Quell'oggetto è un acchiappasogni. Serve a tenere lontani gli incubi. A impedire che i pensieri cattivi si impadroniscano della nostra mente. Ma è anche il simbolo di un mestiere. Gli stregoni, gli uomini di medicina, gli sciamani, lo mettevano davanti alla tenda perchè si sapesse che lì ci si poteva curare.
Ormai sono anni che faccio mie le storie di Michele Marziani, un romanzo dopo l'altro. L'ho scoperto con Umberto Dei. Biografia non autorizzata di una bicicletta, che mi ha portato dalle parti di una ciclofficina sui Navigli e di scelte di vita importanti. L'ho ritrovato con La signora del cavale, sorprendente racconto di una comunità di pescatori di storioni non sul Volga ma sul Po. Me lo sono tenuto stretto con Nel nome di Marco, ascesa e caduta del Pirata, ferita che non si rimargina. L'ho inseguito nella Figlia del partigiano O'Connor, vicende familiari che si intrecciano con le tragedie del Novecento, la Guerra di Spagna, Irlanda e Ventotene.
Paesaggi, umori, situazioni con cui ho preso confidenza.
La sua ultima storia - Lo Sciamano delle Alpi, proposto da Bottega Errante - l'ho terminata oggi, col dispiacere di non avere più pagine da girare e la curiosità per cosa potrà ancora riservarci Michele nel futuro.
Dentro ci sono tre fratelli che non il destino ma varie presunzioni e seduzioni hanno separato. Nella loro esistenza non pare abbiano posto se non per la smania di conquista: si tratti di una carriera, un conto in banca o un amante è un particolare secondario. Poi c'è un quarto fratello che scompare, ma che è necessario ritrovare per portare in fondo una spericolata operazione finanziaria. E c'è un mondo che si schiude in questa ricerca che porta su in montagna, lontano dalla città, ma lontano anche dal presente, verso un'altra possibilità.
Non è solo un bel romanzo, mi sembra anche un libro che ricapitola tutto ciò che finora Michele ha scritto, come se avesse voluto giocare con se stesso, con la sua scrittura, col suo mondo interiore.
Il sentimento della fuga, l'idea di giocarsi un altro giro di carte nella partita della vita, l'arte della solitudine che è argomento su cui certo ha molto da dire. Il senso del tempo e dei cambiamenti che produce. La nostalgia - sia essa per la civiltà alpina liquidata a cuor leggero o per i sogni dell'infanzia - che si fa dono e orizzonte per qualcosa che potrà ancora succedere.
E dettagli, indizi, richiami che affiorano da queste pagine, come messaggi in bottiglia. Un volume di Thoreau, la pesca alla trota, le letture adolescenziali di Salgari, le vecchie carte geografiche, i pellerossa e ancora l'Irlanda.... Come si conviene a un grande affabulatore, a un uomo che raccontando storie ha acchiappato il suo sogno.
Ormai sono anni che faccio mie le storie di Michele Marziani, un romanzo dopo l'altro. L'ho scoperto con Umberto Dei. Biografia non autorizzata di una bicicletta, che mi ha portato dalle parti di una ciclofficina sui Navigli e di scelte di vita importanti. L'ho ritrovato con La signora del cavale, sorprendente racconto di una comunità di pescatori di storioni non sul Volga ma sul Po. Me lo sono tenuto stretto con Nel nome di Marco, ascesa e caduta del Pirata, ferita che non si rimargina. L'ho inseguito nella Figlia del partigiano O'Connor, vicende familiari che si intrecciano con le tragedie del Novecento, la Guerra di Spagna, Irlanda e Ventotene.
Paesaggi, umori, situazioni con cui ho preso confidenza.
La sua ultima storia - Lo Sciamano delle Alpi, proposto da Bottega Errante - l'ho terminata oggi, col dispiacere di non avere più pagine da girare e la curiosità per cosa potrà ancora riservarci Michele nel futuro.
Dentro ci sono tre fratelli che non il destino ma varie presunzioni e seduzioni hanno separato. Nella loro esistenza non pare abbiano posto se non per la smania di conquista: si tratti di una carriera, un conto in banca o un amante è un particolare secondario. Poi c'è un quarto fratello che scompare, ma che è necessario ritrovare per portare in fondo una spericolata operazione finanziaria. E c'è un mondo che si schiude in questa ricerca che porta su in montagna, lontano dalla città, ma lontano anche dal presente, verso un'altra possibilità.
Non è solo un bel romanzo, mi sembra anche un libro che ricapitola tutto ciò che finora Michele ha scritto, come se avesse voluto giocare con se stesso, con la sua scrittura, col suo mondo interiore.
Il sentimento della fuga, l'idea di giocarsi un altro giro di carte nella partita della vita, l'arte della solitudine che è argomento su cui certo ha molto da dire. Il senso del tempo e dei cambiamenti che produce. La nostalgia - sia essa per la civiltà alpina liquidata a cuor leggero o per i sogni dell'infanzia - che si fa dono e orizzonte per qualcosa che potrà ancora succedere.
E dettagli, indizi, richiami che affiorano da queste pagine, come messaggi in bottiglia. Un volume di Thoreau, la pesca alla trota, le letture adolescenziali di Salgari, le vecchie carte geografiche, i pellerossa e ancora l'Irlanda.... Come si conviene a un grande affabulatore, a un uomo che raccontando storie ha acchiappato il suo sogno.
E su questo ci potete giurare. Nei pigri pomeriggi d'estate in cui Emilio Salgari mi teneva compagnia io ero andato via da un pezzo, e da un pezzo ero approdato a Mompracem: ero Sandokan, o forse ero Yanez, dipende.
Ma se Sandokan è il suo lettore, questo è vero anche per chi Sandokan ce l'ha portato in dono.
Si scrive per vivere molte vite
Così dice il capitano Salgari nel bellissimo Disegnare il vento di Ernesto Ferrari, racconto di vita, narrazione a più voci, degli ultimi anni di uno scrittore che si inventò molte vite e se ne spogliò per regalarsene, fino a rubarsi anche l'ultima che le rimaneva.
Un giorno lo trovarono con il ventre squarciato su una collina appena fuori Torino. Una sorta di harakiri borghese, roba davvero da romanzo. Samurai in trasferta dai territori dell'immaginazione.
Aveva vissuto molte vite, aveva viaggiato molti paesi, aveva affrontato avventure di ogni genere. Così diceva, così scriveva.
La sua vita erano i suoi sogni, le sue letture. Un mondo di carta. La sua vita è ancora oggi quella carta.
Me la tengo stretta.