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mercoledì 12 febbraio 2020

Buenos Aires e lo scrittore fallito

Io tinsi il mio fallimento così come altri si tingono i capelli. Gli conferii la qualifica di elegante.

Chissà quanto ha messo di se stesso, Roberto Arlt, nelle pagine folgoranti di Scrittore fallito, racconto che dà il titolo alla raccolta pubblicata per Sur. Chissà quanto c'è dei suoi vent'anni e di un'Argentina al crocevia, della prospettiva di un successo imminente, della scrittura che non rende giustizia, delle sterili discussioni nei caffè animati da ambizioni e frustazioni, della letteratura che si fa critica, chiacchiera, diceria, malignità.

Certo lui grande fu davvero e questo racconto più gli altri che seguono ne sono buona testimonianza, assieme ai suoi romanzi, su tutti Il giocattolo rabbioso. Più grande di quanto, temo, sia oggi il suo ricordo almeno in Italia, più grande della sua parabola di vita, che fu troppo breve. 

Roberto Arlt, ovvero l'uomo ai margini, lo sguardo laterale, il carattere difficile, l'autodidatta, il ragazzo ribelle che abbandonò la famiglia, si ingegnò in diversi mestieri, visse le strade di Buenos Aires.

E Buenos Aires c'è tutta in queste pagine, città che non ho mai attraversato con i miei passi e che pure mi sembra così familiare, città che vive tra le pagine come poche altre al mondo. Grazie ad Arlt ancora una volta ho incontrato le sue voci, i suoi umori, le sue storie.

martedì 7 aprile 2015

Scrivere di pirati, immaginare il vero

Non solo per chi ha divorato un libro come la Vera storia del pirata Long John Silver, scervellandosi sulle ragioni per cui viene di fare il tifo per uno dei peggiori delinquenti che hanno solcato gli oceani. E nemmeno solo per coloro che amano entrare nel retrobottega degli scrittori, per carpirne segreti e manie.

In realtà Diario di bordo di uno scrittore (Adelphi) di Bjorn Larsson può essere raccomandato anche a chi con questo scrittore non ha una particolare confidenza. Sarà che è diverse cose insieme e sfugge a ogni definizione: biografia, saggio letterario, backstage dei libri con cui Larsson si è fatto conoscere, soprattutto in Italia.

Molte cose ci sono in questo libro: le correnti che muovono in profondità l'ispirazione, le vele gonfie del vento dell'immaginazione, i lampi che accendono la notte con qualche buona idea....

Scrivere è un po' come navigare, afferma Larsson. E non è una frase molto originale, benché sia di un uomo che di professione voleva fare il geologo marino e che sulle navi ha vissuto per anni. Eppure c'è l'idea della navigazione, in questo libro.

E la scrittura è davvero sciogliere gli ormeggi, puntare la prua, disegnare una rotta. Attraversare quel mare che è la realtà. Magari per scoprire che la letteratura non deve per forza appiattirsi sul vero. Può anche immaginarselo il vero, scoprire le possibilità dentro la realtà. Scommettere sulle cose che esistono, ma anche su quelle che potrebbero esistere o esisteranno.

Larsson è uno di quelli che ha scommesso. E che più volte ci ha dato. 

mercoledì 19 febbraio 2014

Diventare scrittore per andare al Giro d'Italia

Sì, ma se non potevo diventare un corridore, come lo facevo io il Giro d'Italia?

Non mi sono fatto prendere dal panico e ho buttato giù una lista di modi alternativi: magari potevo guidare un'auto della carovana, solo che gli autisti erano tutti ex corridori, e se non riuscivo a diventare un ciclista era molto difficile diventare un ex. 

Allora forse potevo fare il massaggiatore, ma l'idea di toccare le cosce nude e sudate di altri uomini non mi piaceva tanto. E allora via col meccanico, il poliziotto, il giudice, l'elicotterista... infinite erano le vie per arrivare al Giro.

E l'unica che non mi è mai venuta in mente è quella che alla fine mi ci ha portato davvero.

Ma in effetti all'epoca non l'avrei mai detto che al Giro poteva servire uno scrittore. Non sapevo nulla di libri, anzi, l'unica cosa che sapevo era che non mi piacevano.  Ne avevo letto uno solo, il "Giro del mondo in 80 giorni", e mi aveva annoiato così tanto che gli 80 giorni mi erano sembrati 80 secoli. 

E allora come potevo immaginare che altri libri, scritti da me, mi avrebbero portato dalla noia di quel giro del mondo alla gioia del Giro d'Italia?

(Fabio Genovesi, Tutti primi sul traguardo del mio cuore, Mondadori)

sabato 15 febbraio 2014

Il grande Yeats: come ho cominciato a scrivere?

Come ho cominciato a scrivere?

Non ho nulla da dire che possa essere d'aiuto a un giovane scrittore, tranne che spero che i suoi inizi non siano simili ai miei.

Passavo più tempo a preparare i compiti del giorno dopo rispetto alla maggior parte degli altri scolari, eppure non imparavo niente. Ero sempre l'ultimo della classe, fatta eccezione per due o tre figuri che difficilmente avrebbero mai imparato qualcosa. 

Mio padre diceva: "Non riesci a concentrarti se non su ciò che ti interessa. E ciò che ti interessa è studiare un modo per non farti mandare a scuola".

Non soffrivo di quello che si chiama "temperamento poetico", ma di una certa debolezza psicologica. 

Poeti molto più grandi di me sono stati grandi studenti. Anche oggi lotto contro questa mancanza di fiducia - venuta dall'umiliazione di quei giorni  - ogni volta che mi trovo fra uomini comuni, perché capisco ciò che loro capiscono.

(William Butler Yeats, Sono diventato un autore, Mattioli 1885)

domenica 5 gennaio 2014

Paul Auster e il suo iniziale fallimento

Fino allora, la mia unica ambizione era stata quella di fare lo scrittore. Lo avevo stabilito da quando avevo sedici o diciassette anni, e non mi ero mai illuso che avrebbe potuto darmi da vivere.

Fare lo scrittore non è una "scelta di carriera", come fare il medico o il poliziotto. Più che sceglierlo, ne vieni scelto, e una volta constatato che non sei adatto a fare nient'altro, ti devi preparare a percorrere per il resto della vita una strada lunga e difficile.

A meno di scoprirti un favorito degli dèi (e peste colga chi vi fa affidamento), il tuo lavoro non ti procurerà mai abbastanza per mantenerti, e se ci tieni ad avere un testo sopra la testa e non morire di fame, è meglio che ti rassegni, per pagare conti e bollette, a fare un altro lavoro.

Lo capivo, ero preparato, non avevo rimostranze.

 (Paul Auster, Sbarcare il lunario. Cronaca di un iniziale fallimento, Einaudi)

giovedì 22 agosto 2013

Non perdete la promessa dell'alba

Non mi sento colpevole. Ma se tutti i miei libri sono pieni di appelli alla dignità, alla giustizia, se vi si parla tanto dell'onore di essere uomini, forse è perché ho vissuto, fino all'età di ventidue anni, del lavoro di una donna vecchia, malata e spossata. Gliene voglio ancora, per questa ragione.

Anche a prescindere dalla sana invidia che provo per la scrittura di Romain Gary e dall'incanto di molte delle sue pagine. A rendere imperdibile La promessa dell'alba può bastare questa donna che sembra racchiudere dentro di sè tutta la tenacia dell'amore e la capacità di allagare il mondo con i suoi sogni. Trovatelo un altro personaggio così, nella varietà della letteratura planetaria: e in effetti è davvero difficile inventarselo, può essere solo vero.

Il libro, in effetti, ruota tutto intorno alla figura della madre di Romain, ebrea lituana che dopo la Rivoluzione fugge col figlio in Francia. E' sola e senza mezzi, ma sa già quale futuro dovrà spettare a Romain. Aviatore, diplomatico, scrittore. Non può essere che la Francia tradisca le attese, così come non può essere che la Francia sia invasa dalle truppe di Hitler. Così sicura che a certi dettagli - se dettagli sono - è il caso di provvedere per tempo.

Bisogna trovare uno pseudonimo, disse con fermezza, un grande scrittore francese non può portare un nome russo. Se tu fossi un virtuoso del violino andrebbe molto bene, ma per un titano della letteratura francese non va...

E chi l'avrebbe detto. E' proprio quello che è successo. La certezza del sentimento, è evidente, può resistere più e meglio della Linea Maginot. Il resto è solo la fatica di un figlio per non tradire le aspettative di una madre che aveva perso tutto se non un'idea di futuro.




domenica 26 maggio 2013

Lo scrittore non ve lo perdonerà mai

Lo scrittore è vanesio come... un uomo.

Parlate pure male di sua madre o del colore dei suoi capelli, ditegli pure che ha un accento amsterdamese (cosa che uno di Amsterdam non ammetterà mai): queste cose forse ve le perdonerà; ma guardatevi dal toccare anche solo in superficie il più piccolo elemento accessorio di qualcosa che riguardi il suo modo di scrivere, perché questo non ve lo perdonerà mai.

Se dunque non trovi bello il mio libro, se per caso un giorno c'incontrassimo, fai come se non ci conoscessimo.

(Multatuli, da Max Havelaar, Iperborea edizioni)

lunedì 25 marzo 2013

Philip Roth, che il suo Nobel lo vinse in New Jersey

Mica facile intervistare il più grande scrittore vivente, o quello che comunque ha tutti i titoli per passare per tale, alla vigilia dei suoi 80 anni suonati.  

Il dolore di essere Philip Roth, pubblicato su uno degli ultimi numeri della Lettura del Corriere della Sera, è un cocktail perfetto di stupore o complicità. Ma prima ancora dell'intervista mi piace ciò che dice Livia Manera. Per esempio sull'intenzione dichiarata da Roth di non scrivere più.

Roth non ha smesso di scrivere. Si è liberato dell'obbligo di scrivere. Ha archiviato un impegno ossessivo con se stesso da cui sono nati 31 libri in 60 anni. Ma di qui a diventare un ex scrittore ce ne corre.

In realtà pare che, nonostante abbia raggiunto un'età che sembra un numero civico, non sia mai stato così di buon umore: liberarsi di questo fardello gli deve essere servito.

Tanto che chiedere di più?

Ha anche vinto ogni premio desiderabile su questa terra, incluso il Nobel che non gli hanno ancora dato. E' successo nell'ottobre 2005, una settimana dopo l'assegnazione del premio a Harold Pinter.

A esaltarlo era stata la cerimonia in cui gli avevano intitolato la strada in cui era nato. "Newark oggi è la mia Stoccolma - aveva detto Roth - e questa targa è il mio premio".

Forse alcuni dei vecchietti della cerimonia di Newark, in New Jersey, questa cosa di Stoccolma non l'avevano afferrata. Ma che dire di Philip Roth?

venerdì 21 dicembre 2012

David Grossman: "Io invece voglio affondare con lui"

Nel 2006 è morto mio figlio Uri, soldato. E io ero perso, vuoto, esiliato da tutto e tutti.

La mia vita era deformata, non c'era più nulla di garantito, né più nulla da riparare. Stavo seduto senza trovare le parole.

Poi ho pensato che io vivo nella letteratura, è un dono, è un privilegio: e le parole hanno una loro magia, sanno essere ironiche, fantasticare anche nei momenti peggiori.

Ma tornando a Freud, che anch'io stimo come scrittore, la psicanalisi se vede un uomo annegare corre a salvarlo, io invece voglio affondare con lui. 

Per me scrivere è questo, è affrontare intensamente le emozioni, non sfuggirle, e così mi sono ributtato nel mio mondo.

Le parole non mi riporteranno Uri, ma io ho scelto l'arte di scrivere e devo andare avanti. 

(David Grossman, da Repubblica, Non ci lasceranno senza parole

giovedì 28 giugno 2012

Quando si è tagliati fuori dalla storia in comune

Cosa significa davvero quella fine dell'umanesimo a cui tanto di frequente scrittori e intellettuali vari fanno riferimento?

Può darsi che come per altre espressioni usate e abusate la sostanza sia poca e il fumo tanto. Ma se si vuol giocare a carte scoperte, fa pensare la traduzione che di questa espressione tenta Antonio Scurati nel suo La letteratura dell'inesperienza. Scrivere romanzi al tempo della televisione (Bompiani):



Fine dell'umanesimo significa non poter più vivere con i propri morti. Fine dell'umanesimo significa essere esclusi dalla comunione con i morti. Essere tagliati fuori dalla storia che abbiamo in comune.



Ecco, mi sa che è proprio così. Ciò che è intimamente dell'uomo comporta radici, legami con il nostro passato, appartenenza che ci proietta nel futuro. L'umanesimo, aggiunge Scurati, era il tentativo di stabilire una comunione di vita tra i vivi, i morti e perfino i non ancora nati.


Un ponte tra passato, presente e futuro. Cosa succede se viene meno questa comunione di vita?



E che senso ha il lavoro di uno scrittore se questo ponte si sgretola?

mercoledì 23 maggio 2012

Amos Oz, che di sera distrugge cosa scrive di mattina


Un grande scrittore? Quasi sempre un uomo che trascorre il tempo indossando i suoi personaggi. A volte un uomo che non ha paura a distruggere la sera ciò che la mattina ha inventato. Raramente anche un uomo che si avventura nel deserto, qualunque cosa sia quel deserto.

Questo almeno quanto ho imparato leggendo la splendida intervista di Francesco Battistini ad Amos Oz, pubblicata da La Lettura del Corriere della Sera. Com'è la giornata di un grande scrittore come Amos Oz?

Una routine assoluta. Mi sveglio alle 5, cammino mezz'ora nel deserto. E' un isolato da qui. Silenzio e solitudine. Poi torno a casa e bevo un caffè. E' una parte molto importante della mia giornata. Penso alle cose da scrivere, ai personaggi, alla vita, a quel che è importante. Il deserto è un grande maestro di vita. Poi mi siedo al tavolo e comincio a chiedermi "se fossi lui" o "se fossi lei"... Tutto il giorno immagino d'essere altre persone.... Scrivo la mattina. Il pomeriggio, spesso, distruggo quel che ho scritto la mattina.

Ho l'impressione che ci sia una relazione profonda tra il deserto e la scrittura di Amos Oz. Tra i suoi libri e quella vita trascorsa ai margini del nulla, in quel kibbutz il cui segretario un giorno gli disse:

Tu potrai anche essere Tolstoj, non dico di no, ma se qui tutti si sentono artisti, chi le munge le mucche?

sabato 21 aprile 2012

Antonio Tabucchi: cosa vuol dire essere scrittore

Essere scrittore non vuol dire solo maneggiare le parole.


Significa soprattutto stare attenti alla realtà circostante, alle persone, agli altri.


Ho l'impressione che se c'è una disattenzione da parte tua è perché stai facendo troppe cose e hai troppo fronti aperti. Questo rende frettolosi, e nuoce alla scrittura.


Una volta alla settimana chiuditi in camera tua, stacca il telefono e mettiti a fissare il muro per un pomeriggio. Senza fare nient'altro che fissare il muro.


E' un'ottima scuola di scrittura. Io lo faccio ancora oggi, alla mia età. Svuotati la testa; metti un disco di Schubert, apri a caso i "Dubliners" e vedrai che ti dimentichi di quello che sulla pagina culturale del "Corriere" Tizio ha scritto di Caio e cosa ha replicato Caio su "Io donna".

(Antonio Tabucchi)

venerdì 3 febbraio 2012

Lo scrittore e il dolce veleno della vanità

Uno scrittore non dimentica mai la prima volta che accetta qualche moneta o un elogio in cambio di una storia. 

Non dimentica mai la prima volta che avverte nel sangue il dolce veleno della vanità e crede che, se riuscirà a nascondere a tutti la sua mancanza di talento, il sogno della letteratura potrà dargli un tetto sulla testa, un piatto caldo alla fine della giornata e soprattutto quanto più desidera: il suo nome verrà stampato su un miserabile pezzo di carta che vivrà sicuramente più a lungo di lui. 

Uno scrittore è condannato a ricordare quell'istante, perché a quel punto è già perduto e la sua anima ormai ha un prezzo 

(Carlos Ruiz Zafòn, Il gioco dell'angelo, Mondadori)

venerdì 9 settembre 2011

L'Isola del tesoro nel letto di un bambino

C'è sempre qualcosa di sorprendente nella vita di un uomo che a un certo punto del suo cammino decide di vivere di scrittura. C'è sempre, anche nelle storie apparentemente più prevedibili, meno segnate da grandi eventi. Perché anche nelle biografie più rarefatte, c'è quello scarto, quella svolta, quel momento di luce che sta a monte di un grande libro.

Robert Louis Stevenson, per esempio. Scrittore che ci ha portato in dono il brivido dell'avventura, la possibilità di una giustizia che forse riuscirà a farsi largo anche attraverso il cozzo delle armi, l'emozione delle vele che si spiegano al vento per condurci fino ai Mari del Sud.

Com'è che nasce Stevenson scrittore? Lui che apparteneva a una solida famiglia di ingegneri e che avrebbe dovuto seguire le orme del padre, che peraltro faceva una delle cose più belle che possa mai fare un ingegnere, costruire fari.


Non troverete viaggi e imprese, prima dei suoi libri.


Troverete casomai una bambinaia, Alison, dotata di una fervida immaginazione e capace di trattenere l'attenzione dei bambini con una parola capace di dipingere storie. Troverete i tanti giorni che Smout (pesciolino, così lo chiamavano i genitori) era costretto a passare a letto, ammalato, dando briglia sciolta alla fantasia.


Un giorno racconterà di quel letto, in una delle sue poesie:


Per un'ora o giù di lì
guardavo i soldatini marciare variopinti
lungo le lenzuola, su per le colline.
E talvolta mandavo intere flotte
a solcare il lenzuolo 
o tiravo fuori alberi e case,
per creare città all'intorno


Così il letto di un bambino diventò il mondo intero. Così il mancato ingegnere dei fari scoprì la sua Isola del Tesoro.


martedì 12 luglio 2011

Pagina bianca, i dieci consigli di Margaret Atwood

Non so se ne abbiate mai sofferto e se, in ogni caso, per voi è un problema. Non so se avete altre strategie per sconfiggere la sindrome del foglio bianco. Però mi piace il decalogo contro il cosiddetto blocco dello scrittore che ci dona Margaret Atwood, una delle più grandi scrittrici viventi (ma evidentemente anche una persona che di tanto in tanto ha sofferto di questo blocco, come tutti del resto). 

Ve lo ripropongo con una netta predilezione per il consiglio sulla cioccolata e con molta curiosità per il modo con cui ognuno di voi esorcizza la paura della pagina bianca.


In molti continuano a chiedermi consigli circa il “blocco dello scrittore”. Ecco alcuni suggerimenti, un decalogo di pronto intervento.

1. Uscite a fare una passeggiata, fate il bucato, o mettetevi a stirare, o piantate dei chiodi. Andate a fare una nuotata in piscina, fate uno sport, qualunque cosa che richieda concentrazione e comporti una ripetuta attività fisica. Al limite: fate una bella doccia, o un bel bagno.

2. Prendete in mano il libro che rimandavate da tempo.

3. Scrivete, ma in qualche altra forma: anche una lettera, o una pagina di diario, o la lista della spesa. Lasciate che quelle parole fluiscano attraverso le vostre dita.

4. Formulate con precisione il vostro problema, e quindi andatevene a dormire. Il mattino dopo potreste avere la risposta.

5. Mangiate del cioccolato. Non troppo. Deve essere scuro (almeno il 60% o più di cacao), organico, biologico.

6. Se state scrivendo fiction: cambiate il tempo verbale (dal passato al presente, o viceversa).

7. Cambiate la persona (prima, seconda, terza).

8. Cambiate il genere (maschile/femminile).

9. Pensate al vostro libro in progress come a un labirinto. Avete incontrato un muro. Tornate al punto dove avete sbagliato direzione e ripartite da lì.

10. Non siate arrabbiati con voi stessi. Fatevi, anzi, un piccolo regalo di incoraggiamento.

Se nessuno di questi consigli fa effetto o funziona, mettete il libro in un cassetto. Potrete sempre tornarci su più avanti. E iniziate qualcosa d’altro.

giovedì 28 aprile 2011

Il grande Mordecai e il bambino che ripeteva tutto

E c'è anche Jacob Due Due, anzi Jacob Two Two, cioé il bambino costretto a ripetere ogni cosa due volte, perchè la prima non lo capisce nessuno. Non lo conoscevo, anche se credo sia piuttosto famoso tra i suoi coetanei, non fosse altro che per il cartone animato.

Il fatto è che è uscito dalla penna di uno degli scrittori che più mi sono cari, Mordecai Richler, l'autore de La versione di Barney, cioè uno di quei libri che se qualcuno mi facesse la domanda "che cosa ti porteresti dietro in un'isola deserta?", ecco, sarebbe proprio uno di quei libri.

Ma La versione di Barney non è solo un libro per adulti, è un libro che va letto con alle spalle il tempo della vita, un libro che ha bisogno delle lenti dell'esperienza. Come una cena da consumare dopo che all'aperitivo ci siamo serviti di tutti gli assaggi delle delusioni, delle infatuazioni, delle separazioni.

E invece ecco  Jacob Due Due. Leggo in un bel libro di Christian Rocca, Sulle strade di Barney (più che una biografia un atto di amore nei confronti del grande Mordecai) che Jacob è in realtà il più piccolo dei figli della famiglia Richler, Jacob, appunto, detto Jake.

Era lui che doveva ripetersi sempre, perché la prima volta che apriva bocca nessuno gli dava ascolto. Da grande Jacob lo spiegò in un'intervista, che fu trasmessa nel teatro di Montréal dove si ricordava il padre defunto. Solo che saltò tutto. Gli organizzatori dovettero penare per sistemare le cose e fecero ripartire l'intervista dall'inizio. Jaccob Due Due, appunto.

La cosa sarebbe senz'altro piaciuto a Mordecai. E a me piace che questo scrittore che tutti ricordano come uno dei più politicamente scorretti dei nostri tempi, poi potesse scrivere pagine così tenere per tutti i bambini.

lunedì 4 aprile 2011

Consolazione per lo scrittore mancato



Il primo libro sarebbe meglio non averlo mai scritto. 

Finché il primo libro non è scritto, si possiede quella libertà di cominciare che si può usare una sola volta nella vita, il primo libro già ti definisce mentre tu in realtà sei ancora lontano dall'esser definito; e questa definizione poi dovrai portartela dietro per la vita, cercando di darne conferma o approfondimento o correzione o smentita, ma mai più riuscendo a prescinderne.

(Italo Calvino, dalla prefazione del 1964 a Il sentiero dei nidi di ragno)

sabato 28 agosto 2010

Il silenzio è il lievito delle parole

L'altro giorno erano le maiuscole, l'epidemia di maiuscole che tanto fa male alle parole. Ma José Saramago dice anche cose molte belle sull'eccesso di parole. E sulla grande cura per liberarsene, il silenzio.

Il silenzio, per sua definizione, è ciò che non si ode. Il silenzio ascolta, analizza, osserva, pondera e valuta. Il silenzio è fecondo. Il silenzio è la terra scura e fertile, l'humus dell'essere, la muta melodia sotto la luce solare. Su di esso cadono le parole. Tutte le parole. Parole buone e parole cattive. Il grano e la zizzania. Però solo il grano dà il pane.

Sono assolutamente d'accordo. In genere le cose si dicono meglio per sottrazione, non per accumulo.

Le parole, dunque, sono seme che cade nel solco arato del silenzio. Ed è vero, se sono buone parole da esse cresce il grano che dà il pane. Aggiungo: anche dopo, il silenzio serve, perchè è il lievito delle parole.

Non ci sarebbe discorso, senza il silenzio. Così come non ci sarebbe musica senza le pause.

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