabile.

Questa è la storia di José Robles Pazos, amico del grande John Dos Passos e di altri scrittori americani, repubblicano, rapito una notte di dicembre 1936 dai servizi segreti sovietici e sparito per sempre. Inghiottito in una voragine di buio e di silenzio, come molti altri che in quegli anni non si trovarono solo sotto il tiro delle armi fasciste. Volontari internazionali, anarchici, comunisti dissidenti che dovettero anche guardarsi le spalle.

A raccontare questa storia di "uno sconfitto tra gli sconfitti"  è Ignacio Martìnez de Pisòn in Morte di un traduttore (Guanda), libro forse non esaltante, saggio scrupoloso più che narrazione ad alta tensione emotiva, ma che è al merito di gettare un filo di luce su vicende che si vorrebbero consegnate all'oblio.

giovedì 25 settembre 2014

Il grizzly e i consigli di sta comodamente al computer



Tutti i libri sono  categorici nel dire che se un grizzly ci corre incontro, non si deve mai cercare di scappare.

Questo è il genere di consiglio che può venire solo da una persona che, nel momento in cui lo dà, si trova comodamente seduta davanti alla tastiera del suo computer.

Datemi retta: se siete all'aperto, senz'armi, e un grizzly vi si fa incontro, correte. Correte senza problemi.

Se non altro, occuperete produttivamente gli ultimi sette secondi della vostra vita.

(Bill Bryson, Una passeggiata nei boschi, Guanda)

lunedì 25 agosto 2014

New York, nel paese delle automobili e delle lavatrici

Per certi versi, i comportamenti e le abitudini di New York sono remoti da quelli del resto del paese come Venezia lo è dal resto d'Italia.

Non solo remota dal punto di vista geografico, né perché la sua testa ancora si volge metaforicamente verso l'Europa. Remota nei modelli e nelle attività fondamentali della civiltà: muoversi, mangiare, fare il bucato.

New York è una città di gente che si muove a piedi, in un paese di automobili; New York è una città compressa in un paese di grandi spazi; New York è una città in cui la gente porta i panni sporchi al lavasecco del quartiere, scarpinando per tre isolati.

Noi ci affidiamo ai piedi e al treno, e a qualche pedalata ricreativa in bicicletta, mentre l'America è - prima di tutto, soprattutto e definitivamente - un paese di automobili e lavatrici.

                                            (Adam Gopnik, Una casa a New York, Guanda)

sabato 21 dicembre 2013

Quello strano posto che è la camera da letto


La camera da letto è uno strano posto.

Non esiste altro luogo in tutta la casa in cui passiamo più tempo facendo di meno, e facendolo per lo più in silenzio e senza averne coscienza, eppure è la camera da letto che fa da sfondo a molte delle più profonde e persistenti infelicità dell'esistenza. 

Se siete in punto di morte o malati, esausti, sessualmente frustrati, in lacrime, in preda all'ansia, troppo depressi per affrontare il mondo o comunque privi di serenità e gioia, la camera da letto è il luogo in cui sarà più probabile che vi troviate.

E' così da secoli, ma, più o meno nello stesso periodo in cui il reverendo Marsham stava costruendo la sua casa, alla vita che si consumava dietro la porta della camera da letto venne ad aggiungersi una dimensione del tutto nuova: la paura.

Nessuno aveva mai avito più ragioni di cui preoccuparsi in uno spazio limitato dei vittoriani nelle loro stanze da letto.

(Bill Bryson, Breve storia della vita privata, Guanda)

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...