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venerdì 16 ottobre 2015

Con John Williams, a caccia del Bisonte (di Arnaldo Melloni)

Un libro meraviglioso,  Butcher's Crossing di John Williams (Fazi), con una scrittura cinematografica che consente al lettore di immergersi nella realtà di un piccolo villaggio sperduto del Kansas nel 1873. L’epopea del West vista attraverso gli occhi di un gruppo di personaggi che poco hanno dell’eroe romantico a cui ci ha abituato la vulgata hollywoodiana.  

La cosa sorprendente di questo romanzo è la capacità di attrazione senza effetti speciali; è una lettura che ti avviluppa con descrizioni minuziose e scarni dialoghi senza nessuna caduta di tensione.

Azzeccatissimi i personaggi, a cominciare dal giovane Andrews, in fuga dalla borghese Boston alla ricerca di avventure, che sbarca nel villaggio di Butcher’s Crossing. Si lascia convincere a finanziare e partecipare ad una caccia al bisonte in una valle tra le montagne del Colorado che durerà molti mesi. Con lui partono l’esperto cacciatore Miller, che assume anche la guida della spedizione, lo scuoiatore Schneider e il loquace vecchietto Charley Hoge, amante del whisky e assiduo lettore della Bibbia.

La rappresentazione che ne esce è magnifica e rende perfettamente l’idea della strage di questi animali in un contesto ambientale tanto bello quanto inospitale. Descrizioni che nulla lasciano all’immaginazione, trasportano il lettore in un mondo di sangue, budella e odori nauseabondi dove l’uomo uccide senza criterio e per pura avidità.
Incuriosisce la totale assenza dei nativi e di qualsiasi riferimento alle conseguenze che hanno subito a seguito della strage di bisonti.
La storia di John Williams, scrittore scoperto e apprezzato solo dopo la sua morte, è veramente particolare. Scrisse solo quattro romanzi assai diversi tra loro ed un quinto rimase incompiuto per la sua scomparsa causata dai problemi di alcolismo che lo attanagliarono negli ultimi anni di vita.
“Butchers’s Crossing” è il suo secondo romanzo. Cronologicamente viene prima di Stoner, libro considerato il suo vero capolavoro ed artefice della sua fama postuma. 

Arnaldo Melloni 

domenica 28 luglio 2013

La nostalgia dei viaggiatori non è cosa d'oggi

In questo secolo dell'elettricità e del vapore, tutto si trasforma, persino i luoghi.

Nell'antica piana di Sharon si ode già il fischio della locomotiva. L'immortale via di Damasco, testimone della conversione di San Paolo, oggi non è altro che una volgare strada ferrata!

Prima che il progresso abbia avuto buon giuoco, prima che il presente che è ancora il passato sia scomparso per sempre, abbiamo cercato, per così dire, di fermarlo in una serie di vedute fotografiche che offriamo ai lettori di quest'album.

(Adrien Bonfils, fotografo dell'Ottocento, citato in Louis Vaczek e Gail Buckland, Travellers in ancient lands, Boston 1981)

domenica 29 aprile 2012

Con Robert Frost, la strada che non presi

LA STRADA CHE NON PRESI

Due strade divergevano in un bosco giallo
e mi dispiaceva non poterle percorrere entrambe
ed essendo un solo viaggiatore, rimasi a lungo
a guardarne una fino a che potei.

Poi presi l’altra, perché era altrettanto bella,
e aveva forse l’ aspetto migliore,
perché era erbosa e meno consumata,
sebbene il passaggio le avesse rese quasi simili.

Ed entrambe quella mattina erano lì uguali,
con foglie che nessun passo aveva annerito.

Oh, misi da parte la prima per un altro giorno!
Pur sapendo come una strada porti ad un’altra,
dubitavo se mai sarei tornato indietro.

Lo racconterò con un sospiro
da qualche parte tra anni e anni:
due strade divergevano in un bosco, e io -
io presi la meno percorsa,
e quello ha fatto tutta la differenza.

Robert Frost (San Francisco 1874 Boston 1963)  

giovedì 5 aprile 2012

Cara Fernanda, grazie per la tua America


Ci sono molte cose per cui dovremmo essere tutti grati a Fernanda Pivano: per il suo sorriso e per la dolcezza con cui ci ha preso per mano e ci ha presentato alcuni dei grandissimi del Novecento, senza presunzione, senza affettazione, come avrebbe fatto una sorella maggiore; per i libri e gli autori che ci ha permesso di conoscere; per un'idea di cultura non confinata nel chiuso delle biblioteche e delle accademie, ma capace di nutrirsi di orizzonti, distanze, alternative...

Io la ringrazio per la sua America, per l'America che mi ha donato, che ha rovesciato sulle mie inquietudini, sulle mie idiosincrasie, perfino sui miei pregiudizi.

L'America che era l'altra America, un'America non scontata, un'America che era lontana e allo stesso tempo poteva cominciare oltre il cortile di casa. La via Emilia come il West. La Maremma come la California. Firenze come Boston, più o meno.

Perchè c'era l'America che non potevo proprio digerire, paese incomprensibile e odioso, industria di errori e orrori, dal Vietnam agli indiani massacrati, dalle sentenze capitali alle stragi di matti armati fino ai denti... Poteva essere facile odiare l'America. L'avrei odiata, non fosse stata per Hemingway e Jack Kerouac, per Fitzgerald e Allen Ginsberg, per Bob Dylan e parecchi altri...

Pagine, emozioni, riflessioni per cui devo essere grato alla cara vecchia Nanda. Con lei l'America mi è diventata un pollice puntato lungo una strada, un'improvvisazione jazz, un campus universitario. Guazzabuglio e possibilità. Sogno.

Da qualche tempo Fernanda Pivano se n'è andata, però non dimentico che donandomi tutto questo, donandomelo proprio in anni difficili, mi ha aiutato a essere un po' migliore di quello che ero e forse sarò.

domenica 22 gennaio 2012

Cosa ci insegna lo spezzatino di New York

E' un libro che mi sta conquistando, La bellezza del mondo di Michel Le Bris e, quando lo avrò finito (un po' ci vorrà data la mole), ne avrò modo di parlare parecchio. Ci sono i viaggi, le esplorazioni, le avventure, c'è il business, che non può mai mancare, c'è soprattutto la giungla più giungla di tutte, il cuore pulsante del mondo, New York, qui raccontata nei suoi magnifici, travolgenti, assurdi anni Venti, quelli di Francis Scott Fiztgerald, del proibizionismo, dei gangster e del jazz. E c'è un atto di amore per la Grande Mela, crogiuolo di popoli, città dove si può incontrare di tutto, che fa maledettamente bene leggere oggi, ovunque noi siamo:

Chicago aveva i suoi chicagoani, Boston i suoi bostoniani, Ne York aveva irlandesi, tedeschi, francesi, italiani, siriani, turchi, svedesi, cinesi, indù, russi, texani, georgiani, californiani, messicani, portoricani, canadesi, cajun, eschimesi, cechi, cubani, spagnoli, portoghesi, lituani, greci, arabi, ma ognuno di loro, fosse pure vestito con gli abiti tradizionali, preoccupato dei suoi usi e costumi, si vantava di essere newyorkese, come se i grandi cuochi del pianeta avessero inviato a New York le loro spezie più prelibate per insaporire quel enorme pot-au-feu - ognuno, smanioso di dare spettacolo di sè, pretendeva di essere attore di quell'immenso "show" che era diventata la città. New York, il teatro del mondo! New York, come una sfida lanciata al resto dell'universo, in preda all'ebbrezza della sua insolenza sfoggiata, avida d'infrangere tutti i tabù, di opporsi ai pregiudizi, di affermare la sua smagliante giovinezza....


(Michel Le Bris, La bellezza del mondo, Fazi)

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...