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giovedì 20 dicembre 2012

A guardare bene, la differenza è tutta qui

A guardare bene, la differenza è tutta qui: in un strada che viene attraversata nel momento sbagliato. 

Perché tutto inizia qui, tutto si conclude qui: esattamente in questi pochi metri che separano un marciapiede dall’altro.
 

Ora che mi sono inoltrato per un ben pezzo, nella storia di questa famiglia, ci penso e ripenso più volte: e ogni volta è un lampo imprevisto, un’esplosione di emozioni che arriva così, non ricercata, non annunciata.
 

Quasi sempre mi succede appena sortito di casa.
 

Il rumore del portone che si richiude dietro di me e poi i primi passi nel reticolo di vie del mio quartiere, giusto per quelle due o tre commissioni da fare. Che so, l’edicola per il giornale, il punto scommesse per la schedina della domenica, il forno dove mi servo da una vita per il pane e la schiacciata…   

Talvolta, non a caso, questo pensiero mi precipita addosso un istante prima di attraversare una strada, fermo a un semaforo in attesa dell’avanti oppure di fronte alle strisce pedonali di un incrocio pericoloso, dove a nessuno salta per la testa di lasciarti passare.
 

Sì, succede soprattutto una frazione di secondo dopo che il passo si è  staccato dal marciapiede per abbassarsi poi sull’asfalto, quasi a sottolineare che non esiste movimento, anche banale, anche impercettibile, che non sia gravido di conseguenze. 
 

E non posso farci niente, quel lampo di pensiero mi lascia lì, obbligato a un riflesso senza volontà, quasi a un tic nervoso.
 

Piegare la testa, scrutare le punte dei piedi, studiare le scarpe pesanti come blocchi di cemento. 

Fermarsi. Esitare. Restare ancora fermo.
 

Più o meno come quando stai per tuffarti nelle acque di una piscina, con il presentimento del gelo che ti aspetta. E c’è quell’istante, quel preciso unico istante che precede l’altro in cui ti stacchi dal bordo, quando non potrai più farci niente. Un istante che non è nemmeno il tempo di uno schiocco di dita, che non dura abbastanza per contenere un gesto o una nuova determinazione. Sufficiente al massimo per un inutile pentimento.
 

Ecco, un istante così. Uno spartiacque, come il sipario che scende tra il primo e il secondo atto. Un istante irrimediabile.
 

Come quell’istante di un giorno del 1943 in cui Anna decide di attraversare la strada.


(da Paolo Ciampi, Una famiglia, Giuntina 2010)

domenica 7 marzo 2010

Quando Anna attraversò quella strada


Una strada attraversata una volta di più portò all'arresto di Anna Ventura, nel terribile periodo delle persecuzioni razziali in Italia. Pochi metri di troppo, da un marciapiede all'altro, ma anche da una storia all'altra. Passi che la separarono dalla famiglia e la condussero prima a Fossoli e poi ad Auschwitz. E' una storia che ho raccontato in Una famiglia (edizioni Giuntina), ma su cui più e più volte anche in queste settimane sono tornato a pensare. Anzi, non ci riesco a non pensare, e allo stesso tempo a non pensare agli intrecci tra la volontà degli uomini e le circostanze. Inizia così, il capitolo che racconta di quella strada attraversata.


A guardare bene, la differenza è tutta qui: in un strada che viene attraversata nel momento sbagliato. Perché tutto inizia qui, tutto si conclude qui: esattamente in questi pochi metri che separano un marciapiede dall’altro.
Ora che mi sono inoltrato per un ben pezzo, nella storia di questa famiglia, ci penso e ripenso più volte: e ogni volta è un lampo imprevisto, un’esplosione di emozioni che arriva così, non ricercata, non annunciata.
Quasi sempre mi succede appena sortito di casa.
Il rumore del portone che si richiude dietro di me e poi i primi passi nel reticolo di vie del mio quartiere, giusto per quelle due o tre commissioni da fare. Che so, l’edicola per il giornale, il punto scommesse per la schedina della domenica, il forno dove mi servo da una vita per il pane e la schiacciata…
Talvolta, non a caso, questo pensiero mi precipita addosso un istante prima di attraversare una strada, fermo a un semaforo in attesa dell’avanti oppure di fronte alle strisce pedonali di un incrocio pericoloso, dove a nessuno salta per la testa di lasciarti passare.
Sì, succede soprattutto una frazione di secondo dopo che il passo si è staccato dal marciapiede per abbassarsi poi sull’asfalto, quasi a sottolineare che non esiste movimento, anche banale, anche impercettibile, che non sia gravido di conseguenze.
E non posso farci niente, quel lampo di pensiero mi lascia lì, obbligato a un riflesso senza volontà, quasi a un tic nervoso.
Piegare la testa, scrutare le punte dei piedi, studiare le scarpe pesanti come blocchi di cemento. Fermarsi. Esitare. Restare ancora fermo.
Più o meno come quando stai per tuffarti nelle acque di una piscina, con il presentimento del gelo che ti aspetta. E c’è quell’istante, quel preciso unico istante che precede l’altro in cui ti stacchi dal bordo, quando non potrai più farci niente. Un istante che non è nemmeno il tempo di uno schiocco di dita, che non dura abbastanza per contenere un gesto o una nuova determinazione. Sufficiente al massimo per un inutile pentimento.
Ecco, un istante così. Uno spartiacque, come il sipario che scende tra il primo e il secondo atto. Un istante irrimediabile.
Come quell’istante di un giorno del 1943 in cui Anna decide di attraversare la strada.

domenica 24 gennaio 2010

Babbo, cosa vuol dire una famiglia normale?


«Babbo, cosa vuol dire una famiglia normale?»
Non è che te l’aspetti una domanda come questa, nel bel mezzo di una domenica pomeriggio abbandonata all’indolenza. Non te l’aspetti, se da qualche ora ti sei completamente abbandonato alle pagine di un libro, tanto da illuderti che il mondo se ne sia rimasto fuori, per una volta muto e arrendevole. Non te lo aspetti, soprattutto, se una domanda come questa te la fa il tuo bambino, sette anni appena, il tuo bambino che fino a questo momento se n’è rimasto buono buono a rimpinzarsi di cartoni animati alla televisione.
Per questo ho alzato la testa con studiata lentezza e ho optato per un silenzio prudente, a suo modo perplesso. L’ho guardato, il mio bambino, senza dare voce ai miei punti interrogativi.
E questa, come gli è venuta in mente? Che ne può o vuole sapere, lui, di normalità e anormalità? E perché poi la famiglia?
E ancora: di cosa si preoccupa? Di cosa devo preoccuparmi io?


Sono le prime righe di Una famiglia, il nuovo libro che in questi giorni mi è uscito per Giuntina, dopo Un nome. Originariamente, appunto, il titolo doveva essere Una famiglia normale. E la storia, vera, è proprio quella di una famiglia normale, normalissima, con la sua casa, il lavoro, i figli. Una famiglia ebrea, però. Una famiglia travolta dalle persecuzioni razziali, negli anni più bui del nostro recente passato.
In vista della Giornata della Memoria Una famiglia sarà presentato in diverse occasioni. Con me saranno Saul Ventura e la moglie Silvana Calò, tra i protagonisti del libro, venuti appositamente da Israele.
Queste le prossime date di gennaio:

25 ore 11, Sesto Fiorentino (palazzo comunale)
25 ore 17, Pisa (palazzo comunale)
26 ore 10, Vaiano (cinema)
26 ore 21 Campi Bisenzio (centro canapé)
27 ore 10 Quarrata (teatro)
27 ore 18 Quarrata (consiglio comunale)
28 ore 10 Bagno a Ripoli (consiglio comunale)
29 ore 9,30 Pontedera
30 ore 11 Camporgiano (scuola superiore)

sabato 16 gennaio 2010

Storia di una famiglia, contro ogni amnesia


Cari amici, care amiche, esce in questi giorni in libreria il mio nuovo libro, Una famiglia (Giuntina), sta a voi, se per caso lo leggerete, commentarlo, io qui sotto vi riporto solo la scheda che trovate su www.giuntina.it.
Vi segnalo anche le prime presentazioni:




17 gennaio, ore 16, Pitigliano, ex sinagoga,
19 gennaio, ore 17.30, Venezia, Ateneo Veneto
20 gennaio, ore 21, Firenze, centro culturale comunità ebraica (via Farini)
22 gennaio, ore 17,30, Arezzo, sala consiglio comunale
23 gennaio, ore 17,30, San Piero a Sieve
25 gennaio, ore 11, Sesto Fiorentino, sala consiglio comunale
25 gennaio, ore 17.30, Pisa, sala delle Baleari, palazzo comunale


Come una pianta che dopo la gelata riesce di nuovo a germogliare, perché ci sono radici che né gli anni né le persecuzioni possono spezzare. È questa la storia dei Ventura, una famiglia della borghesia ebraica italiana chiamata ad affrontare durissime prove tra il 1938 e il 1945. Il destino pare già scritto quando le vicende separano Anna e Luigi consegnandoli a un tragico epilogo.

A doversela cavare nell’Italia in guerra rimangono solo i loro quattro figli, quattro ragazzini braccati e costretti a misurarsi con un mondo crudele in cui non è facile capire chi potrà aiutarti e chi invece ti tradirà.

Farcela non sarà un’impresa di poco conto, suggellata da un cognome nuovo e da un paese nuovo, e poi da tanti figli, nipoti, bisnipoti che in Israele faranno del fragile arbusto dei Ventura un albero rigoglioso, in cui rivivranno anche Anna e Luigi.

Una storia di violenza e dolore, ma anche di amore e speranza, che arriva fino ai nostri giorni.

sabato 9 gennaio 2010

Memoria per la professoressa Enrica


Gennaio è un mese in cui curiamo con più attenzione di altri periodi dell'anno la memoria di ciò che non troppi anni fa si è consumato nel cuore della nostra civiltà, con le persecuzioni razziali. E' una cosa importante, che penso sia molto di più di un omaggio ai morti, perché riguarda il nostro presente, il nostro futuro. Nei prossimi giorni mi uscirà per Giuntina un nuovo libro, Una famiglia, che racconta la storia di alcune vite in quei terribili anni. Intanto io vorrei rinnovare il ricordo di una persona straordinaria, la professoressa Enrica Calabresi, inghiottita dall'odio e dalla ferocia. Non lo voglio fare con le pagine del libro che le ho dedicato, Un nome, ma con un articolo uscito su Repubblcia tempo fa.


Donna, ebrea e in carriera. - Beatrice Manetti - La Repubblica


Un nome, nient' altro che un nome. Nel 1933, quando fu allontanata dall'università di Firenze, dove lavorava da diciannove anni, Enrica Calabresi non era che un nome su un foglio di carta. Non era che un nome nel 1938, quando le leggi razziali le tolsero l' incarico all' università di Pisa e il posto di insegnante al liceo Galilei. Era solo un nome, uno fra i tanti, nella lista degli ebrei fiorentini che i tedeschi pretesero dopo l' armistizio del ' 43. E solo come un nome, sbagliato per di più, comparve per l' ultima volta il 1 febbraio 1944, nell' elenco dei morti pubblicato dalla rubrica di stato civile della «Nazione». Anche per Alessandra Sforza, la giovane ricercatrice della Specola che mezzo secolo dopo ha ritrovato le sue tracce nelle collezioni entomologiche del museo, Enrica Calabresi non era che un nome. Eppure è da lì che tutto è cominciato. Un nome di donna in un mondo di uomini, una scienziata nell' Italia degli anni Venti, una docente universitaria in un' epoca in cui per le donne era un miracolo anche solo frequentarla, l' università. E' così che la curiosità è diventata passione, la passione ricerca e la ricerca un
dovere. Di quel dovere si è fatto carico infine Paolo Ciampi, giornalista e scrittore fiorentino, che ha setacciato archivi, cercato testimoni, intervistato ex allievi e parenti, per restituire a quel nome la sua storia, in un libro intitolato appunto Un nome e appena uscito per la Giuntina. Nella sua singolarità irripetibile, Enrica Calabresi è stata all' inizio per il suo biografo quell' "uno" che solo rende possibile comprendere l' enormità del genocidio degli ebrei. Una storia simbolo, che nella tragica consequenzialità delle sue tappe sembra poterle racchiudere tutte. Ma strada facendo la vita di
questa donna timidissima e mite, che per tutta la vita ha usato il proprio talento come se non le appartenesse, ha cominciato a rivelare la sua eccezionalità. Eccezionale era la famiglia Calabresi, di quella colta e benestante borghesia ebraica di Ferrara dove la cultura e lo studio si respiravano nell' aria. Eccezionale è la carriera universitaria di Enrica, laureata a Firenze nel 1914, a ventitré anni, e chiamata subito dopo come assistente nel Gabinetto di zoologia. Nel 1918 diventa segretario della Società entomologica italiana, nel 1924 ottiene la libera docenza in zoologia. Sono questi gli anni d'oro della sua attività di scienziata e di ricercatrice: lavora alla Specola, collabora con l' Enciclopedia Treccani, frequenta l' ambiente scientifico fiorentino e corrisponde con i massimi studiosi stranieri, facilitata anche dalla sua conoscenza delle lingue. E' una donna sola - lo rimarrà per sempre, dopo la morte del fidanzato Giovanni Battista De Gasperi nella prima guerra mondiale - ma non solitaria; libera, ma senza scandalo; in carriera, e solo per i suoi meriti. Prima che la tempesta della persecuzione razziale si abbatta su di lei, l' università di Firenze la allontana per far posto a Ludovico Di Caporiacco: un uomo, non solo, ma anche un fascista della prima ora. E' la prima battuta d' arresto di una vita che sembra sia stata sempre sul punto di spiccare il volo, senza mai volare davvero. Enrica trova un posto da insegnante al Regio Istituto tecnico Galilei, poi al liceo omonimo, dove ha tra i suoi allievi una giovanissima Margherita Hack, che nella prefazione a Un nome ne ricorda la feroce timidezza, il riserbo e la preparazione. E quando l' università di Pisa, nel 1936 la risarcisce offrendole la cattedra di entomologia agraria, un' altra parete si alza tra lei e il suo futuro. Questa volta è un muro invalicabile. Gli ultimi anni prima dell' arresto Enrica li spende nella scuola ebraica di via Farini, tra gli studenti ebrei espulsi dalle scuole pubbliche: a insegnare, a dare un' illusione di normalità, a preparare un futuro che certo non sarebbe stato il suo. Lo sapeva, quando scelse di tornare a Firenze dopo
l' ultima estate passata nella casa di famiglia a Gallo Bolognese. Eppure tornò, «perché a Firenze c' è la mia vita». All' inizio del 1944 fu arrestata e incarcerata a Santa Verdiana per essere deportata ad Auschwitz. Sapeva anche quello, Enrica. Così, il 18 gennaio, usò la fialetta di veleno che da tempo portava nella borsa. L' ultima parete, almeno quella, aveva scelto di alzarla da sé.

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