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venerdì 16 agosto 2013

Il dottor Ingravallo, che filosofava a stomaco vuoto

Qualche collega un tantino invidioso delle sue trovate, qualche prete più edotto dei molti danni del secolo, alcuni subalterni, certi uscieri, i superiori, sostenevano che leggesse dei libri strani: da cui cavava tutte quelle parole che non vogliono dir nulla, o quasi nulla, ma servono come non altre ad accileccare gli sprovveduti, gli ignari.

Erano questioni un po' da manicomio: una terminologia da medici dei matti. Per la pratica ci vuol altro!

I fumi e le filosoficherie son da lasciare ai trattatisti: la pratica dei commissariati e della squadra mobile è tutt'un altro affare: ci vuole una gran pazienza, della gran carità: uno stomaco pur anche a posto: e, quando non traballi tutta la baracca dei taliani, senso di responsabilità e decisione sicura, moderazione civile; già: già: e polso fermo.

Di queste obiezioni così giuste lui, Don Ciccio, non se ne dava per inteso: seguitava a dormire in piedi, a filosofare a stomaco vuoto, e a fingere di fumare la sua mezza sigheretta, regolarmente spenta.

(Carlo Emilio Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Garzanti)

lunedì 19 novembre 2012

Una piazza e un ascensore per uno scontro di civiltà

Mi è piaciuto Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio di Amara Lakhous (E/O edizioni) un libro che ai tempi mi era sfuggito, che non aveva richiamato la mia attenzione nemmeno quando ne ers stato tratto un film, che forse ho finito per acquistare solo per ciò che mi evoca la piazza Vittorio del titolo - il melting pot musicale di un'orchestra e l'idea di una città dove le differenze non atterriscono e le identità arrichiscono.

Pensare che non ci sono mai stato in Piazza Vittorio, a Roma. Però forse è meglio così, perchè fa bene immaginare questo tessuto di voci, odori, colori. Per poi tuffarsi in queste pagine, che scivolano come acqua sulla pelle, senza doversi appesantire con l'urgenza della classificazione o qualche scomodo paragone.

Perchè è vero, questo libro è satira di costume e insieme romanzo giallo, e la storia desta perfino qualche suggestione letteraria che ha a che vedere con il Gadda del Pasticciaccio come con il mosaico di voci di Rashomon.

Però è meglio fermarsi qui, e per il resto scivolare via. Indugiando sulla piazza, sulle parole che si rincorrono intorno all'omicidio del "Gladiatore", sulle scene di vita quotidiana che girano intorno a un ascensore e a un condominio: che come in tutti condomini, si sa, richiede più capacità di diplomazia e inventiva di una crisi discussa al Palazzo di Vetro.

venerdì 18 febbraio 2011

Gli scrittori e i cuochi della realtà

Eugenio Montale, che lo stipendio lo portava a casa lavorando al Corriere della Sera, non aveva dubbi:

Il giornalismo sta alla letteratura come la riproduzione all'amore

E se per il grandissimo poeta il giornalismo era il secondo mestiere, altri letterati che si sono cibati di giornalismo ci sono andati giù ancora più pesi. Per Gabriele D'Annunzio era la miserabile fatica quotidiana  (ma tanto miserabile non era, a giudicare dai suoi compensi), per Tommaso Landolfi (che con le collaborazioni ai giornali si pagava i debiti di gioco) si trattava di letteratura alimentare, mentre Ennio Flaiano non risparmiava la sua penna intinta al curaro:

I giornalisti? Chi ci salverà da questi cuochi della realtà?

Traggo questi esempi dall'ultimo numero di Tuttolibri, che dedica la sua apertura, a firma di di Mirella Serri, proprio al rapporto tra letteratura e giornalismo. E tutto gira intorno a questa domanda:

Cosa li ha spinti a indossare l'elmetto e a scendere in campo per quel medium non sempre apprezzato?

Domanda legittima, a cui peraltro non mi sembra difficilissimo rispondere: i compensi delle collaborazioni più la circolazione della firma su testate autorevoli mi sembra possano essere motivo sufficiente.

Mi interessa più un'altra domanda: perché tanto sputare nel piatto in cui mangia?

E aggiungo: perché lo scrittore deve sentirsi degradato quando fa il giornalista (ovvero lo scribacchino fesso di Carlo Emilio Gadda)?

Mi sbaglierò, ma mi pare che questo tradisca un limite di tanti nostri intellettuali, ben disposti a trincerarsi negli orti chiusi delle belle lettere (torri d'avorio?) piuttosto che spendersi nelle libere praterie delle notizie, delle inchieste, dei dibattiti quotidiani.

Eh sì che il nostro giornalismo avrebbe bisogno di buoni scrittori. Non di esercizi di stile, intendiamoci. Ma di ciò che lo scrittore può davvero regalare: curiosità, sguardi diversi, nuove parole per la realtà. E per le tante realtà che hanno bisogno di essere raccontate.

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...