Vorrei assistere davvero alla loro partenza. Vedere una nave che stacca gli ormeggi e abbandona quella nostalgia di pietra che è il molo, come diceva il grande Fernando Pessoa. Vorrei osservarli bene mentre dal ponte osservano tutti noi farsi più piccoli, interrogandosi su quanto si stanno lasciando indietro: forse altre persone che misteriosamente erano anche loro stessi, prima.
E già che ci sono vorrei che con loro ci fossero anche altri amici che mi hanno tenuto compagnia.
Magari Tex che in qualche modo ho sempre considerato l’altro fratellino di Sandokan, benché porti la stella dei rangers, non la lama del pirata. E perché no, anche Corto Maltese, il marinaio, l’avventuriero irrequieto di quell’altro sognatore praticante che è stato Hugo Pratt.
Per tutti loro mi rifarei di nuovo ragazzino orgoglioso di cantare a squarciagola la sigla di uno sceneggiato.
Scorre il sangue... nelle vene
Forte vento... nella notte calda si alzerà!
Sandokan! Sandokan!
Giallo il sole la forza mi dà
Sandokan! Sandokan!
dammi forza ogni giorno ogni notte il coraggio verrà...
E sarei davvero più forte, sarei più coraggioso. Riacciufferei quanto ho perso nel cammino.
Anche Emilio, ora. Emilio che scorgo mentre si gira verso Odoardo e gli sorride, una buona volta. E che si permette anche una frase lieve, che sa di amicizia.
La prossima volta nei Caraibi? C’è un certo corsaro nero che merita di conoscere…
Li saluterò per l’ultima volta, libero da ogni rimpianto. Poi forse, girandomi per tornare a casa, mi tornerà in mente una di quelle vecchie illustrazioni, con Sandokan sul ponte della nave abbracciato a una giovane principessa malese.
E l’ aurora ci trovò sul ponte del praho, pallidi e commossi, recitava la didascalia.
A guardare per bene quel Sandokan superbo era proprio lui.
Era Emilio. Era Odoardo. Ero io.
(da Paolo Ciampi, I due viaggiatori, Mauro Pagliai editore)
E già che ci sono vorrei che con loro ci fossero anche altri amici che mi hanno tenuto compagnia.
Magari Tex che in qualche modo ho sempre considerato l’altro fratellino di Sandokan, benché porti la stella dei rangers, non la lama del pirata. E perché no, anche Corto Maltese, il marinaio, l’avventuriero irrequieto di quell’altro sognatore praticante che è stato Hugo Pratt.
Per tutti loro mi rifarei di nuovo ragazzino orgoglioso di cantare a squarciagola la sigla di uno sceneggiato.
Scorre il sangue... nelle vene
Forte vento... nella notte calda si alzerà!
Sandokan! Sandokan!
Giallo il sole la forza mi dà
Sandokan! Sandokan!
dammi forza ogni giorno ogni notte il coraggio verrà...
E sarei davvero più forte, sarei più coraggioso. Riacciufferei quanto ho perso nel cammino.
Anche Emilio, ora. Emilio che scorgo mentre si gira verso Odoardo e gli sorride, una buona volta. E che si permette anche una frase lieve, che sa di amicizia.
La prossima volta nei Caraibi? C’è un certo corsaro nero che merita di conoscere…
Li saluterò per l’ultima volta, libero da ogni rimpianto. Poi forse, girandomi per tornare a casa, mi tornerà in mente una di quelle vecchie illustrazioni, con Sandokan sul ponte della nave abbracciato a una giovane principessa malese.
E l’ aurora ci trovò sul ponte del praho, pallidi e commossi, recitava la didascalia.
A guardare per bene quel Sandokan superbo era proprio lui.
Era Emilio. Era Odoardo. Ero io.
(da Paolo Ciampi, I due viaggiatori, Mauro Pagliai editore)
Penso piuttosto ai mille tasselli della narrazione, alla frenetica successione di personaggi e situazioni che ricordano il montaggio rapido anzi nervoso di un film, penso a una trama corale e complessa, anche se poi i mille torrenti si riuniscono nel grande fiume che ha un solo sbocco possibile, la terribile sconfitta di Adua, la peggiore che un esercito coloniale abbia mai subito in terra d'Africa.
Molte, forse troppe cose, ma poi quello che rimane è in primo luogo una successione di sensazioni: il sole abbacinante di Massaua, le voci e i colori di una città coloniale, il passo delle esercitazioni militari, il silenzio che cala sui morti della battaglia.
Miseria e sensualità, parabole individuali e tragedie della storia. Molte, forse troppe cose: e pensare che Carlo Lucarelli, in appendice, ci accompagna anche nel "retrobottega" di questo libro, scopre le carte in tavola e ci racconta come il libro è nato e cresciuto.
E dunque, un giorno, vicino ad Arezzo, un incontro con l'autore, uno dei tanti. Un lettore che si alza in piedi e gli chiede: cosa sta scrivendo? E lui che forse avrebbe potuto rispondere: forse ancora niente. E che invece si lascia scappare: un romanzo ambientato in Eritrea, prima di Adua.
Mette i brividi pensare che c'è stato dopo, la fatica della documentazione, lo studio, la costruzione dell'intreccio intorno ai fatti della storia.
Io mi ci sono ritrovato un po' a casa, in questa Eritrea, sarà per il lavoro che ho fatto su Odoardo Beccari, scienziato esploratore, che solo una ventina di anni prima ci raccontò queste terre. Ma allora eravamo ancora all'inizio del sogno coloniale. Adua lo avrebbe seppellito, tranne poi scatenare la macchina delle rimozioni e della cancellazione delle responsabilità - il destino cinico e baro, no?
Lucarelli ci aiuta anche a ricordare tutto questo, contro le amnesie che per Adua hanno funzionato, come no, pensare che è una storia italiana, una storia che racconta come siamo stati e cosa siamo ancora.