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giovedì 24 settembre 2015

Con Tex. Con Sandokan. E con tutti gli altri

Vorrei assistere davvero alla loro partenza. Vedere una nave che stacca gli ormeggi e abbandona quella nostalgia di pietra che è il molo, come diceva il grande Fernando Pessoa. Vorrei osservarli bene mentre dal ponte osservano tutti noi farsi più piccoli, interrogandosi su quanto si stanno lasciando indietro: forse altre persone che misteriosamente erano anche loro stessi, prima.

E già che ci sono vorrei che con loro ci fossero anche altri amici che mi hanno tenuto compagnia.
 

Magari Tex che in qualche modo ho sempre considerato l’altro fratellino di Sandokan, benché porti la stella dei rangers, non la lama del pirata. E perché no, anche Corto Maltese, il marinaio, l’avventuriero irrequieto di quell’altro sognatore praticante che è stato Hugo Pratt.
 

Per tutti loro mi rifarei di nuovo ragazzino orgoglioso di cantare a squarciagola la sigla di uno sceneggiato.

Scorre il sangue... nelle vene
Forte vento... nella notte calda si alzerà!
Sandokan! Sandokan!
Giallo il sole la forza mi dà
Sandokan! Sandokan!
dammi forza ogni giorno ogni notte il coraggio verrà...

E sarei davvero più forte, sarei più coraggioso. Riacciufferei quanto ho perso nel cammino.

Anche Emilio, ora. Emilio che scorgo mentre si gira verso Odoardo e gli sorride, una buona volta. E che si permette anche una frase lieve, che sa di amicizia. 


La prossima volta nei Caraibi? C’è un certo corsaro nero che merita di conoscere…
 

Li saluterò per l’ultima volta, libero da ogni rimpianto. Poi forse, girandomi per tornare a casa, mi tornerà in mente una di quelle vecchie illustrazioni, con Sandokan sul ponte della nave abbracciato a una giovane principessa malese.
 

E l’ aurora ci trovò sul ponte del praho, pallidi e commossi, recitava la didascalia.
 

A guardare per bene quel Sandokan superbo era proprio lui.
 

Era Emilio. Era Odoardo. Ero io.

(da Paolo Ciampi, I due viaggiatori, Mauro Pagliai editore)

giovedì 24 novembre 2011

Carlo Lucarelli e quello che successe in Africa

Ci sono molte, forse troppe cose, ne L'ottava vibrazione di Carlo Lucarelli, che è insieme romanzo storico e quasi-giallo, storia di avventura e forse anche noir. Molte, forse troppe cose, anche se in realtà non penso ai generi e alla loro contaminazione - sempre gradita per quanto mi riguarda.

Penso piuttosto ai mille tasselli della narrazione, alla frenetica successione di personaggi e situazioni che ricordano il montaggio rapido anzi nervoso di un film, penso a una trama corale e complessa, anche se poi i mille torrenti si riuniscono nel grande fiume che ha un solo sbocco possibile, la terribile sconfitta di Adua, la peggiore che un esercito coloniale abbia mai subito in terra d'Africa.

Molte, forse troppe cose, ma poi quello che rimane è in primo luogo una successione di sensazioni: il sole abbacinante di Massaua, le voci e i colori di una città coloniale, il passo delle esercitazioni militari, il silenzio che cala sui morti della battaglia.

Miseria e sensualità, parabole individuali e tragedie della storia. Molte, forse troppe cose: e pensare che Carlo Lucarelli, in appendice, ci accompagna anche nel "retrobottega" di questo libro, scopre le carte in tavola e ci racconta come il libro è nato e cresciuto.

E dunque, un giorno, vicino ad Arezzo, un incontro con l'autore, uno dei tanti. Un lettore che si alza in piedi e gli chiede: cosa sta scrivendo? E lui che forse avrebbe potuto rispondere: forse ancora niente. E che invece si lascia scappare: un romanzo ambientato in Eritrea, prima di Adua.

Mette i brividi pensare che c'è stato dopo, la fatica della documentazione, lo studio, la costruzione dell'intreccio intorno ai fatti della storia.

Io mi ci sono ritrovato un po' a casa, in questa Eritrea, sarà per il lavoro che ho fatto su Odoardo Beccari, scienziato esploratore, che solo una ventina di anni prima ci raccontò queste terre. Ma allora eravamo ancora all'inizio del sogno coloniale. Adua lo avrebbe seppellito, tranne poi scatenare la macchina delle rimozioni e della cancellazione delle responsabilità - il destino cinico e baro, no?

Lucarelli ci aiuta anche a ricordare tutto questo, contro le amnesie che per Adua hanno funzionato, come no, pensare che è una storia italiana, una storia che racconta come siamo stati e cosa siamo ancora.

sabato 8 ottobre 2011

Dare nomi, la grande consolazione


(da Paolo Ciampi, I due viaggiatori, Mauro Pagliai editore)

Mi capita anche di ripensare spesso a una bella frase di Elias Canetti:

Dare un nome alle cose è la grande e seria consolazione concessa agli umani
 

Dare un nome: è questo il lavoro di chi lavora alla conoscenza del mondo. Lo fa il naturalista, come il geografo. Lo fa l’esploratore, magari immergendosi nei nomi degli altri, accettando il rischio della differenza e dell’equivoco. 

Cosa, quest'ultima, di cui Odoardo sarà sempre ben consapevole. Su di essa dirà anche cose importanti. Come quando un giorno veleggerà verso Papua, un viaggio terribile, sfibrante, con la febbre alta e la milza a fargli vedere le stelle. Riuscirà comunque ad accorgersi che le carte nautiche riportano due isole, Jackson e Pulo Snapam, che in realtà sono la stessa cosa. 


Viziaccio dei cartografi, questo, di voler ribattezzare i posti con i nomi di generali, santi e principesse, invece che accontentarsi dei nomi sotto i quali sono conosciuti dai nativi. È così che si finisce per prendere lucciole per lanterne. E non è solo accademia, perché ci sono anche sbagli che ti portano dritto su uno scoglio o un banco di sabbia.
 

Dare nomi: cioè scovarli, attribuirli, ripeterli, ascoltarli, lasciarli risuonare. A pensarci è proprio questo che ha fatto anche Emilio, nella sua vita di capitano ormeggiato in biblioteca. Il suo modo di organizzare la varietà e la complessità che c’è in terra.
 

Ha scritto una volta Pietro Citati:
 

Il dono maggiore di Salgari fu proprio quello di credere ciecamente e inconsciamente nella suggestione delle parole che aveva trovato nei vocabolari.

giovedì 14 luglio 2011

Era Emilio. Ero Odoardo. Ero io


(Da I due viaggiatori, Mauro Pagliai editore)

Vorrei assistere davvero alla loro partenza. Vedere una nave che stacca gli ormeggi e abbandona quella nostalgia di pietra che è il molo, come diceva il grande Fernando Pessoa. Vorrei osservarli bene mentre dal ponte osservano tutti noi farsi più piccoli, interrogandosi su quanto si stanno lasciando indietro: forse altre persone che misteriosamente erano anche loro stessi, prima.
 

E già che ci sono vorrei che con loro ci fossero anche altri amici che mi hanno tenuto compagnia.
 

Magari Tex che in qualche modo ho sempre considerato l’altro fratellino di Sandokan, benché porti la stella dei rangers, non la lama del pirata. E perché no, anche Corto Maltese, il marinaio, l’avventuriero irrequieto di quell’altro sognatore praticante che è stato Hugo Pratt.
 

Per tutti loro mi rifarei di nuovo ragazzino orgoglioso di cantare a squarciagola la sigla di uno sceneggiato.
Scorre il sangue... nelle vene
Forte vento... nella notte calda si alzerà!
Sandokan! Sandokan!
Giallo il sole la forza mi dà
Sandokan! Sandokan!
dammi forza ogni giorno ogni notte il coraggio verrà...

E sarei davvero più forte, sarei più coraggioso. Riacciufferei quanto ho perso nel cammino.

Anche Emilio, ora. Emilio che scorgo mentre si gira verso Odoardo e gli sorride, una buona volta. E che si permette anche una frase lieve, che sa di amicizia. 


La prossima volta nei Caraibi? C’è un certo corsaro nero che merita di conoscere…
 

Li saluterò per l’ultima volta, libero da ogni rimpianto. Poi forse, girandomi per tornare a casa, mi tornerà in mente una di quelle vecchie illustrazioni, con Sandokan sul ponte della nave abbracciato a una giovane principessa malese.
 

E l’ aurora ci trovò sul ponte del praho, pallidi e commossi, recitava la didascalia.
 

A guardare per bene quel Sandokan superbo era proprio lui.
 

Era Emilio. Era Odoardo. Ero io.

mercoledì 8 dicembre 2010

Quando viaggiavo in compagnia di Emilio Salgari

Ecco, così inizia I due viaggiatori (Mauro Pagliai editore), parole per sognare con il grande Emilio.


Come da piccolo, quando una febbre vera, oppure dichiarata e generosamente riconosciuta, mi liberava dalla scuola. Non erano brutte giornate, quelle, però non filavano mai. Le ore erano un cargo appesantito che risale la corrente e chissà se e quando arriverà a destinazione.

Chiunque l'abbia detto aveva ragione: i decenni volano via, sono certi pomeriggi che non finiscono più.
E la televisione non era mica come ora, che a ogni momento c’è il cartone animato, il supereroe alle prese con i mali del mondo, la partita del campionato brasiliano. A parte L’isola dei Gabbiani e Avventura – da brividi la sigla, Joe Cocker con She came in through the bathroom window – tutto era di una noia mortale. Corsi di tedesco per principianti, lezioni sui principi della termodinamica, documentari sulle api o sul baco da seta, cose così insomma.
Meno male che c’erano i libri. Meno male che c’era Emilio Salgari.

Se il tempo passava e non passava, per farlo passare meglio avevo molti amici che si erano raccolti intorno a me per tenermi compagnia. Sandokan e quella simpatica canaglia di Yanez. Tremal-Naik e tutti i tigrotti di Mompracem. Il Corsaro Nero e la bella Jolanda.

Leggevo, in giornate così. Leggevo finché la testa faceva male, le righe ballavano sotto gli occhi, le pagine diventavano una macedonia di lettere. Se perdevo il segno era un problema ritrovarlo, perché la pagina girata si confondeva con quella ancora non letta. Tanto era un pezzo che la storia aveva abbandonato il libro.
Oppure no, ero io che avevo abbandonato quella stanza e già veleggiavo verso Maracaibo, sempre che non mi fossi perso tra i coccodrilli del delta del Gange.

A un certo punto il libro scivolava dalle ginocchia, le palpebre si abbassavano a saracinesca. Me ne andavo via, sul serio.
A volte mi portavo dietro una manciata di parole. A volte erano loro a inseguirmi, come un’eco. Parole tipo quelle del fratellino Yanez.

Noi non siamo uomini da condurre una vita tranquilla. Siamo invecchiati fra le urla di guerra dei malesi e dei dayachi ed il fumo delle artiglierie, e rimpiango sempre Mompracem.

Sapete, hanno continuato a risuonarmi anche molti anni più tardi, queste parole. Anche quando mi sono ormeggiato a una scrivania con computer e ho insediato la mia Tortuga in una bella casa di un quartiere residenziale. Noi non siamo uomini da condurre una vita tranquilla. Anche quando ho messo su pancetta e famiglia, quelle parole.

E come è vero, rimpiango sempre Mompracem.
La rimpiango e la cerco ancora sulla mappa dei miei sogni.

mercoledì 24 novembre 2010

Ancora pagine per sognare con Emilio Salgari

I due viaggiatori
Alla scoperta del mondo con Odoardo Beccari ed Emilio Salgari

C’è Odoardo, l’uomo che abbraccia il mondo con la sua irrequietezza, con la sua voglia di conoscere popoli e continenti, di toccare con mano. Il battito di ali di una farfalla sconosciuta vale più di una cattedra universitaria. Dategli una foresta vergine e si sentirà al settimo cielo. La sua giovinezza è tutta qui.

E c’è Emilio, l’uomo che se ne rimane a casa, però è attratto da tutto quanto è remoto, sconosciuto, distante. Un nome che profuma di esotico è quanto basta per giocare con i sogni. E lui no, ma i suoi personaggi attraversano tutti i continenti, si muovono per spirito di avventura, di scommessa, di sfida.

Odoardo Beccari ed Emilio Salgari. L’esploratore e lo scrittore. Lo scienziato e l’inventore di storie. L’uomo che ha toccato il mondo con mano e l’ufficiale di marina mancato.

Così diversi, ma anche così simili. Il viaggiatore in carne e ossa, che calpesta il mondo con i suoi piedi. Il viaggiatore della fantasia, per cui l’avventura non presuppone uno spazio fisico, ma solo gli orizzonti che la mente può scorgere.

I due modi di viaggiare. E chissà chi è andato più lontano.

mercoledì 21 aprile 2010

Era ora, Sandokan torna in Malesia


E' una buona notizia per tutti coloro che hanno sognato e viaggiato sulle pagine del grande Emilio e magari hanno lasciato il loro cuore a Mompracem (l'ho letta sulla Stampa, ma per la segnalazione sono debitore a Danila Comastri Montanari): finalmente I pirati della Malesia saranno tradotti in malese.

Insomma, Sandokan torna a casa, o perlomeno riprende a scorrazzare per i suoi mari.

La traduzione di Salgari - la prima in malese - sarà pronta proprio per il centenario dello scrittore di Verona e sarà presentata in occasione del Kuala Lampur International Book Fair.

Tutto questo mi riporta in mente quando, diversi anni fa, andai in Borneo sulle orme di Emilio, senza trovare nessuno che ne avesse sentito parlare. Trovai invece un fiorentino, di nome Odoardo Beccari (nella foto), straordinaria figura di scienziato-viaggiatore.

Ne venne fuori un libro, Gli occhi di Salgari. Che buffi, però, quei giorni nel caldo appiccoso di Kuching, la capitale del Sarawak, a contemplare la palazzina di James Brooke, il rajà bianco, e a chiedere a tutti: per caso conoscete un tale Emilio Salgari? Conoscevano Totti e Del Piero, ma Salgari proprio no.

domenica 9 agosto 2009

Tutto solo nella giungla del Borneo

More about Gli occhi di SalgariOggi, tornando dai boschi dell'Appennino al mio appartamento di città, mi è tornato alla mente Odoardo Beccari, un personaggio poco noto in Italia, di più all'estero, come spesso accadde. Si tratta di uno dei più straordinari "scienziati-viaggiatori" della nostra storia ed è nato poco lontano da dove abito io. Solo che di lui ho sentito parlare per la prima volta solo in Borneo. Delle sue imprese, delle sue scoperte, del modo in cui i suoi resoconti hanno finito per ispirare Emilio Salgari magari vi parlerò un'altra volta. Oggi Beccari mi è venuto in mente per il modo con cui riusciva a stare perfettamente a suo agio anche abitando la foresta vergine, poco importa se si trattasse delle terre dei tagliatori di teste. Da un mio libro di alcuni anni fa ("Gli occhi di Salgari", Polistampa) vi riporto un piccolo brano della sua vita nella giungla... credo che possa essere di insegnamento, a tutti noi abitatori della giungla di città.


In questo modo Odoardo incomincia una vita quale forse non si è mai immaginato, ma che è perfettamente consona al suo temperamento. Le giornate scorrono serene e operose. L’Italia sembra ancora più lontana, confinata su un altro pianeta, forse in un’altra epoca. Beccari è cittadino della giungla negli stessi mesi in cui si combatte la guerra contro l’Austria. Di Lissa e di Custoza, delle umiliazioni patite dall’esercito italiano, dell’orgogliosa reazione dei garibaldini non gli arriva nulla. Il suo è davvero un mondo a parte: e non lo scambierebbe per l’altro.
Eccolo, il nostro Beccari stile Robinson Crusoe, non fosse per il cuoco cinese, preziosissimo, e per i ragazzi malesi che lo aiutano nella raccolta e nella preparazione delle collezioni. Veste semplicemente, libero da tutte le affettazioni europee: un paio di pantaloni e una corta giacchetta di rigatino. In testa un cappello cinese di bambù. In genere gira scalzo, abitudine presa a Kuching quando i suoi piedi si sono piagati per le mignatte. Solo per i giri più lunghi usa le scarpe di tela, senza calze.
La mattina presto se ne va per la foresta, rinnovando in continuazione il suo stupore per lo straordinario banchetto di specie animali e vegetali ancora ignote che essa gli propone: il massimo cui possa aspirare uno scienziato che alla vita accademica preferisce sempre l’esperienza diretta.
Il pomeriggio è dedicato a sistemare le raccolte, ai disegni, agli appunti. La capanna è anche un laboratorio, modesto, rudimentale, ma efficiente, al cui interno giorno dopo giorno si accumula un materiale gigantesco, per cui sbaveranno i musei di mezzo mondo.
Occupazione importante della giornata diventa la preparazione dei pasti. Nei pressi il fiorentino si è fatto costruire un pollaio. Per gli altri approvvigionamenti spedisce di tanto in tanto a valle qualcuno dei suoi uomini. In ogni caso il menù è praticamente fisso: pollo lesso con riso. Tra le poche alternative, qualche bucero fatto fuori e cucinato alla diavola, sulle stesse graticole su cui vengono seccate le piante.
È una vita semplice, essenziale, ridotta all’osso. Una vita che, paradossalmente, riempie Odoardo per sottrazione. E intendo sottrazione di pensieri, fastidi, ambizioni, bisogni. Perché risolvere il problema del fuoco, così come dell’acqua, vale più dell’oro.

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...