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martedì 24 luglio 2018

In cammino dietro i venti selvaggi

Ma da dove vengono i venti, e dove vanno? E si può davvero dire che "vanno" nello stesso senso in cui chi cammina va da qualche parte, o una strada da un posto all'altro? E se così è, che fine fanno una volta che ci sono arrivati?



Nick Hunt non si limita a porsi domande del genere, che già non sarebbe poco.  A un certo punto si rende conto che i venti riesce persino a vederli. E quindi seguirli con i suoi passi. L'attrazione per i venti, che per i casi della vita si porta da quando era un bambino, riesce a farsi viaggio.

E' così che Nick Hunt, firma del Guardian e dell'Economist, entra a pieno titolo nel nutrito gruppo degli scrittori di cammino inglesi, gruppo che come è noto si distingue per le tentazioni della curiosità e l'originalità delle scelte. Ora c'è anche lui, insieme ai Patrick Leigh Fermor e ai Robert Macfarlane: e suo è uno dei migliori libri di viaggio che mi sia capitato tra le mani negli utili tempi.

Dove soffiano i venti selvaggi (edizioni Neri Pozza) racconta i cammini per i luoghi dove nascono e imperversano la Bora, il Mistral e le altre forze che sono realtà tenace e insieme leggenda nella storia di tanti popoli. Chi parla non è un meteorologo ma un viaggiatore, che poche cose si lascia sfuggire di ciò che i venti producono: nella conformazione dei paesaggi, nelle architetture delle case, persino nei caratteri della gente.

Sembra quasi un gioco, modellato sulla rosa dei venti e sulla geografia dei monti e delle valli. Roba in fondo per cultori della maniera. Invece no: e non solo perché c'è grande scrittura. Le parole come sempre sono rivelatrici. Basta giocarci appena: lo spirare del vento e il respirare di chi vive, per non dire dello spirito che è concetto che richiama il sacro. Oppure il vento dei latini, l'anemos: da cui discende l'anima ma anche l'animale. 

Vento che richiama la vita, vento che è addirittura vita. E inseguirlo, ci spiega Nick Hunt, non è roba da Don Chischiotte lanciato contro i mulini.  Forse c'è vento che spira anche dentro di noi. 

martedì 8 settembre 2015

In cammino sulla Montagna Sacra

Che cosa ne sa di me questo luogo che neanch'io posso sapere di me stesso?

Forse è proprio questa domanda, tratta dalle pagine de Le antiche vie di Robert Macfarlane, quella che più delle altre dovrebbe girare per la testa quando si decide di varcare questo confine: un muretto di pietre come per delimitare un pascolo, ma che invece segna il passaggio tra sacro e profano. Di là l'Europa, i tempi moderni, la storia che è andata avanti con tutte le sue lacerazioni e le sue inquietudini. Di qua la Repubblica che nelle mappe del continente nemmeno si vede, il dito più orientale dela penisola Calcidica, una striscia di rocce dove la vita scorre più o meno come mille anni fa.

Benvenuti tra i monasteri ortodossi del monte Athos, questo mondo a parte governato dai monaci, dove pare che ancora Bisanzio non sia caduta e dove anche il tempo si misura diversamente che in Grecia, pochi chilometri più in là. Dove solo poche centinaia di pellegrini possono entrare ogni giorno e tra essi solo dieci che non siano ortodossi. Dove le donne non possono provare nemmeno ad avvicinarsi. Dove non ci sono alberghi e ristoranti, ma solo celle e refettori.

E' questo mondo a parte, di silenzio, preghiera, natura strepitosa, che Fabrizio Ardito ci racconta in Sul Monte Athos (Ediciclo), viaggio che ci porta lontano, più lontano che con un volo intercontinentale. Di monastero in monastero, in cammino fino alla cima di Aghion Oros, la Montagna sacra. Mulattiere a picco sul mare, monasteri dove niente è cambiato, liturgie incomprensibili e tramonti da togliere il fiato. Fino a quella vista, lassù, sopra quella piramide di pietra che sembra il tetto del mondo, la vetta che affonda nel blu dell'Egeo e che ci allarga lo sguardo fino all'Asia. All'Oriente e all'origine della nostra civiltà: ma forse ancora di più, forse fino a quel mistero per il quale non abbiamo risposta. 

venerdì 12 giugno 2015

Un sentiero non si realizza da soli


Il patto tra scrittura e cammino, afferma Robert MacFarlane, è tanto antico quanto la letteratura stessa: una passeggiata può facilmente diventare una storia e non c'è sentiero che non abbia qualcosa da raccontare.

E che non sia solo una affermazione in linea teorica è lui stesso a dimostrarcelo, in uno dei libri più affascinanti che mi sia capitato di leggere negli ultimi tempi. Le antiche vie, questo è il titolo (Einaudi), è un incredibile concentrato di storia e di poesia, un racconto che allarga il cuore e ti spinge al cammino per le strade che nei secoli gli uomini hanno percorso. Ognuno lasciando le sue impronte, come fanno tutti gli animali. Impronte che proprio grazie a questo libro si può provare  a scorgere.

Non ci avevo mai pensato: sono quelle impronte che poi fanno un sentiero, non il contrario. Il sentiero è consuetudine, è creazione consensuale, è il passo dopo passo di molti. Un sentiero non si realizza da soli.

Il sentiero è tempo ed è questo tempo che, tra le altre cose, questo magnifico libro ci aiuta a vedere nel nostro cammino.

I sentieri e i loro segni mi attirano da sempre: catturano il mio sguardo e lo tengono avvinto.

Così afferma Robert MacFarlane, spiegando che il cammino seduce l'occhio ma anche la fantasia. Che forse è l'occhio del cuore: quello che ci aiuta a ripopolare le antiche vie di storie e di anime. 

domenica 15 febbraio 2015

Non c'è sentiero che non abbia qualcosa da raccontare

Vado per sentieri da anni, e di sentieri leggo anche da tempo.

La letteratura sui viaggi a piedi è lunga e si presenta in forma di poesie, canzoni, storie, trattati, guide, carrate, romanzi e saggi. 

Il patto tra scrittura e cammino è tanto antico quanto la letteratura stessa: una passeggiata può facilmente diventare una storia, e non c'è sentiero che non abbia qualcosa da raccontare.

(Robert Macfarlane, Le antiche vie. Un elogio del camminare, Einaudi)

lunedì 5 gennaio 2015

Il selvaggio che ci restituisce a noi stessi

Vivo a Cambridge, con qualche pausa, da una decina d'anni e presumo che continuerò a farlo negli anni futuri. E finché ci vivrò sono anche certo che sentirò l'urgenza di recarmi nei luoghi selvaggi.

Sostituisco Firenze a Cambridge, ed ecco, sento come mie queste parole, che compaiono quasi all'inizio dello splendido Luoghi selvaggi di Robert Macfarlane (Einaudi), libro che credo possa soddisfare l'immaginario di ogni uomo di città che, pur rimanendo intimamente e irrimediabilmente cittadino, sa che potrà ritrovare se stesso solo nella tensione verso ciò che non è città. Meglio, verso ciò che si attesta agli antipodi della città in quanto aspirazione ai luoghi più incontaminati, non segnati dalla presenza dell'uomo.

Mica semplice. Perché è vero ciò che afferma Robert Macfarlane:

Chiunque abiti in una città avrà ben presente quella sensazione di esserci stato per troppo tempo.... 

Però dove trovare il luogo selvaggio nel nostro mondo che anche dove non è stato inquinato e cementificato è stato comunque addomesticato? Che sia la campagna inglese come quella toscana....

E invece sì, è possibile. Almeno è possibile crederci, con la forza di queste pagine che raccontano lunghi e sorprendenti vagabondaggi tra isole e vette, brughiere e foreste.

Giusto per scoprire che si possono disegnare altre mappe, dove ciò che è messo in evidenza non siano i centri abitati e le strade - e perché poi dovremmo pensare che sia questa l'unica lettura di un territorio? Giusto per restituirci quel senso di lontananza che le automobili e i treni, per non dire degli aerei, hanno soppresso.

Per capire che anche nel paese più curato e civile il selvaggio può rispuntare a sorpresa - anche a un chilometro dalla casa dove abbiamo sempre abitato - e restituirci di nuovo a noi stessi. 

sabato 3 gennaio 2015

Scoprendo luoghi selvaggi a un chilometro da casa


Immaginai il vento che passava per tutti quei luoghi e per molti altri simili: luoghi separati da strade e edifici, da recinzioni e centri commerciali, da città e strade illuminate, ma selvaggiamente uniti, attraverso lo spazio, dal vento che soffiava in quell'istante.

Ci siamo frantumati in mille pezzi, pensai, ma la natura selvaggia può ancora restituirci a noi stessi.

Guardai di nuovo il paesaggio ai miei piedi: le strade, la ferrovia, la torre dell'inceneritore e le macchie di bosco - Mag's Hill Wood, Nine Wells Wood, Wormwood. Sparse sulla terra, erano tutte in fermento.

La natura selvatica dimorava anche qui, a poco più di un chilometro dalla città in cui vivevo.

Assediata da strade e edifici, minacciata in gran parte dei suoi rifugi, agonizzante in alcuni. 

Ma in quel momento la terra sembrava riecheggiare di una luce selvaggia.

(Robert MacFarlane, Luoghi selvaggi, Einaudi)

mercoledì 29 ottobre 2014

Gli atlanti stradali rendono visibile l'assenza


La cartina più comune del regno Unito è l’atlante stradale.

Prendetene uno e osservate il reticolo di strade e autostrade che copre la superficie del paese. In queste mappe la rete stradale che connette il paesaggio appare così fitta da far pensare che i nuovi elementi primari del territorio siano asfalto e benzina.

Gli atlanti stradali rendono visibile anche un’assenza. I luoghi selvaggi non sono più segnati. 

Le lande, le grotte, i picchi rocciosi, i boschi, le brughiere, le valli fluviali e gli acquitrini sono semplicemente scomparsi. Se mai sono mostrati, corrispondono a ombreggiature sullo sfondo o a simboli generici. 

Il più delle volte sono evaporati  come vecchio inchiostro, trasformati in memorie rimosse di una Gran Bretagna più antica.

(Robert Macfarlane, Luoghi selvaggi, Einaudi)

giovedì 16 ottobre 2014

Questo libro è la mia mappa

Decisi inoltre che durante i viaggi avrei tracciato una mappa da contrapporre all'atlante stradale.

Una mappa in prosa che ridesse visibilità ad alcuni dei luoghi selvaggi rimasti nelle nostre isole, o che li registrasse prima che svanissero per sempre.

La mia mappa . almeno così speravo - non avrebbe connesso città, paesi, alberghi e aeroporti. Avrebbe invece collegato promontori, falesie, spiagge, picchi montani, torrioni rocciosi, foreste, foci di fiume e cascate.

Questo libro è la mia mappa.
                       (Robert Macfarlane, Luoghi selvaggi, Einaudi)

domenica 7 settembre 2014

Quel che i luoghi fanno a noi

Sappiamo raccontare benissimo, anche se a volte con qualche imbarazzo, che cosa noi facciamo ai luoghi, mentre siamo assai meno bravi a dire quel che i luoghi fanno a noi. 

Da un po' di tempo ho l'impressione che per ogni paesaggio importante le due domande da farci dovrebbero essere le seguenti: primo, che cosa so quando sono in questo luogo che non posso sapere da nessun'altra parte? 

Dopo di che, e senza speranza di risposta: che cosa sa di me questo luogo che neanch'io posso sapere di me stesso?

(Robert Macfarlane, Le antiche vie. Un elogio del camminare, Einaudi)

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