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mercoledì 1 luglio 2020

Tra boschi e acqua, sulle tracce del grande Paddy

Dicembre 1933, Patrick Leigh Fermor è un ragazzo di 18 anni, che ha i suoi problemi con gli studi e con le scelte per il futuro, ma intanto una scelta sa farla, perché prende e parte. Lascia l'Inghilterra e si incammina attraverso l'Europa, direzione Istanbul. Come un vagabondo, un pellegrino, un chierico vagante. Un giorno racconterà tutto in tre libri, uno più bello dell'altro, consegnando al mito quello stesso viaggio.

Ottanta anni più tardi Nick Hunt insegue le sue tracce. Anche lui è uno scrittore, anzi, è uno scrittore che ha già avuto modo di mettersi in mostra: splendido il suo Dove soffiano i venti selvaggi, viaggio all'inseguemto dei venti europei più inquieti e imperiosi, come la bora e il mistral. 

Anche questo viaggio, a modo suo, segue un vento, perché è come il vento il passaggio di un uomo: impalbabile, inafferrabile. Per coglierne qualcosa forse c'è solo da aggiungere passo a passo e confidare nelle gambe.

Ecco, il viaggio pare lo stesso, per quanto riguarda almeno la geografia fisica. Duecentoventuno giorni, quattromila chilometri, due grandi fiumi come il Reno e il Danubio, tre catene montuose per raggiungere quella che una volta era Costantinopoli. 

Ma può essere lo stesso viaggio se l'Europa è cambiata. E in che modo è cambiata, in che misura? Già Fermor aveva camminato su un mondo sull'orlo del precipizio, con Hitler da poco al potere. Troppo è successo negli anni dopo, non solo la guerra, i popoli e i confini spazzati via, lo sdradicamento di culture millenarie. 

E ora? Camminando tra i boschi e l'acqua (Neri Pozza) dimostra che si può camminare nel tempo e che nello spazio che attraversiamo possono convivere diversi tempi. Più si muove verso est, e verso sud, più Nick Hunt ritrova nel presente le tracce del mondo che Fermor ha raccontato.

Quanto a Fermor, sì, è vento: ma in tutta Europa, dall'inizio alla fine del suo viaggio, l'uomo che ne insegue le orme trova gente disposta a ospitarlo. Sconosciuti pescati in Rete, uniti solo dall'idea di quel viaggio mito di un remoto 1933. Anche il vento, in fondo, ogni tanto si ferma e si lascia accogliere.







martedì 24 luglio 2018

In cammino dietro i venti selvaggi

Ma da dove vengono i venti, e dove vanno? E si può davvero dire che "vanno" nello stesso senso in cui chi cammina va da qualche parte, o una strada da un posto all'altro? E se così è, che fine fanno una volta che ci sono arrivati?



Nick Hunt non si limita a porsi domande del genere, che già non sarebbe poco.  A un certo punto si rende conto che i venti riesce persino a vederli. E quindi seguirli con i suoi passi. L'attrazione per i venti, che per i casi della vita si porta da quando era un bambino, riesce a farsi viaggio.

E' così che Nick Hunt, firma del Guardian e dell'Economist, entra a pieno titolo nel nutrito gruppo degli scrittori di cammino inglesi, gruppo che come è noto si distingue per le tentazioni della curiosità e l'originalità delle scelte. Ora c'è anche lui, insieme ai Patrick Leigh Fermor e ai Robert Macfarlane: e suo è uno dei migliori libri di viaggio che mi sia capitato tra le mani negli utili tempi.

Dove soffiano i venti selvaggi (edizioni Neri Pozza) racconta i cammini per i luoghi dove nascono e imperversano la Bora, il Mistral e le altre forze che sono realtà tenace e insieme leggenda nella storia di tanti popoli. Chi parla non è un meteorologo ma un viaggiatore, che poche cose si lascia sfuggire di ciò che i venti producono: nella conformazione dei paesaggi, nelle architetture delle case, persino nei caratteri della gente.

Sembra quasi un gioco, modellato sulla rosa dei venti e sulla geografia dei monti e delle valli. Roba in fondo per cultori della maniera. Invece no: e non solo perché c'è grande scrittura. Le parole come sempre sono rivelatrici. Basta giocarci appena: lo spirare del vento e il respirare di chi vive, per non dire dello spirito che è concetto che richiama il sacro. Oppure il vento dei latini, l'anemos: da cui discende l'anima ma anche l'animale. 

Vento che richiama la vita, vento che è addirittura vita. E inseguirlo, ci spiega Nick Hunt, non è roba da Don Chischiotte lanciato contro i mulini.  Forse c'è vento che spira anche dentro di noi. 

lunedì 15 gennaio 2018

Fra i boschi e l'acqua, il tempo dell'incanto

Un libro e molti chilometri dopo, è ancora lui, Patrick Leigh Fermor, il ragazzo nemmeno ventenne che ha abbandonato l'Inghilterra e i suoi disastri scolastici per raggiungere a piedi quella che ancora chiama Costantinopoli. Lo avevo lasciato con le pagine di Tempo di regali, ecco ora Fra i boschi e l'acqua: seconda parte di una trilogia, proposta da Adelphi, che è uno dei vertici della letteratura di viaggio del Novecento. E anche questa volta Fermor non tradisce le aspettative, tutt'altro.

Casomai cambia il passo e con il passo il sentimento predominante.  Prima c'era l'urgenza del distacco, il tumulto della partenza, la fame di distanza, i chilometri da macinare, quanti più possibili. Ora tutto si rallenta, per incanto non per pigrizia. Più che la meta conta la deviazione. Più che la strada percorsa la pausa a cui affidarsi. Come un grande fiume che si è lasciato dietro i tumulti dei monti, che procede lento, maestoso, gonfio d'acqua. Come il Danubio, che senz'altro è uno dei protagonisti di questo viaggio.

Altri mille chilometri. Davanti si distende la pianura ungherese: l'immensa puszta che è premessa della steppa asiatica, i boschi della Transilvania, le Porte di Ferro dove Carpazi e Balcani sembrano darsi appuntamento.

Avanti, avanti ancora. Ma cedendo alle tentazioni, che volta volta sono la notte sotto le stelle, l'indolenza richiamata da un prato, una cena tra aristocratici in un maniero o un bevuta con gli zingari intorno a un fuoco.

Incredibile, è il 1934: e l'irrequietezza sembra appartenere ad altri anni, più vicini a noi. O forse è quella di sempre, quella dei giovani chierici vaganti che da sempre si mettono in movimento, per cercare se stessi prima che un altro mondo, o forse per scappare prima ancora che per cercare.

Incredibile, è il 1934: Hitler è da poco al potere - e certe avvisaglie Fermor le coglie, come no - presto questa Europa non ci sarà più. Quel remoto mondo rurale fu spazzato via nel decennio successivo - ricorderà - e adesso mi rendo conto della fortuna che ho avuto a poterne cogliere squarci prolungati, addirittura a esserne stato un poco partecipe. Discorso che ci offre profondità storica, non tutto è sparito solo dopo, ai tempi delle autostrade, del web 2.0, dei voli low cost.

Ma intanto con la sua andatura senza fretta, con la sua splendida  capacità di divagazione, c'è ancora tempo: fra i boschi e l'acqua.



giovedì 14 dicembre 2017

In Transilvania un mondo antico che è già elegia

Avevo trovato l'Europa orientale fantasticata da bambino leggendo le favole russe: quella dei capanni di legno ai margini di foreste popolate da lupi e orsi, con la neve, le slitte, le giacche di pecora, le bluse ricamate, le donne col fazzoletto in testa. Pensavo di essere nato troppo tardi per poter incontrare da qualche parte la vita contadina descritta da Tolstoi e Hardy, ma mi ero sbagliato. Ecco i resti di un mondo antico....

La citazione è lunga, ma racchiude tutto il fascino che sprigiona Lungo la via incantata di William Blacker (Adelphi), libro potente, libro che prende e cattura come pochi altri tra i tanti che ci accompagnano nell'esperienza del viaggio. Libro sorprendente, addirittura spiazzante, perché portandoci in un altrove da fiaba, in realtà ci racconta il tempo e ciò che il tempo fa dei luoghi.

Romania, ultimi giorni 1989: il regime socialista di Ceasescu crolla di schianto, la rivoluzione ha vinto e non c'è un momento da perdere. La frontiera è aperta, ma vai a sapere cosa succederà ora che non c'è più un muro a chiudere quel mondo e in qualche modo anche a preservarlo.

William Blacker appartiene a quel tipo di inglese che - come Bruce Chatwin e Patrick Leigh Fermor - si porta dentro l'istinto del nomade e la curiosità dell'intellettuale che il mondo intende constatarlo di persona. Finisce in Maramureș, la parte più remota e immutata della Transilvania. Si ferma, viene adottato da una famiglia contadina che davvero appartiene a un altro tempo, solo che questo tempo è ancora il presente in Maramureș. Comincia a sperimentare una vita che da secoli è la stessa: il lavoro nei campi, le feste e i funerali, le bevute e i canti.Ci resterà per anni.

E' entrato a far parte di un mondo che sembra inconcepibile abbia convissuto con il regime di Ceasescu e con ciò che esso ha rappresentato anche come trionfo della bruttezza e dello sradicamento.  Un mondo che ha saputo resistere, ma che proprio ora è segnato: ciò che non ha fatto la storia, ciò che non ha combinato la dittatura, potranno portare a compimento ora, con implacabile velocità, le strade asfaltate e le tentazioni del supermercato.

Il tempo appunto, il tempo in cui è rimasto sospeso l'ultimo lembo di un'Europa antica, di un'Europa qual era, presente che è già elegia, bellezza già intrisa di nostalgia. Questo il Maramureș, una foglia di autunno che sta per staccarsi. Dopo, una volta a terra, sarà facile calpestarla. 

sabato 20 settembre 2014

Fermor: forse i viaggi non possono finire mai?

Forse i viaggi, i grandi viaggi, non possono finire mai?

Fermor non rispondeva a domande di questo genere. Aveva quell'atteggiamento di sospensione assolutamente inglese benché fosse ormai così greco e, come il suo amico Katsìmbalis (il poeta  che è il "colosso"  raccontato da Henry Miller in "Il colosso di Maroussi"), fosse invincibile in qualsiasi sfida di ouzo, anche nelle più sorde taverne del Pireo.

La Bbc lo aveva descritto come "un incrocio fra Indiana Jones, Bond e Graham Greene", ma è un quadro che potrebbe andar bene solo per chi non ne ha mai sentito il nome e soprattutto non ha mai letto i suoi libri.

Non era Byron, del resto, e non era Chatwin. Chatwin morendo aveva chiesto che le proprie ceneri fossero sparse accanto a una chiesetta peloponnesiaca a Exochori, poco lontano da Kardamili.

Fermor, malato da tempo e novantaseienne, quando capì che non c'erano più lettere da battere sulla macchina da scrivere e non c'erano più To Be Continued da vergare, lasciò la casa di pietra di Kardamili e prese un aereo per tornare dove era nato.

Il giorno dopo il suo arrivo, in Worcestershire, salutò tutti.

(da Matteo Nucci, Lo scrittore d'avventura, ricordo di Patrick Leigh Fermor sul Venerdì di Repubblica)

sabato 26 ottobre 2013

Quella era l'isola raccontata da Omero

"Sapete di Marathonìssi, nei tempi antichi?" chiede improvvisamente. "Molti anni fa?".

"Zanetbey aveva là il suo castello" dissi io.

Il cameriere liquidò bey e castello con un gesto. "Quella è roba recente... il mio trisnonno era uno dei pallicari di Zanet. Voglio dire molto molto tempo fa".

Dichiarammo di non sapere altro. 

"Ah!" fece, acceso dalla prospettiva di darci una notizia. "Quando Paride, un principe troiano, rubò la bella Elena al marito, il re di Sparta, è là"  indicò Marathonìssi "che i fuggiaschi gettarono l'ancora. Scesero dal caicco e passarono la prima notte insieme sull'isola. L'ha raccontato Omero. L'isola allora si chiamava Cranae".

Restammo sbalorditi. Cranae! Mi ero sempre chiesto dove fosse. Tutta Githion si trasformò di colpo. Sembrò che ogni isola svanisse, tranne il profilo scuro dell'isola dove migliaia d'anni fa era cominciata, tra l'erbe mormoranti, quella fatale e incendaria luna di miele. 

(Patrick Leigh Fermor, Mani. Viaggi nel Peloponneso, Adelphi)

domenica 6 ottobre 2013

In Grecia, ospitalità prima di chiedere il nome

Molte cose in Grecia sono rimaste immutate dai tempi dell'Odissea, e forse la più notevole è l'ospitalità verso gli stranieri; più una regione è remota e montuosa, minore è il cambiamento a questo riguardo.

L'arrivo a un villaggio o a un cascinale non è molto diverso da quello di Telemaco al palazzo di Nestore a Pilo e di Menelao a Sparta - così vicino, a volo d'uccello, a Vathia - o dello stesso Odisseo, guidato dalla figlia del re alla reggia di Alcinoo. 

Non esiste descrizione migliore del soggiorno di uno straniero presso la dimora di un pastore greco di quella di Odisseo travestito quando entra nella capanna del porcaio Eumeo a Itaca. 

C'è ancora la stessa accettazione senza domande, l'attenzione ai bisogni dello straniero prima ancora di saperne il nome: la figlia che gli versa l'acqua sulle mani e gli offre un panno pulito, la tavola prima apparecchiata e poi presentata all'ospite, la premurosa offerta di vino e cibo, lo scambio di identità e di autobiografie, il letto preparato nella parte migliore della casa - la più fresca o la più calda a seconda delle stagioni - le preghiere all'ospite perché si trattenga a suo piacimento, e infine, alla sua partenza, i doni, sia pure soltanto di una manciata di noci o di mele, di un garofano o di un mazzetto di basilico; e la cura con cui gli si indica la via, accompagnandolo per un tratto e augurandogli buona fortuna. 

(Patrick Leigh Fermor, Mani. Viaggi nel Peleponneso, Adelphi)

martedì 24 settembre 2013

Mani, libro perfetto per chi sogna la Grecia

Sono le cose strane dell'editoria: nel giro di un niente Bruce Chatwin viene tradotto in Italia e diventa un autore di culto (oggi un po' meno), oggetto della venerazione di tutti gli appassionati di letteratura di viaggio; lo stesso non succede con Patrick Leigh Fermor, altro scrittore viaggiatore inglese, a mio parere ancora più grande e autentico di Chatwin, in ogni caso maestro e amico di quest'ultimo. Poco importa che Chatwin debba molto a Fermor: siamo ancora alle prese con il  Che ci faccio qui? del primo e trascuriamo il secondo.

C'è modo di rimediare. Cominciando magari con Mani, forse il libro più bello di questo singolare inglese che percorse interi continenti a piedi. Mani, cioé uno dei più aspri e inaccessibili lembi di Grecia, penisola del Peloponneso che penetra nell'Egeo. Roccia e mare e popoli antichi che non hanno mai ceduto di un palmo dinanzi a qualsiasi esercito che ha provato ad assoggettarli. Un mondo a parte.

Perfetto da leggere in un viaggio in Grecia - io l'ho divorato a Creta. Perfetto per chi comunque sogna questa terra che, volenti o nolenti, fa parte della nostra storia e prima ancora del mito che ci ha reso ciò che siamo. Perfetto per abbandonarsi alla luce e alle ombre del Mediterraneo, per cullarsi ai venti che rendono meno torride le estati, per respirare gli odori della macchia mediterranea e della salsedine. Perfetto per abbracciare le storie che arrivano da lontano e ancora ci appartengono - ereditate con le parole di Omero e di tutti gli altri.

E poco importa se anche la Grecia di Fermor non è più la nostra Grecia... o forse sì, se anche a noi, come a Fermor, capiterà in dono di incantarsi, ascoltando due pastori parlare come saggi di Bisanzio o guardando un cameriere indicare l'isola di cui raccontò Omero. 

giovedì 9 febbraio 2012

Il viaggiatore che parlava solo di se stesso

Parlo eternamente di me

Così afferma perentoriamente Francois-Auguste de Chateaubriand nell'introduzione al suo Itinerario da Parigi a Gerusalemme, pubblicato nel lontanissimo 2011, libro che molti indicano come inizio della letteratura di viaggio moderna, capostipite di una genealogia che nel tempo ci regalerà i Chatwin, i Bouvier, i Leigh Fermor.

E come nota Stenio Solinas nel suo bel libro (Da Parigi a Gerusalemme, Vallecchi) su questo nobile fuori dal tempo e dalla storia, che seppe essere diplomatico della Francia reale e vagabondo senza una meta, Chateuabriand era certo uno molto pieno di sè. Di lui il perfido Talleyrand assicurava:


Da quando non sente più parlare della sua gloria, si è convinto di essere sordo

Eppure la nostra letteratura di viaggio nasce proprio da lì, da quel parlo eternamente di me, somma vanità dell'uomo che si mette in viaggio. E che si permette di parlare dei paesi che incontra parlando solo di se stesso.

Eppure è così: prima c'erano i diari di bordo, i resoconti scentifici, i cataloghi naturalistici, le relazioni. Dopo c'è l'uomo, c'è lo scrittore, che sta nel mondo che attraversa, che lo racconta attraverso i suoi sguardi e le sue emozioni.

Perché il viaggio è questo: scoprire incidentalmente il mondo scoprendo se stessi.

mercoledì 14 settembre 2011

Un ragazzo inglese in cammino per l'Europa

Cambiare panorama: abbandonare Londra e l'Inghilterra e andare in giro per l'Europa come un vagabondo... Ad un tratto, questa non era solo una cosa ovvia, era l'unica da fare

Non ha nemmeno vent'anni e deve fare già i conti con una vita di promesse mancate e di macerie, Patrick Leigh Fermor, quando prende la decisione che la vita gliela cambierà sul serio, portandolo sulla strada giusta, quella che porta lontano.

E' il 1933, dicembre - la peggiore stagione, in effetti, per partire. Munito solo di uno zaino da alpinista, di un cappotto dell'esercito, di un passaporto che lo certifica come studente (senza denunciarne i fallimenti) e di tante buone letture alle spalle, Fermor lascia l'Inghilterra e lascia le sue prime orme sui campi innevati dell'Olanda.

Un obiettivo: raggiungere a piedi Costantinopoli - allora si chiamava ancora così - seguendo il corso dei grandi fiumi della civiltà europea, il Reno e il Danubio. Un viaggio da chierico vagante, da nomade, da sognatore. A casa tornerà solo dopo diversi anni.

E che bello questo libro che racconta le storie, le persone, i paesi e i popoli della prima parte del viaggio, fino all'Ungheria. Intenso, raffinato, autentico.

Immergetevi in esso, con il bagaglio di pensieri più leggero che potete. Magari considerate solo la data: il 1933. L'Europa sospesa tra i due macelli della guerra mondiale. L'Europa che oggi non c'è più e quella che ancora resiste, forse.

I tedeschi sembrano ancora solo dei pacifici bevitori di birra, persi dietro i loro canti e le loro storie di gnomi e di principi, ma le camice brune di Hitler già proiettano le loro lugubri ombre. Non si contano i cimiteri militari, eppure Fermor può sorprendersi (e noi con lui), per la gentilezza e l'ospitalità che incontrerà per tutto il viaggio:

Sembrava che di ogni mondo mi toccasse in sorte la parte migliore

Quando l'ho finito non mi è nemmeno dispiaciuto, perché ho pensato ai passi che continuerò a fare con il seguito, sempre pubblicato da Adelphi. Per inciso, la stessa casa editrice di Bruce Chatwin. Ed è curioso che per tanto tempo ci si sia dimenticati di Fermor, per osannare Chatwin: che poi di Fermor si considerava, giustamente, quasi un discepolo.

lunedì 22 agosto 2011

Quello studente a piedi fino a Costantinopoli

Cambiare panorama: abbandonare Londra e l'Inghilterra e andare in giro per l'Europa come un vagabondo... Ad un tratto, questa non era solo una cosa ovvia, era l'unica da fare

Non ha nemmeno vent'anni e deve fare già i conti con una vita di promesse mancate e di macerie, Patrick Leigh Fermor, quando prende la decisione che la vita gliela cambierà sul serio, portandolo sulla strada giusta, quella che porta lontano.


E' il 1933, dicembre - la peggiore stagione, in effetti, per partire. Munito solo di uno zaino da alpinista, di un cappotto dell'esercito, di un passaporto che lo certifica come studente (senza denunciarne i fallimenti) e di tante buone letture alle spalle, Fermor lascia l'Inghilterra e lascia le sue prime orme sui campi innevati dell'Olanda.

Un obiettivo: raggiungere a piedi Costantinopoli - allora si chiamava ancora così - seguendo il corso dei grandi fiumi della civiltà europea, il Reno e il Danubio. Un viaggio da chierico vagante, da nomade, da sognatore. A casa tornerà solo dopo diversi anni.

E che bello questo libro che racconta le storie, le persone, i paesi e i popoli della prima parte del viaggio, fino all'Ungheria. Intenso, raffinato, autentico.

Immergetevi in esso, con il bagaglio di pensieri più leggero che potete. Magari considerate solo la data: il 1933. L'Europa sospesa tra i due macelli della guerra mondiale. L'Europa che oggi non c'è più e quella che ancora resiste, forse.

I tedeschi sembrano ancora solo dei pacifici bevitori di birra, persi dietro i loro canti e le loro storie di gnomi e di principi, ma le camice brune di Hitler già proiettano le loro lugubri ombre. Non si contano i cimiteri militari, eppure Fermor può sorprendersi (e noi con lui), per la gentilezza e l'ospitalità che incontrerà per tutto il viaggio:

Sembrava che di ogni mondo mi toccasse in sorte la parte migliore


Quando l'ho finito non mi è nemmeno dispiaciuto, perché ho pensato ai passi che continuerò a fare con il seguito, sempre pubblicato da Adelphi. Per inciso, la stessa casa editrice di Bruce Chatwin. Ed è curioso che per tanto tempo ci si sia dimenticati di Fermor, per osannare Chatwin: che poi di Fermor si considerava, giustamente, quasi un discepolo.

lunedì 8 agosto 2011

Quella straordinaria alba sui monti di Creta

Gli azzardi della guerra mi avrebbero fatto approdare in mezzo ai dirupi di Creta, durante l'occupazione, insieme a una banda di guerriglieri cretesi e a un generale tedesco che avevamo portato con noi tra le montagne, dopo averlo preso in ostaggio con un'imboscata tre giorni prima.


La guarnigione tedesca dell'isola era impegnata in una caccia spasmodica, ma per fortuna mal diretta. Furono giorni pieni di ansia e pericoli, e per il nostro ostaggio di sofferenza e angoscia. 


Durante una pausa nella caccia, ci svegliammo tra le rocce proprio mentre sulla cresta del Monte Ida spuntava un'alba straordinaria. Avevamo arrancato su per questa montagna negli ultimi due giorni, con la neve prima e poi con la pioggia. Guardando attraverso la vallata alla sua fiammeggiante cresta, il generale mormorò tra sè


Vides ut alta stet nive candidum
Soracte...


Era uno dei brani che conoscevo! Continuai da dove lui si era interrotto:

.... nec iamo sustineant onus
silvae laborantes, geluque
flumina constiterint acuto...


e via dicendo, fino alla fine, per le rimanenti cinque stofe.


Gli occhi azzurri del generale si erano spostati dalla cima della montagna ai miei - e quando finii, dopo un lungo silenzio, disse: "Ach so, Herr Major!". 


Era molto strano. Come se, per un lungo attimo, la guerra avesse cessato di esistere. 

Avevamo bevuto entrambi alle stesse sorgenti molto tempo prima; e tutto fu diverso tra noi per il resto del tempo passato insieme.



(da Patrick Leigh Fermor, Tempo di regali, Adelphi)

sabato 6 agosto 2011

Un'estate in compagnia del buon soldato

Ci sono libri che sembrano fatti apposta per i tempi più lunghi e indolenti per l'estate. E l'estate, almeno a volte, sembra fatta apposta per tuffarsi in uno di quei libri che non finiscono più - stile romanzi russi, per intendersi - quei libri così affollati di storie e personaggi che non basta leggerli, bisogna permettere che facciano parte delle nostre giornate, che le colorino con le loro parole.

Questo per me è stato Il buon soldato Svejk, di Jaroslav Hasek. Un'estate di qualche anno fa con queste pagine mi sono ritrovato nella Praga dell'impero asburgico, raccontata dopo la fine di quell'impero. Il piacere di questa lettura è stato tale che non ho cercato mai di dare a esso un senso.

Ma oggi una pagina di un libro che mi sta facendo buona compagnia - Tempo di regali di Patrick Leigh Fermor - mi ha consegnato qualche bella riflessione su Hasek - un personaggio in quella stessa Praga, genio eccentrico e bevitore incallito, appassionato di scherzi di cattivo gusto e riviste di raffinata cultura, alla gogna per bigamia e altri eccessi - e soprattutto su Svejk, la sua creatura, sorta di Sancho Panza in versione Mitteleuropa.

Svejk è un campione nell'arte di arrangiarsi, di cavarsela sempre e comunque. China la testa, si adatta, trova la scappatoia. Non si mai quanto faccia leva sull'astuzia e quanto voli basso con la sua ingenuità.

Dice Fermor:

Nel clima piuttosto conformista della nuova repubblica, Svejk parve una caricatura impresentabile del carattere nazionale. Ma non avevano motivo di preoccuparsi. Le forze con cui Svejk si misurava erano poca cosa rispetto ai pericoli mortali odierni. Ma a venirci in soccorso, oggi, è l'ispirazione della sua ombra, inoppugnabile e anticonvenzionale

Dalla Boemia all'Italia, non è poi così distante la storia del soldato Svejk. E del suo paese.

sabato 4 giugno 2011

Se è Omero che potrà salvarci

La guerra, per un attimo, era sembrata lontanissima. Molto tempo prima, avevamo bevuto alla stessa sorgente....

Che straordinaria occasione nel bel mezzo del massacro, quel giorno sotto il sole di Creta,  lo sguardo a scendere giù per le rocce fino al mare che era stato lo stesso mare di Odisseo. Il generale nazista e l'uomo che lo ha fatto prigioniero. E in mezzo una manciata di versi che arrivano dal mondo classico e che, per un istante, segnano la possibilità di una tregua.

E' con questo ricordo da Tempo di regali di Patrick Leigh Fermor (Adelphi) che comincia una bellissima pagina su Tuttolibri di Silvia Ronchey, titolo Omero, solo tu ci salverai. Dice, Silvia Ronchey:

L'antico sospende il tempo, l'eterno sconfigge la storia
Il classico, spiega Silvia Ronchey, sconfigge quelle che Braudel chiamava le increspature di superficie, le mode passeggere, gli appetiti più o meno devastanti, gli eventi che sembrano cambiare tutto e che invece svaniscono, lasciando quello che c'era prima.

Per Marguerite Yourcenar amiamo il passato perché è il presente sopravvissuto nella memoria dell'umanità. Per Walter Benjamin un classico è tale e resiste lungo i secoli poiché in qualunque tempo sia stato scritto usa sempre la lingua del presente.

Dice ancora Silvia Ronchey:

I veri classici non fuggono, sfidano e sono sempre pericolosi. Un classico è sempre eversivo, sempre trasgressivo, sempre anticonformista... Non ha quindi senso chiederci se i classici antichi abbiano un futuro. Pe definizione, ci aiutano a scavalcare il presente, le sue effimere ideologie, i suoi dibattiti, gli schemi del nostro pensare. E in questo senso ci avvicinano, più ancora che al passato - a noi in effetti sempre inconoscibile - al futuro. 

Non  so se ne sono completamente convinto, ma anch'io voglio crederci


La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...