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lunedì 2 marzo 2015

In bici a Sarajevo, nuovi ponti che uniscono

E' di fondamentale rilevanza che qualcuno, in simile società, si dedichi all'esplorazione e al superamento dei confini.

Così affermava il mai troppo rimpianto Alex Langer. E io aggiungo che anche una bicicletta può aiutarci a superare i confini. A volte, anzi, è il miglior dei modi: sarà che si viaggia leggeri, senza ingombrare o reclamare attenzione.

Per capire cosa intendo provate a leggere Sarajevo ti entra nel cuore di Fabio Masotti (Ediciclo edizioni), viaggio su due ruote nei territori di uno Stato che non è uno Stato, di uno Stato che è tre Stati, di uno Stato che viene da definire come la società che ci è stata apparecchiata: semplicemente "liquido".

Eccoci nel cuore dei Balcani martoriato dalla guerra che prima dell'Ucraina veniva facile classificare come l'ultima dell'Europa, ora è meglio dire l'ultima del Novecento - secolo cominciato e concluso a Sarajevo. In quella Bosnia-Erzegovina che riconosciamo in una bandiera, in una nazionale di calcio, in confini tracciati sulla carta di un accordo ma non nella testa della gente. Musulmani, croati, serbi che ancora non hanno appreso la buona arte della convivenza.

Non si può capire, se non viaggiando lenti. Se non provando a sintonizzarsi con la gente che incontri. Il fruscio dei pedali, le soste, le conversazioni nei locali che sono di tutti. Spiedini e birra a volontà. Storie che si intrecciano. Storie che prima di diventare pagina di libro entrano  nelle borse da viaggio del cicloturista.

Da Spalato a Sarajevo, da Sarajevo a Visegrad, Goradze, Mostar. Città di ponti che per secoli hanno unito. Città di ponti che la guerra ha distrutto. Quindi il miracolo: le ruote della bicicletta - e poi le parole di questo libro - sono come pietre per tirare su nuovi ponti.

venerdì 7 settembre 2012

L'imperatore felice di veder crescere i cavoli

Se sapessi che splendidi panorami contemplo dalla mia finestra e che piacere provo a veder crescere i cavoli che ho piantato, non mi rifaresti simili richieste.

In questa risposta mi sono imbattuto l'altro giorno solo per caso, leggendo la splendida rivista Storica. Un po' me ne vergogno, ma non credo sia solo colpa mia, se oggi sono trascurate parole così. Parole che non sono di un contadino tra i tanti, ma di Diocleziano. Cioé di colui che è passato alla storia come uno dei più grandi imperatori dell'antica Roma, benché le persecuzioni contro i cristiani abbiano finito per metterne in ombra le straordinarie doti.

Parla di panorami dalla finestra, non di terre conquistate, Diocleziano. Di cavoli, non di legioni.

Per dirla tutta, Diocleziano, il grande imperatore, a un certo punto aveva deciso di abdicare, dopo 20 anni di potere assoluto in cui era riuscito a riorganizzare l'Impero, ponendo fine alla "grande anarchia" del III secolo.

Aveva finito il suo compito. Aveva deciso di abbandonare, senza esserne costretto. Così, semplicemente, depose le insegne imperiali e si ritirò in un palazzo a Spalato, in Dalmazia, sua terra natale.

Quando gli chiesero di ritornare sui suoi passi, perché c'era bisogno di lui, perché c'era aria di nuove turbolenze poltiche, lui rispose così: con il piacere di vedere crescere i cavoli piantati.

Più grande ancora nell'abbandonare il potere che nell'esercitarlo, Diocleziano. E come mi dispiace aver incontrato solo ora le sue parole.

Così inverosimili, così sane, in questa nostra Italia dove si resta aggrappati a tutto, dove le dimissioni sono ammissione di colpa e dove la colpa, semmai, prelude alla promozione.

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