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venerdì 18 agosto 2017

Quando Stevenson disegnò una mappa e si inventò un'isola

Sulle sue pagine ho sognato fin da ragazzino, studiando la mappa dell'isola del tesoro o trattenendo il respiro per capire come sarebbe andata a finire con il dottor Jekyll e mister Hyde. E col tempo mi è venuto di considerarlo allo stesso modo di un amico che è andato ad abitare lontano.

Per pochi scrittori posso dire lo stesso e in genere appartengono alla mia adolescenza: Emilio Salgari, certo, Mark Twain, certo, per altri devo pensarci su. E come per Twain e Salgari anche la sua biografia mi ha appassionato come un romanzo: lui che sembrava destinato a costruire i fari e che invece l'irrequietezza e la tisi hanno consegnato a un altro destino, dalle brume della Scozia ai Mari del Sud.

Robert Louis Stevenson, sì, a cui sono debitore di tanti piaceri della lettura. E tuttavia non ero mai entrato nel laboratorio della sua scrittura, né tantomeno avevo avuto modo di leggere i suoi consigli di scrittura o comunque i suo saggi sulla letteratura, sulla buona letteratura.

Li ho trovati in quetso libriccino - L'arte della scrittura, edito da Mattioli 1885 - che è davvero un concentrato di piccoli grandi sorprese. Soprattutto quando Stevenson ci prende per mano e ci racconta come è arrivato a L'isola del tesoro.

Gli uomini - racconta  - nascono con le manie più varie: sin da piccolo, la mia era di trastullarmi immaginando degli eventi in successione e, appena imparai a scrivere, divenni un buon amico dei fabbricanti di carta.

Anni di tentativi senza successo, di fogli scarabocchiati e gettati via, di storie appena abbozzate. I primi saggi, gli articoli, ma un romanzo ancora no.

Chiunque può scrivere un racconto - un cattivo racconto; voglio dire, chiunque abbia sufficiente diligenza, carta e tempo; ma non tutti possono sperare di scrivere un romanzo, anche cattivo. E' la lunghezza che uccide. 

Poi un giorno, quasi per caso, per inseguire la fantasia o per ammazzare il tempo, su un pezzo di carta disegna una mappa. Follia pensare che un giorno sarebbe diventata la mappa più importante nella storia della letteratura - e lo so, c'è anche la mappa della Terra di Mezzo in Tolkien...

Mi dicono che ci sono persone alle quali non interessano le mappe, ma faccio fatica a crederlo. 

Già, faccio fatica anch'io. Come è possibile, se dentro una mappa come quella, appena schizzata, c'era già un intero romanzo? Il romanzo che avrebbe fatto la fortuna di Stevenson e di tutti noi, ragazzi e adulti che non hanno smesso di essere ragazzini.

lunedì 7 novembre 2016

Anderson, lo scrittore che ascoltò le voci del torrente

Erano venticinque anni che scrivevo, avevo pubblicato qualcosa fra i venti e i venticinque libri, mi ero fatto un nome come uno degli scrittori americani più importanti del mio tempo, i miei libri erano stati tradotti in varie lingue: eppure, con tutto ciò, ero sempre senza soldi, sempre a un passo o quasi dalla rovina.

Era destino che il paese che più di tutti gli altri ha trasformato la cultura in una gigantesca macchina per fare soldi fosse lo stesso paese che in maniera più realistica, direi anche più cruda, si è interrogata sui rapporti tra arte e mercato, tra creatività e successo. Ed è dagli Stati Uniti, non di oggi ma addirittura degli anni Trenta, che arriva un racconto perfetto per meditare su tutto questo.

Si chiama Le voci del torrente, porta la firma di Sherwood Anderson, autore che forse non è conosciuto come meriterebbe, non fosse altro che per i suoi Racconti dell'Ohio.

C'è molto della vita di Anderson in questo titolo riproposto da Il Melangolo: e questo ce le rende ancora più intrigante. Ma c'è molto anche di quello che vorremmo leggere e che soprattutto vorremmo ritrovare nel nostro mondo.

Pare scritto solo ieri. Ecco lo scrittore che si fa i conti in tasca e i conti non gli tornano e allora si piega alle richieste degli editor e dei direttori delle riviste che pagano profumatamente. Dovrà scrivere cose scorrevoli, gradevoli, accattivanti, cioé accomodanti. Cose che non disturbino, che vadano giù come acqua.

E lui inizia. Solo che poi si blocca. Si blocca e non va più avanti come un apparente buon senso gli imporrebbe. E sarà per quella notte insonne passata ad ascoltare i suoni del torrente vicino a casa. Sarà che tra quei suoni gli pare di scorgere anche i passi dei vecchi amici, le voci delle donne che ha amato. Ma con la luce del giorno, la nuova mattina, ha deciso:

Ero di nuovo deciso a non impormi, a lasciare che il racconto che stavo cercando di scrivere si scrivesse da sé, a essere ancora una volta ciò che ero senpre stato, uno schiavo degli abitanti del mio mondo immaginario.

Racconto dentro il racconto, ma soprattutto racconto che profuma di libertà.

Racconto come un antidoto, buono non solo per gli scrittori, ma per chiunque sia pronto ad arrendersi alle sirene di un sì troppo comodo.

Ps: Nella vita di Anderson, poi, le cose non andarono propriamente così. Un giorno si imbarcò per la Colombia, dove avrebbe dovuto tenere una conferenza a pagamento. Mangiando un panino inghiottì uno stuzzicadenti e morì di peritonite. Morte assurda, certo. Morte che è insieme esclamazione e irrisione. E mi sa che è meglio finirla qui.

domenica 25 settembre 2016

Stephen King e l'autobiografia del mestiere della scrittura


On writing. Autobiografia di un mestiere è il libro che non ti aspetti da parte di Stephen King, maestro del fantasy e dell'horror, l'autore che da decenni sbanca le classifiche di tutto il mondo, con le sue storie perfette anche per il cinema (solo Shakespeare l'ha battuto quanto ad adattamenti cinematografici).
ficile da catalogare,

Più facile dire cosa non è: ovvero non una vera un'autobiografia e tanto meno un manuale per aspiranti scrittori. O almeno non solo questo.

Certamente un libro bellissimo, affascinante, con cui l'uomo che ci ha regalato tanti brividi ora ci incanta con la magia: quella che trasforma le parole in una storia.

Un libro buono per chi si cimenti con la scrittura, ma anche per chiunque ami la lettura e voglia tornare ai suoi libri con uno sguardo più allenato, più consapevole, perchè ha acquistato confidenza con gli "attrezzi del mestiere".

Delle tre sezioni del libro – Curriculum vitae, La cassetta degli attrezzi, Sul vivere – emoziona soprattutto la terza. Il racconto di una rinascita dopo un terrificante incidente, di un ritorno alla vita grazie alla scrittura. E anche questo ha il suo significato.

A proposito, a vincere una certa mia ritrosia verso il campione dei best-seller è stato proprio il sottotitolo: "autobiografia di un mestiere". Scrittura insomma come qualcosa che se non può sostituirsi alla vita è in grado comunque di nutrire la vita. Ma soprattutto scrittura come mestiere, come lavoro, come fatica, come paziente tessitura di storie e di idee e di parole, il tutto cucito con l'ago della passione.

Ecco qui, c'è questo nel libro di King, ora riedito da Frassinelli, niente a che vedere con un manuale di scrittura creativa, per intendersi, o con qualche consiglio elargito dall'altro della cattedra...

Bello e spiazzante, davvero.

giovedì 24 marzo 2016

Con la forza delle parole, per non nascondersi

Non sono un'esperta nel maneggiare la vecchiaia, e neppure la morte. Lo sono - lo sono diventata - nel cercare vie d'uscita al dolore.

E' un libro di una triste dolcezza - o di una dolce tristezza - Così è la vita di Concita De Gregorio (Einaudi). Un libro sugli inevitabili addii, su ciò che passa, su noi stessi che, così è appunto la vita, passiamo. Un libro, in sostanza, sul tempo. Un libro per non nascondersi.

In un'epoca in cui la vecchiaia è qualcosa di cui vergognarsi - e da combattere col miraggio dell'eterna giovinezza e tanta chirurgia estetica - in un'epoca in cui la stessa morte pare qualcosa che è meglio rimuovere, fanno bene pagine così.

Le domande dei bambini, così imbarazzanti e così illuminanti, sono in realtà domande per tutti noi, ginnastica del cuore e della mente per imparare ad accettare e accettarsi.

Incredibile, ci può essere un viaggio tra ospedali e funerali che procede con passo lieve e una strana disposizione all'allegria. Dalla caducità delle nostre esistenze a ciò che davvero rimane. Dal senso di assenza a una sorprendente pienezza.

Grazie anche alla forza della scrittura, perché è anche attraverso di essa che s'impara a domare il dolore: nominandolo e così trasformandolo in forza. 



 

sabato 30 agosto 2014

Ti sembra importante, questa faccenda delle frasi

Perché scrivere?

Per comporre una certa frase, per finire una certa pagina.

Preoccuparsi delle frasi è un capriccio estetico, l'equivalente culturale del pizzicare la cetra mentre Roma brucia? Questa tesi non l'ho mai capita. Che altro ha a disposizione uno scrittore se non delle frasi? 

Chiedere a uno scrittore di non pensare alle frasi è come dire a un costruttore di non preoccuparsi della qualità dei mattoni.

Perché scrivere?

Perché ti sta a cuore questa faccenda delle frasi: ti sembra importante.

E le vuoi scrivere alla tua velocità da lumaca, con tutta la complicata attenzione che meritano.

Non è solo una cosa degli scrittori: in tutto il mondo la gente sta cominciando a capire la natura rivoluzionaria delle dimensioni ridotte e della lentezza. Del fare le cose con le proprie mani. Del prendersi il tempo che serve. Delle vite su scala umana.

Sono tutti modi di rivendicare le nostre capacità di esseri umani in un mondo che spesso ci vede esclusivamente come produttori o consumatori.

(Zadie Smith, Perché scrivere, Minimum Fax)

sabato 23 agosto 2014

Faccio il poeta, anzi no, l'avvocato

"Quando mi siedo davanti al computer, mi coglie la disperazione!" è una cosa molto letteraria da dire.

"Quando mi siedo davanti al computer mi sento inutile" è, secondo me, un'affermazione un po' più vicina alla verità. Perché ci sono poche cose che possano far sentire più ridicoli, in questo anno del signore 2011, del sedersi a tavolino a scrivere un "romanzo".

No, in realtà eccone una: sedersi a tavolino e scrivere una poesia.

Il ruolo dello scrittore è diventato assurdo. Forse i lettori non se ne sono ancora accorti, ma gli scrittori lo avvertono intensamente. Conosco un poeta che, se gli si chiede cosa fa nella vita, risponde "L'avvocato" anche se non lavora come avvocato da più di dieci anni. 

Gli sembra che starsene in una stanza di Londra, nel 2011, e dire "Faccio il poeta" sia come dire "Accendo i lampioni a gas" o "Sono il banditore del villaggio".

(Zadie Smith, Perché scrivere, Minimum Fax)

venerdì 11 luglio 2014

Il grande Raymond e le forbici dell'editor

"Tu credi di raccontare una cosa. In realtà, ne racconti dieci nello stesso tempo. Deve essere l'alcool".
"E se fosse quello che descrivo? Gli effetti dell'alcool?"
"Tu hai qualcosa da dire, ma troppe parole per dirlo. E a quel punto arrivo io".

Dedicato a tutti coloro che nella propria libreria hanno riservato un posto particolare a Raymond Carver - come del resto il sottoscritto. Ma non sono a loro, perchè in realtà Forbici di Stéphane Michaka (Edizioni Clichy) non può non catturare tutti coloro che nei libri cercano i segreti degli stessi libri.

Gli strani percorsi della creatività, la scrittura come inferno e paradiso, i meccanismi del successo editoriale, le inesauribili complicazioni del rapporto tra le opere e la vita... tutto questo e anche altro ho ritrovato in questo libro sorprendente che gira intorno al grande Raymond e delle persone che molto hanno contato nei suoi pochi anni.

Sono uno scrittore. Cioè, spero di diventarlo. 

E' questo il demone che agita la vita di Raymond, unica certezza tra molti incubi e fiumi di alcool. Lo ha deciso a soli 15 anni: sarà Hemingway, o nient'altro. E sarà nient'altro, sembra. Chi potrà mai scommettere su di lui? Il sogno americano e i suoi cocci, quasi una sentenza senza appello.

Poi c'è quell'editor che decide di pubblicarlo. Ma sono davvero suoi i suoi racconti? Suoi o dell'editor che a forza di tagli lo imporrà per quello che è e non è mai stato, il maestro del minimalismo?

E ci sono anche le due donne della vita, c'è la maledizione del bere, c'è la maledizione della malattia quando il peggio sembra ormai alle spalle, quando una nuova vita si spalanca...

Da leggere, questo libro singolare, spiazzante. Che raccomando anche per i quattro racconti che intervallano la narrazione, o piuttosto si intrecciano alla narrazione, in un vertiginoso gioco di corrispondenze tra la vita e la scrittura. Racconti così squisitamente carveriani, del resto....

lunedì 23 giugno 2014

Il tempo senza lavoro e la parola per ripartire

Non a caso si dice posto di lavoro. "Ho cambiato posto", "Qui sono a rischio dei posti di lavoro", "Ho perso il posto". Avere un posto di lavoro è anche avere un posto nel mondo.

E dunque prima di tutto c'è il disastro. L'azienda dove hai lavorato per una vita che ha smesso di pagarti. E quindi il lavoro che finisce, perché quell'azienda chiude e lascia dietro di sè un cumulo di macerie che hanno a che vedere con i conti dell'economia ma anche con i bilanci delle esistenze, di molte esistenze.

E ci sono tanti lavoratori che con il posto di lavoro hanno perso anche un posto nella vita. Che con la cassa integrazione hanno ritrovato una possibilità di tempo che non avevano mai avuto, solo che non sanno che farsene di questo tempo. Più facile abbandonarsi sul divano di casa, come un naufrago al relitto. Più facile abbandonarsi a un senso di colpa che fa più male perchè è una colpa che non si spiega.

Ecco, prima di tutto c'è questo. Però poi c'è un sindacalista un po' a modo suo, che forse non sa bene che fare dopo che è finito il periodo della lotta, ma sa che qualcosa va fatto. C'è l'idea che al sindacato non serva solo un delegato sindacale, ma anche, chiamiamolo così, un delegato sociale, capace di fare i conti anche con la sofferenza delle persone e del modo con cui questa sofferenza si intreccia con il lavoro (e il non lavoro).

E c'è questa idea strampalata. Di costruire tra gli ex lavoratori una sorta di gruppo di auto aiuto - nemmeno fossero alcolisti anonimi. Di farli incontrare con uno come Massimo Cirri, che non è solo la voce di Caterpillar, è anche un uomo che per un quarto di secolo ha lavorato nei servizi pubblici di salute mentale. Uno che al primo incontro viene presentato come il "nostro psicologo" e la cosa perfino la disturba. C'è silenzio, a quel primo incontro, c'è l'aria che si taglia con il coltello di quando non si sa bene perché si è dove si è. Finchè arriva il pianto di una lavoratrice che scioglie qualcosa. E molte altre cose si mettono in movimento.

Poi c'è quest'altra idea strampalata. Di fare scrivere i lavoratori. Magari con l'aiuto di Elena Varvello della Scuola Holden. Mancava solo una scuola di scrittura, assieme alla Camera del Lavoro e a uno come Massimo Cirri. Eppure funziona. Non sarà il lavoro, ma l'idea che un futuro ci può essere. Perfino il tempo della cassa integrazione non è più il tempo del lavoro perso, ma un tempo che in qualche modo va speso e speso bene.

Da tutto questo ne è venuto fuori un libro - Il tempo senza lavoro (Feltrinelli) - nel quale Massimo Cirri, incidentalmente ma non tanto, ci spiega come l'Italia ai tempi d'oro dell'Olivetti aveva saputo proporre il primo personal computer del mondo. L'Ibm era schiantata di invidia. Ma più che la concorrenza era stata l'Italia stessa a liquidare un settore - l'informatica - che pareva non avesse futuro. Meglio le macchine da scrivere.

Ma insomma, questa è un'altra storia. Il libro è da leggere per questo: perché è una storia sulla parola che racconta e svela, che alleggerisce e cura.

lunedì 31 marzo 2014

Se Raymond Carver temeva di non saper insegnare

Se Carver nutriva dubbi sulla possibilità di insegnare a scrivere, non ha però mai dubitato che si potesse "imparare" a scrivere. Dopotutto, aveva imparato anche lui: lo studente mediocre che veniva dal cuore rurale dello Stato di Washington ha imparato a scrivere la raffinata prosa che ha indotto i critici del Daily Telegraph di Londra a definirlo "il maestro del racconto americano moderno".

Così scrivono i curatori de Il mestiere di scrivere di Raymond Carver (Einaudi), un libro prezioso che raccoglie interventi, saggi, lezioni di scrittura creativa, istruzioni per l'uso del grande Raymond, dalla prima all'ultima riga una decisa smentita al dubbio di cui sopra: timido com'era, impacciato nel ruolo di docente, con la sensazione di trovarsi quasi sempre fuori posto, Carver non era solo uno che aveva imparato a scrivere. Era anche una persona che sapeva insegnare - per quanto ovviamente si possa insegnare a scrivere - e questo faceva generosamente, senza risparmiarsi.

E allora c'è tutto Raymond, in queste pagine. Da leggere per raccogliere qualche buon consiglio, ma ancora di più per avvicinarsi ancora di più a questo grande della letteratura americana. E per approfondire il rapporto tra scrittura, linguaggio e vita quotidiana, in un autore di cui Jay McInerney affermava:

Un aspetto di quello che Carver sembrava dirci - anche a chi di noi non era mai entrato in una segheria o un un parcheggio per case mobili - era che la letteratura può essere ricavata da una rigorosa osservazione della vita reale, dovunque e comunque vissuta, anche se con una bottiglia di ketchup Heinz sul tavolo e il continuo ronzio di fondo del televisore.


lunedì 30 dicembre 2013

Nabokov, lo scrittore che inseguiva le farfalle

Non esiste scienza senza fantasia, nè arte senza fatti.

Così diceva il grande Vladimir Nabokov, autore di Lolita e di molto altro, senz'altro conosciuto come scrittore, ma assai meno come grandissimo esperto di farfalle. Passione, quest'ultima, che certo non è stata inferiore a quella per la letteratura. Tanto che i primi anni del suo esilio americano non scrisse praticamente nulla, tutto preso com'era a cercare, identificare e classificare farfalle. O ad ammirarle alla collezione entomologica del museo di storia naturale di Harvard.

Tutto ciò mi affascina in un modo che mi riesce difficile descrivere, così confessava Nabokov, di fatto lasciando che gli affascinanti segni neri che popolano la carta si inchinassero alla straordinaria bellezza di un altro mondo che appatiene alla dimensione del "piccolo".

Pare che sul letto di morte Nabokov si sia lasciato scappare qualche lacrima. Stava per cominciare il periodo di volo di una farfalla particolarmente amata, che non avrebbe avuto più modo di vedere.

Mi piace quest'amore per le farfalle, assai più grande e più autentico, mi pare, per l'amore che può sprigionare qualsiasi capolavoro della letteratura. 


giovedì 18 luglio 2013

Italo Calvino: scrivere è togliere peso

Dopo quarant'anni che scrivo fiction, dopo aver esplorato varie strade e compiuto esperimenti diversi, è venuta l'ora che io cerchi una definizione complessiva per il mio lavoro; proporrei questa: la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio.

In questa conferenza cercherò di spiegare - a me stesso e a voi - perché sono stato portato a considerare la leggerezza un valore anziché un difetto; quali sono gli esempi tra le opere del passato in cui riconosco il mio ideale di leggerezza; come situo questo valore nel presente e come lo proietto nel futuro...

(da Italo Calvino, Lezioni americane, Oscar Mondadori)

lunedì 29 aprile 2013

Erri De Luca e la scrittura come dono

 
Per me la scrittura è un dono, che mi faccio a prezzi modici.

Che possa esserlo anche per lo sconosciuto che legge, resta per me una sorpresa, mai potrò abituarmi.

E' uno di quegli scambi, incontri di fortuna, improvvisati, a distanza, come versare vino in un bicchiere lontano.

(da Erri De Luca, Alzaia, Feltrinelli)

martedì 9 aprile 2013

Raymond Chandler e le tre regole dell'umiltà

Era un grande, un grandissimo, Raymond Chandler, il maestro del romanzo hard-boiled, il babbo di quel Philip Marlowe che ho imparato a sognare con le espressioni e i movimenti di Humphrey Bogart, ma che, a mio parere, è ancora più avvicente se lo lascio prendere vita dalla pagina.

E' un grande, ed è uno di quei grandi che viene voglia di conoscere anche per quello che è stato anche nella vita, senza paura di esserne deluso. Un grande anche nell'umiltà. Sentite in che modo faceva entrare nel suo laboratorio di scrittura:


Come scrittore con vent'anni di esperienza professionale ho incontrato ogni genere di persona. Quelli che dicono di saperne di più sulla scrittura sono proprio quelli che meno sanno scrivere. Meno fai caso a loro e meglio è. Così ho inventato tre leggi per scrivere a mio proprio uso, che sono assolute: non seguire mai i consigli. Non mostrare mai il lavoro svolto né discuterne. Non rispondere mai a un critico.

Tre regole che portano al silenzio. Alla solitudine figlia dell'umiltà, non alla solitudine di chi respira alto perché si è innalzato sul suo piedistallo. Tre regole che mi piacciono.

mercoledì 25 gennaio 2012

La scrittrice da bambina e il brutto anatroccolo

Non sono giovane e penso anche di non essere una scrittrice.

Così dice di sé Milena Agus, all'inizio di questo piccolo intelligente libriccino, Perché scrivere (senza punto interrogativo), pubblicato da una piccola intelligente casa editrice come Nottetempo.

E non è vero, quello che Milena Agus afferma, anzi, nega di sè. Siamo di fronte a una delle migliori voci della narrativa italiana, anche se il successo è arrivato a sorpresa, in una storia che sa quasi di fiaba.

Però non è questo che conta. Milena Agus ci prende per per mano e ci accompagna nel suo laboratorio di scrittura, spiegandoci come ha cominciato a scrivere e che cosa questo significa per lei. Senza che questo abbia a che vedere con i soliti consigli per aspiranti scrittori.

Piuttosto è bello inseguire le sue parole di scrittrice - e di donna che si intuisce incline alla ritrosia sui fatti personali - e con lei ritrovare la Milena bambina, quando i libri erano il rifugio e il sogno di un'età difficile.

Scrivere aveva il sapore di libertà di un'adolescente che non sapeva fare niente di quello che sapevano fare gli altri e perciò provava a rifarsi in questo modo, scrivendo e vergognandosi di scrivere, equilibrista in una prova che era facile presumere che non sarebbe riuscita a portare a termine.

E oggi, oggi la scrittura, così dice, è ancora la tana che si porta dentro. Però questa storia è anche una bella versione della metamorfosi del brutto anatroccolo.

Che dopo tanto penare ora può concedersi uno scatto di orgoglio:

Scrivo come mangio: mi abbuffo e poi mi pento che nel piatto non sia rimasto nulla.

giovedì 17 novembre 2011

E quello che succedeva in Asia, quelle spaventose carneficine... non me ne sono accorta che molto più tardi. Ma non c'è un mattino, da tanti anni a questa parte, in cui, alzandomi, io non pensi prima di tutto allo stato del mondo per partecipare, condividere per un istante la sofferenza universale. Pure, a volte, nonostante questo, si riesce a essere felici, ma è un'altra specie di felicità

Diffido, in genere, dai libri intervista agli scrittori. E pensare che questo è anche piuttosto corposo, altro che pochi capitoletti giusto per fissare un cammino intellettuale, una visione del mondo o una giratina più o meno frettolosa nel laboratorio di scrittura di un autore.

Ma Ad occhi aperti -  volume, edito da Bompiani, che raccoglie le conversazioni di Matthieu Galey con Marguerite Yourcenar - è molto di più e ci restituisce pienamente il fascino, la complessità, la singolarità di questa scrittrice.

Conversazioni appunto. E sembra quasi di vederli, i due, nella veranda di Petite-Pleasance, la casa dell'isola dell'Atlantico, davanti alla costa del Maine, che la Yourcenar aveva scelto di abitare. Casa di silenzi, di gesti antichi come fare il pane in casa, di parole distillate dalle letture.

Diceva la grande Marguerite:

Molti si raccontano meno di quanto non si ripetano

Certamente non è il suo caso. 

lunedì 5 settembre 2011

"Hai ottenuto una frase meravigliosa - tagliala"

Georges Simenon, uno dei grandissimi della letteratura europea, probabilmente non ha mai avuto bisogno di grandi consigli in relazione alla sua scrittura, eppure anche lui di uno fece tesoro. Glielo regalò Colette, allora caporedattrice della sezione letteraria a Le Matin. E il consiglio in realtà era anche una critica a due racconti che Simenon aveva presentato al giornale:


Sono troppo letterari, sono sempre troppo letterari...

Ma come? Esiste il pericolo di fare troppa letteratura?

Cosa significhi davvero questo consiglio Simenon lo spiega in una straordinaria intervista del 1955 a Carvel Collins, oggi ripubblicata da Fandango in The Paris Review. Interviste. Cosa c'è di troppo letterario?, chiede Collins  (e chiederemmo anche noi) Simenon risponde:

Aggettivi, avverbi, e ogni parola che è lì solo per fare effetto. Ogni frase che è lì solo per la frase. Hai ottenuto una frase meravigliosa - tagliala. Ogni volta che trovo una cosa del genere in uno dei miei romanzi la devo tagliare

Credo di aver capito. Letterario è ciò che appartiene solo alla sfera del bello scrivere. Ciò che non racconta davvero.

Simenone era grande perché in ogni rigo doveva pulsare la storia, la vita. Era grande non per quello che scriveva, ma per quello che riusciva a tagliare.

venerdì 26 agosto 2011

Erri De Luca e la lingua profonda a prima vista

Delle lingue - che conosco poco - non mi affascina solo ciò che con esse è possibile dire, ma il modo in cui lo dicono. Mi piace la storia che c'è dietro le parole, la visione del mondo che presiede le forme e le regole. Dev'essere lo stesso fascino che Erri De Luca sente suo quando si occupa dell'ebraico antico - che lui conosce bene. Lingua di scritture sacre, lingua di cui parla anche ne Le sante dello scandalo (Giuntina), prima di entrare nella sua storia di prostitute e traditrici tanto importante per il racconto biblico.

Erri De Luca ci racconta per esempio che nell'ebraico ci sono verbi maschili e verbi femminili. Forme speciali separano i due sessi. E quando, nelle traduzioni, leggiamo "non ammazzare", in realtà l'ebraico dice un "non ammazzerai" rivolto a un tu maschile. Come se fosse un dato di fatto che uccidere è cosa di uomini, pressoché in esclusiva.

Dice Erri De Luca che le lettere ebraiche sono femminili. Sono come le cellule di un albero, l'albero (maschile) della Torà.


Perciò è vivo e mette fuori getti nuovi a ogni lettura, in ogni generazione. Perfino la scrittura sacra, l'ambito più strettamente maschile, è costituito di vita femminile grazie alle lettere

Poi cita una frase di von Hofmannstahl, che piace molto anche a me:


La profondità va nascosta. Dove? In superficie

E aggiunge:

L'ebraico è profondo a prima vista

Mi piacciono le lingue di cui si possa dire così.

martedì 12 luglio 2011

Pagina bianca, i dieci consigli di Margaret Atwood

Non so se ne abbiate mai sofferto e se, in ogni caso, per voi è un problema. Non so se avete altre strategie per sconfiggere la sindrome del foglio bianco. Però mi piace il decalogo contro il cosiddetto blocco dello scrittore che ci dona Margaret Atwood, una delle più grandi scrittrici viventi (ma evidentemente anche una persona che di tanto in tanto ha sofferto di questo blocco, come tutti del resto). 

Ve lo ripropongo con una netta predilezione per il consiglio sulla cioccolata e con molta curiosità per il modo con cui ognuno di voi esorcizza la paura della pagina bianca.


In molti continuano a chiedermi consigli circa il “blocco dello scrittore”. Ecco alcuni suggerimenti, un decalogo di pronto intervento.

1. Uscite a fare una passeggiata, fate il bucato, o mettetevi a stirare, o piantate dei chiodi. Andate a fare una nuotata in piscina, fate uno sport, qualunque cosa che richieda concentrazione e comporti una ripetuta attività fisica. Al limite: fate una bella doccia, o un bel bagno.

2. Prendete in mano il libro che rimandavate da tempo.

3. Scrivete, ma in qualche altra forma: anche una lettera, o una pagina di diario, o la lista della spesa. Lasciate che quelle parole fluiscano attraverso le vostre dita.

4. Formulate con precisione il vostro problema, e quindi andatevene a dormire. Il mattino dopo potreste avere la risposta.

5. Mangiate del cioccolato. Non troppo. Deve essere scuro (almeno il 60% o più di cacao), organico, biologico.

6. Se state scrivendo fiction: cambiate il tempo verbale (dal passato al presente, o viceversa).

7. Cambiate la persona (prima, seconda, terza).

8. Cambiate il genere (maschile/femminile).

9. Pensate al vostro libro in progress come a un labirinto. Avete incontrato un muro. Tornate al punto dove avete sbagliato direzione e ripartite da lì.

10. Non siate arrabbiati con voi stessi. Fatevi, anzi, un piccolo regalo di incoraggiamento.

Se nessuno di questi consigli fa effetto o funziona, mettete il libro in un cassetto. Potrete sempre tornarci su più avanti. E iniziate qualcosa d’altro.

domenica 19 giugno 2011

Se la malattia dona il vizio della scrittura

Dici business e sembra che concetti come etica e speranza siano clandestini appena sbarcati. C'è bisogno di sguardi diversi, più penetranti, per capire che ci può essere un altro modo per vivere le aziende e le istituzioni - e a questo servono i libri di Pier Luigi Celli.

Nel suo Le virtù deboli (Apogeo edizioni), però, ho trovato quello che non mi aspettavo. Un'ultima pagina che a suo modo dà un senso a tutte le precedenti e vale l'intera lettura.

Pier Luigi Celli - il manager umanista - confessa la sua malattia: e già questo è sorprendente, l'uomo di potere che si mette a nudo raccontando ciò per cui il potere non serve. Il tumore gli arriva così:


Mi sono ammalato senza accorgermene. Pensavo ad altro. Avevo molte cose da fare...

Poi fa riferimento a due dolorose operazioni e spiega l'alternativa che si è trovato di fronte:

Quando succede, c'è solo da decidere se cedere alla sventura o ribellarsi. A scegliere mi ha aiutato, oltre alla famiglia com'era naturale, il vecchio vizio della scrittura

Quel vizio è un dono. E' la possibilità che troppe volte si era negato quando pensava ad altro. Diventa terapia, diventa vita oltre la preoccupazione per la sopravvivenza:


Nel corpo a corpo con la malattia, prendere la penna e dettare le condizioni per il mondo che vorrai è come fare con se stessi il patto di non arrendersi: c'è sempre qualcosa in più da pensare; qualcosa che merita di essere scritto. E tu hai bisogno di tempo

Parole da incidere nella vita. Abbiamo bisogno di tempo. Abbiamo bisogno di scrittura.


giovedì 20 gennaio 2011

Gli imperdonabili che arrivano dalla Francia

Con la narrativa francese - così come con il cinema - di tanto in tanto mi capita. Grande attesa per il titolo consacrato dalla critica e magari anche dal pubblico - succede assai più spesso che da noi - il senso di un'opera che mette il coltello nella piaga, che regala uno sguardo diverso, che dovrà stupire per cinismo o per leggerezza, per intensità o per indifferenza, e poi, alla resa dei conti, eccoci alle prese con qualcosa che tutto sommato riesce più insipido di ogni aspettativa.

Con gli Imperdonabili di Philippe Djian mi è andata proprio così. Mi aspettavo di più. E non che la storia non sia intrigante, che i personaggi non incuriosiscano, che non siano importanti i temi che affronta - dal tradimento all'incapacità di perdonare e lasciarsi alle spalle il passato fino al difficile intreccio tra vita e scrittura - ma alla fine il gioco non funziona. Sarà che è tutto un po' risaputo...

Rimangono - mica è poco - le atmosfere di questa Francia atlantica. Rimangono pagine sull'impotenza della letteratura, sull'incapacità della letteratura di redimere la vita.... E anche questo non è poco..

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...