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giovedì 21 maggio 2020

Lo sciamano delle Alpi tra nostalgia e possibilità

Quell'oggetto è un acchiappasogni. Serve a tenere lontani gli incubi. A impedire che i pensieri cattivi si impadroniscano della nostra mente. Ma è anche il simbolo di un mestiere. Gli stregoni, gli uomini di medicina, gli sciamani, lo mettevano davanti alla tenda perchè si sapesse che lì ci si poteva curare.

Ormai sono anni che faccio mie le storie di Michele Marziani, un romanzo dopo l'altro. L'ho scoperto con Umberto Dei. Biografia non autorizzata di una bicicletta, che mi ha portato dalle parti di una ciclofficina sui Navigli e di scelte di vita importanti. L'ho ritrovato con La signora del cavale, sorprendente racconto di una comunità di pescatori di storioni non sul Volga ma sul Po. Me lo sono tenuto stretto con Nel nome di Marco, ascesa e caduta del Pirata, ferita che non si rimargina. L'ho inseguito nella Figlia del partigiano O'Connor, vicende familiari che si intrecciano con le tragedie del Novecento, la Guerra di Spagna, Irlanda e Ventotene. 

Paesaggi, umori, situazioni con cui ho preso confidenza.

La sua ultima storia - Lo Sciamano delle Alpi, proposto da Bottega Errante - l'ho terminata oggi, col dispiacere di non avere più pagine da girare e la curiosità per cosa potrà ancora riservarci Michele nel futuro. 

Dentro ci sono tre fratelli che non il destino ma varie presunzioni e seduzioni hanno separato. Nella loro esistenza non pare abbiano posto se non per la smania di conquista: si tratti di una carriera, un conto in banca o un amante è un particolare secondario. Poi c'è un quarto fratello che scompare, ma che è necessario ritrovare per portare in fondo una spericolata operazione finanziaria. E c'è un mondo che si schiude in questa ricerca che porta su in montagna, lontano dalla città, ma lontano anche dal presente, verso un'altra possibilità.

Non è solo un bel romanzo, mi sembra anche un libro che ricapitola tutto ciò che finora Michele ha scritto, come se avesse voluto giocare con se stesso, con la sua scrittura, col suo mondo interiore. 

Il sentimento della fuga, l'idea di giocarsi un altro giro di carte nella partita della vita, l'arte della solitudine che è argomento su cui certo ha molto da dire. Il senso del tempo e dei cambiamenti che produce. La nostalgia - sia essa per la civiltà alpina liquidata a cuor leggero o per i sogni dell'infanzia -  che si fa dono e orizzonte per qualcosa che potrà ancora succedere.  

E dettagli, indizi, richiami che affiorano da queste pagine, come messaggi in bottiglia. Un volume di Thoreau, la pesca alla trota, le letture adolescenziali di Salgari, le vecchie carte geografiche, i pellerossa e ancora l'Irlanda.... Come si conviene a un grande affabulatore, a un uomo che raccontando storie ha acchiappato il suo sogno.







 

 

lunedì 4 maggio 2020

Cento viaggi con la matita: Guido Gozzano e l'India

E' dai tempi del liceo, quando l'antologia di italiano mi fece planare verso i poeti crepuscolari, che mi piace tornare al suo mondo di care piccole cose, tanto decenti quanto di gusto discutibile, come i soprammobili nel salotto buono di una vecchia zia. 

Guido Gozzano occupa un posto particolare tra le mie letture, con i suoi versi teneri e malinconici. Amo il suo essere poeta con timidezza e imbarazzo, lui che diceva cose così: Dopo tutto la poesia è la cosa meno necessaria di questo mondo. Che in realtà era un modo per ammettere che non ne poteva fare a meno.

Però meritano anche le lettere che scrisse non da uno borghesissimo studio del Piemonte fin di secolo (intendendo l'Ottocento) ma niente di meno che dall'India. Sorprendenti per una persona che non è facile nemmeno immaginarsi che possa partire e andare così lontano. 

Gozzano in India arriva nel 1911, non come uno scrittore in cerca di materiali per un libro, ma come un giovane avvocato torinese malato di tubercolosi, in cerca di chissà che cosa,  forse di un'aria migliore, forse di un'altra vita. Di una guarigione comunque, che chissà forse ha meno a che vedere con i polmoni che con le inquietudini della vita. 

Qualcosa che alla lontana sa di Tiziano Terzani, insomma.

C'è chi ha scritto che Guido Gozzano è il viaggiatore che vede e racconta quasi soltanto se stesso, ma in ogni caso c'è anche l'India, l'esperienza dell'India, in queste lettere prima pubblicate sul quotidiano La Stampa e poi raccolte nel volume Verso la cuna del mondo (oggi riedite da Edt).

Sono belle, anche se ho fatto fatica a riconoscere nel poeta dei salotti dell'Italia giolittiana l'uomo che parla di Bombay metropoli ospitale oppure di Goa, misteriosa e spiazzante.

Però, a pensarci bene, in India c'è già stato: cento volte - ammette lui stesso - con la matita, durante le interminabili lezioni di matematica. Viaggiatore da fermo, come quell'altro esploratore di carta che appartiene agli stessi anni, come a tutti i ragazzi che fantasticano: Emilio Salgari. 

E sì, in questo mescolarsi di sogni e nostalgie, di avventure del cuore e di letture intrepide, io ritrovo il Gozzano poeta, il Gozzano di quei salotti, di quei pomeriggi, di quelle occasioni sfumate.

venerdì 18 agosto 2017

Quando Stevenson disegnò una mappa e si inventò un'isola

Sulle sue pagine ho sognato fin da ragazzino, studiando la mappa dell'isola del tesoro o trattenendo il respiro per capire come sarebbe andata a finire con il dottor Jekyll e mister Hyde. E col tempo mi è venuto di considerarlo allo stesso modo di un amico che è andato ad abitare lontano.

Per pochi scrittori posso dire lo stesso e in genere appartengono alla mia adolescenza: Emilio Salgari, certo, Mark Twain, certo, per altri devo pensarci su. E come per Twain e Salgari anche la sua biografia mi ha appassionato come un romanzo: lui che sembrava destinato a costruire i fari e che invece l'irrequietezza e la tisi hanno consegnato a un altro destino, dalle brume della Scozia ai Mari del Sud.

Robert Louis Stevenson, sì, a cui sono debitore di tanti piaceri della lettura. E tuttavia non ero mai entrato nel laboratorio della sua scrittura, né tantomeno avevo avuto modo di leggere i suoi consigli di scrittura o comunque i suo saggi sulla letteratura, sulla buona letteratura.

Li ho trovati in quetso libriccino - L'arte della scrittura, edito da Mattioli 1885 - che è davvero un concentrato di piccoli grandi sorprese. Soprattutto quando Stevenson ci prende per mano e ci racconta come è arrivato a L'isola del tesoro.

Gli uomini - racconta  - nascono con le manie più varie: sin da piccolo, la mia era di trastullarmi immaginando degli eventi in successione e, appena imparai a scrivere, divenni un buon amico dei fabbricanti di carta.

Anni di tentativi senza successo, di fogli scarabocchiati e gettati via, di storie appena abbozzate. I primi saggi, gli articoli, ma un romanzo ancora no.

Chiunque può scrivere un racconto - un cattivo racconto; voglio dire, chiunque abbia sufficiente diligenza, carta e tempo; ma non tutti possono sperare di scrivere un romanzo, anche cattivo. E' la lunghezza che uccide. 

Poi un giorno, quasi per caso, per inseguire la fantasia o per ammazzare il tempo, su un pezzo di carta disegna una mappa. Follia pensare che un giorno sarebbe diventata la mappa più importante nella storia della letteratura - e lo so, c'è anche la mappa della Terra di Mezzo in Tolkien...

Mi dicono che ci sono persone alle quali non interessano le mappe, ma faccio fatica a crederlo. 

Già, faccio fatica anch'io. Come è possibile, se dentro una mappa come quella, appena schizzata, c'era già un intero romanzo? Il romanzo che avrebbe fatto la fortuna di Stevenson e di tutti noi, ragazzi e adulti che non hanno smesso di essere ragazzini.

giovedì 23 febbraio 2017

Se l'ignoto è ancora davanti a noi

Il libro che state per iniziare parla di esplorazione e di ignoto. E di quanto il mondo a forza di farsi sempre più piccolo e conosciuto abbia visto sparire quei sogni e quelle aspirazioni che per secoli sono andati assieme ai viaggi e alle scoperte.

Credete in me, i libri di Alessandro Vanoli sono tappeti volanti di parole, in grado di portarvi molto lontano. Ci entrate dentro in punta di piedi, convinti delle vostre coordinate geografiche e del vostro fuso orario, per trovarvi di schianto sbalzati in un altro continente e in un'altra epoca. E il bello è che non ci sono effetti speciali, semmai la competenza e la passione dello storico, insieme a quelle doti narrative che nello storico spesso scarseggiano.

L'avevo già sperimentato con Quando guidavano le stelle, racconto di un Mediterraneo più volte attraversato in un grande viaggio sentimentale. E lo ritrovo ancora di più in questo nuovo libro, L'ignoto davanti a noi (Il Mulino), con tanto di sottotitolo che è di per sé indicazione di rotta: sognare terre lontane.

Perché poi è vero, ogni viaggio, ogni autentico viaggio, è attesa, desiderio, emozione che non si lascia catalogare e ovviamente sogno. Vale in qualche misura ancora oggi, figurarsi ai tempi in cui le mappe erano approssimative, gli oceani erano popolati di mostri, le chiacchiere nelle taverne dei porti mescolavano ambizioni e superstizioni, interi continenti non c'erano o erano solo un contorno con la terra incognita dentro.

Erano tempi difficili, ma anche tempi meravigliosi di avventura e scoperta. Prima dei Gps, prima dell'altrove che ormai è un ovunque. Vanoli ci prende per mano e ci accompagna tra navigatori del mondo antico e pirati dei Caraibi, tra monaci buddisti in cammino e naufraghi tra isole che poi sono diventate letteratura.

E quanti nomi che ritornano dai romanzi e dalle fantasticherie di quando ero un ragazzo: Cristoforo Colombo e Ibn Battuta, Marco Polo e Henry Morgan.

Ciò che soprattutto mi interessa - spiega Vanoli quasi a mettere le mani avanti - è la storia del lento scomparire dello spazio esplorabile.

Sarà vero? Certo che no, per uno studioso che sospetto sia rimasto eterno ragazzo. Ci scommetto, perché con lui -  scopro - condivido libri che non ti mollano più, che lasciano il segno: Emilio Salgari, Robert Louis Stevenson, Italo Calvino e incredibile, incredibile, persino Peter Kolosimo (allora non ero il solo...).

E' evidente che non potrà che pensarla così:

Dell'ignoto abbiamo ancora bisogno e, soprattutto, a ben guardare di ignoto e di stupore è ancora pieno il mondo.

Così dice  Vanoli. E io insieme a lui. 
 

martedì 6 dicembre 2016

L'amore perduto di Don Chisciotte, anzi, di Cervantes

Oggi sono sulle tracce nientemeno che di Cervantes. In cerca della verità sulla sua prigionia in quella fortezza a picco sul mare da cui, forse, sarebbe nata una delle figure femminili più idealizzate della letteratura.
Don Chisciotte e Dulcinea, nella realtà, si sono incontrati qui. Nei Balcani.

Ci sono libri che hanno la capacità di mescolare viaggi e sogni, viaggi nei libri e viaggi nella realtà dei posti, mi verrebbe da dire anche verità e finzione, se solo si potesse mai sapere dove termina l'una e dove comincia l'altra, perché poi vai a sapere: non è autentica anche la fantasia che irrompe nelle nostre giornate e si fa rivelazione? O la stessa letteratura che galoppa con l'immaginazione?

Questioni complesse, ma anche ingredienti che stanno tutti dentro L'amore perduto di Cervantes, opera di Angela Rodicio, giornalista spagnola con trascorsi importanti di inviata nelle guerre dei Balcani.

E un viaggio nei Balcani è anche questo: lungo la costa del Montenegro, fino all'odierna Ulcinj, l'antica roccaforte veneziana di Dulcigno. Fino a una storia che da quattro secoli si tramanda e che ha il sapore della leggenda, ma appunto anche della verità.

Non è qui che Cervantes è stato portato prigioniero dopo la battaglia di Lepanto? E sarà poi vero che in questa fortezza ha finito per innamorarsi della figlia del bey?

Già, una storia degna di un romanzo di Emilio Salgari. Oppure del Don Chisciotte.... Dulcigno, Dulcinea.... Nomi che si richiamano, che evocano complicità, ricordi, corrispondenze.

Dalla giornalista spagnola in viaggio al viaggio di Cervantes. Dalla storia di quest'ultimo al suo grande romanzo, di imprese e sogni, di follia e di amori. Il racconto del prigioniero, romanzo dentro il romanzo e prima ancora forse vita, ma anche Dulcinea, nome armonioso, peregrino e significativo e allo stesso tempo nome di una cittadina affacciata sull'Adriatico...

C'è da perdere la testa.... Oppure semplicemente da abbandonarsi, alla corrente della parole, alla risacca delle vicende che ci riguardano.  

sabato 11 luglio 2015

Guido Gozzano, viaggiatore della nostalgia

Dopo tutto la poesia è la cosa meno necessaria di questo mondo, scriveva Guido Gozzano, e sarà anche, io so solo che con i suoi versi teneri e malinconici questo ragazzo piemontese ci ha fatto un dono straordinario, che è bene tenersi stretto.

E' dai tempi del liceo, quando l'antologia di italiano mi ha fatto planare verso questo poeta "crepuscolare", che mi tengo stretto il suo mondo di care piccole cose, tanto decenti quanto di gusto discutibile, come i soprammobili nel salotto buono di una vecchia zia. Invece non avevo ancora letto le lettere che scrisse non da uno borghesissimo studio del Piemonte fin di secolo (intendendo l'Ottocento) ma niente di meno che dall'India. Sarà che da uno come lui nemmeno mi immaginavo che un giorno potesse partire e andare così lontano. 

Eppure è proprio così, Gozzano in India arriva nel 1911, non come uno scrittore in cerca di materiali per un suo libro, ma come un giovane avvocato torinese malato di tubercolosi, in cerca chissà di che cosa, forse di un'aria migliore, forse di un'altra vita. Di una guarigione comunque, che chissà, forse ha meno a che vedere con i suoi polmoni che con le inquietudini della vita. Qualcosa che alla lontana sa di Tiziano Terzani, insomma.

C'è chi ha scritto che Guido Gozzano è il viaggiatore che vede e racconta quasi soltanto se stesso, ma in ogni caso sono belle le sue lettere dall'India, prima pubblicate sul quotidiano La Stampa e poi raccolte nel volume Verso la cuna del mondo (oggi riedite da Edt). Belle anche se ho fatto fatica a riconoscere nel poeta dei salotti borghesi l'uomo che parla di Bombay metropoli ospitale oppure di Goa, peraltro, all'Emilio Salgari, già visitata con la fantasia, cento volte con la matita, durante le interminaboli lezioni di matematica. 

Poi però ho trovato queste righe, sulla nostalgia: e ho ritrovato davvero Guido Gozzano:

E per la prima volta, dacchè sono lontano dalla patria, sento in cuore una trafittura leggera, appena percettibile, ma insistente e importuna come il primo rodìo del dente cariato: è la nostalgia!... La nostalgia, il male tremendo e indescrivibile fatto di sentimenti indefiniti simili all’ansia e al rimorso!

lunedì 1 settembre 2014

La strada blu, in Canada, estremo Nord

Il Labrador. Avevo undici anni quando questo paese - la terra che Dio diede a Caino, come la chiamava il capitano Cartier - mi fece segno. Fu grazie a un libro e alle immagini che conteneva: indiani, eschimesi, montagne, pesci, e lupi bianchi che ululavano alla luna.

Ecco, non può essere per qualcosa del genere. Per le dita che frugano su un mappamondo fino a fermarsi su un colore e un contorno. Per la fantasia che galoppa a briglia sciolta sulle pagine di un libro. Per le scelte che solo a un'età tenera possono essere tanto pure e determinate da sentirsele come una pelle, che c'è ed è quella che è.

E' così che una terra diventa l'altrove, il tuo altrove. Te ne sei innamorato prima ancora di metterci piedi. Anzi, forse i piedi non ce li metterai mai. Non importa. Come, per quanto mi riguarda, non mi importa nemmeno capire se il mio autentico altrove è la Scozia di un viaggio adolescenziale e di alcuni film oppure il Sarawak di Emilio Salgari.

Per Kenneth White l'altrove è invece il Canada (un ottimo altrove, aggiungo io), anzi, più che il Canada il Labrador, l'estreno nord che anche per i canadesi non merita. Non c'è nulla, perché andarci?

Ma è proprio quel nulla che da sempre ha rapito Kenneth White. In quel nulla ci sono silenzi, spazi. In quel nulla, in effetti ci sono anche storie, persone.

Vite di ieri, come quelle dello scozzese che bruciò la Bibbia e si fece sciamano o del nobile francese che si confinò in un faro "lontano dagli imbecilli e, soprattutto, lontano dagli intellettuali". E vite di oggi come quelli di indiani che non si sa bene come vivano oggi, perché con loro il mondo è stato una corriera che non si è fermata e li ha abbandonati sul ciglio della strada. Però non rimangono solo bottiglie da scolare, ci sono segreti da conservare, orizzonti da scrutare, feste a cui invitare quello svitato di straniero.

Quante cose, davvero, in quel nulla. Silenzi da ascoltare, vuoti che non sono vuoti. E più si sottrae, più c'è. Più si può cogliere la possibilità di una poesia. La poesia definitiva che solo l'altrove personale, questo altrove, può davvero consentire.

Perché questo succede con la strada blu. Quella del titolo di un libro di viaggio, proposto da Amos edizioni, che e tra i più originali e intensi che mi siano capitati negli ultimi tempi.

Non ho capito bene cosa sia la strada blu. Però sto già indagando sulle parole che mi aiuteranno a designarla davanti ai miei passi...

domenica 15 giugno 2014

Come da piccolo, quando viaggiavo sui libri di avventura

Come da piccolo, quando una febbre vera, oppure dichiarata e generosamente riconosciuta, mi liberava dalla scuola. Non erano brutte giornate, quelle, però non filavano mai. Le ore erano un cargo appesantito che risale la corrente e chissà se e quando arriverà a destinazione.

Chiunque l'abbia detto aveva ragione: i decenni volano via, sono certi pomeriggi che non finiscono più.
E la televisione non era mica come ora, che a ogni momento c’è il cartone animato, il supereroe alle prese con i mali del mondo, la partita del campionato brasiliano. A parte L’isola dei Gabbiani e Avventura – da brividi la sigla, Joe Cocker con She came in through the bathroom window – tutto era di una noia mortale. Corsi di tedesco per principianti, lezioni sui principi della termodinamica, documentari sulle api o sul baco da seta, cose così insomma.

Meno male che c’erano i libri. Meno male che c’era Emilio Salgari.

Se il tempo passava e non passava, per farlo passare meglio avevo molti amici che si erano raccolti intorno a me per tenermi compagnia. Sandokan e quella simpatica canaglia di Yanez. Tremal-Naik e tutti i tigrotti di Mompracem. Il Corsaro Nero e la bella Jolanda.

Leggevo, in giornate così. Leggevo finché la testa faceva male, le righe ballavano sotto gli occhi, le pagine diventavano una macedonia di lettere. Se perdevo il segno era un problema ritrovarlo, perché la pagina girata si confondeva con quella ancora non letta. Tanto era un pezzo che la storia aveva abbandonato il libro.

Oppure no, ero io che avevo abbandonato quella stanza e già veleggiavo verso Maracaibo, sempre che non mi fossi perso tra i coccodrilli del delta del Gange.

A un certo punto il libro scivolava dalle ginocchia, le palpebre si abbassavano a saracinesca. Me ne andavo via, sul serio.
A volte mi portavo dietro una manciata di parole. A volte erano loro a inseguirmi, come un’eco. Parole tipo quelle del fratellino Yanez.

Noi non siamo uomini da condurre una vita tranquilla. Siamo invecchiati fra le urla di guerra dei malesi e dei dayachi ed il fumo delle artiglierie, e rimpiango sempre Mompracem.

Sapete, hanno continuato a risuonarmi anche molti anni più tardi, queste parole. Anche quando mi sono ormeggiato a una scrivania con computer e ho insediato la mia Tortuga in una bella casa di un quartiere residenziale. Noi non siamo uomini da condurre una vita tranquilla. Anche quando ho messo su pancetta e famiglia, quelle parole.

E come è vero, rimpiango sempre Mompracem.
La rimpiango e la cerco ancora sulla mappa dei miei sogni.

 (da Paolo Ciampi, I due viaggiatori, Mauro Pagliai edizioni)

giovedì 10 ottobre 2013

L'ho trovato in una bancarella di Buenos Aires

Sono orgoglioso della mia libreria come di poche altre cose di casa. È bella, sa di antico. Castagno stagionato, aria di solidità, la semplicità che ha l’eleganza delle cose che sono come devono essere, senza artifici, senza strane pretese. Farebbe la sua figura in una vecchia biblioteca, di quelle con un odore particolare, che non so se è della carta o dell’inchiostro o della cera con cui si tratta il legno, ma che è quello e solo quello. L’odore delle vecchie biblioteche.

Pensare che è costata il giusto, forse addirittura meno del giusto. Trovata e presa da un vecchio rigattiere che a sua volta l’aveva trovata e presa come un’occasione irripetibile. L’intero archivio di un comune alluvionato, dato via per poco o niente come se il fango gli avesse inferto danni irreparabili.

Due scaffali sono solo per loro, i libri di Emilio. Le vecchie edizioni illustrate che mi sono trovato in casa, forse di mio padre, forse addirittura di qualche mio nonno; i meravigliosi cofanetti della Mondadori, uno per ciclo, che per qualche anno mi vennero regalati per Natale; i libriccini della Mursia, assai meno pretenziosi, con quei caratteri fitti fitti e quelle pagine così leggere che a volte girandole si strappavano; i volumi che più tardi amici come Tito mi hanno portato di ritorno dai loro viaggi. Questo ti piacerà, l’ho trovato in una bancarella di Buenos Aires...

Due scaffali possono non essere un granché per chi ama i libri, per chi li ama anche a prescindere dalla lettura, per chi li ama di un amore fisico, come oggetti del desiderio da guardare, toccare, annusare, sfogliare. Sono qualcosa di enorme se dentro ci sono tutte le ore che un ragazzino ha passato a leggere e fantasticare.

Come diceva Cicerone? Una casa senza libri è come un corpo senz’anima. Oggi capisco meglio cosa voleva dire.

Per l’ennesima volta ora li abbraccio con uno sguardo che ancora non è routine. L’indice corre lungo le coste, come a controllare che negli ultimi giorni qualche titolo non sia sparito.

Qui sono custoditi lunghi pomeriggi d’estate su una sdraio in giardino, per terra un altro libro in attesa e la caraffa del tè freddo di mia madre. E anche tante sere di inverno, la pioggia battente e io sotto le coperte: la mia cameretta come la cabina del comandante e fuori il fortunale che imperversa.

(da Paolo Ciampi, I due viaggiatori, Mauro Pagliai editore)

venerdì 13 settembre 2013

Ma Sandokan sono i lettori, quello che i lettori vorrebbero essere.

E su questo ci potete giurare. Nei pigri pomeriggi d'estate in cui Emilio Salgari mi teneva compagnia io ero andato via da un pezzo, e da un pezzo ero approdato a Mompracem: ero Sandokan, o forse ero Yanez, dipende.

Ma se Sandokan è il suo lettore, questo è vero anche per chi Sandokan ce l'ha portato in dono.

Si scrive per vivere molte vite.

Così dice il capitano Salgari nel bellissimo Disegnare il vento di Ernesto Ferrero, racconto di vita, narrazione a più voci, degli ultimi anni di uno scrittore che si inventò molte vite e se ne spogliò, fino a rubarsi anche l'ultima che gli rimaneva.

Un giorno lo trovarono con il ventre squarciato su una collina appena fuori Torino. Una sorta di harakiri borghese, roba davvero da romanzo. Samurai in trasferta dai territori dell'immaginazione.

Aveva vissuto molte vite, aveva viaggiato molti paesi, aveva affrontato avventure di ogni genere. Così diceva, così scriveva.

La sua vita erano i suoi sogni, le sue letture. Un mondo di carta. La sua vita è ancora oggi quella di carta.

Me la tengo stretta.

venerdì 31 maggio 2013

L'India alla Tiziano Terzani di Guido Gozzano

Dopo tutto la poesia è la cosa meno necessaria di questo mondo, scriveva Guido Gozzano.

E sarà anche, io so solo che con i suoi versi teneri e malinconici questo ragazzo piemontese ci ha fatto un dono straordinario, che è bene tenersi stretto.

E' dai tempi del liceo, quando l'antologia di italiano mi ha fatto planare verso questo poeta crepuscolare, che mi tengo stretto il suo mondo di care piccole cose, tanto decenti quanto di gusto discutibile, come i soprammobili nel salotto buono di una vecchia zia. Invece non avevo ancora letto le lettere che scrisse non da uno borghesissimo studio del Piemonte fin di secolo (intendendo l'Ottocento) ma niente di meno che dall'India. Sarà che da uno come lui nemmeno mi immaginavo che un giorno potesse partire e andare così lontano.
 
Eppure è proprio così, Gozzano in India arriva nel 1911, non come uno scrittore in cerca di materiali per un suo libro, ma come un giovane avvocato torinese malato di tubercolosi, in cerca chissà di che cosa, forse di un'aria migliore, forse di un'altra vita. Di una guarigione comunque, che chissà, forse ha meno a che vedere con i suoi polmoni che con le inquietudini della vita.

Qualcosa che alla lontana sa di Tiziano Terzani, insomma.

C'è chi ha scritto che Guido Gozzano è il viaggiatore che vede e racconta quasi soltanto se stesso, ma in ogni caso sono belle le sue lettere dall'India, prima pubblicate sul quotidiano La Stampa e poi raccolte nel volume Verso la cuna del mondo (oggi riedite da Edt).

Belle anche se ho fatto fatica a riconoscere nel poeta dei salotti borghesi l'uomo che parla di Bombay metropoli ospitale oppure di Goa, peraltro, all'Emilio Salgari, già visitata con la fantasia, cento volte con la matita, durante le interminaboli lezioni di matematica. 

Poi però ho scovato queste righe: e ho ritrovato davvero Guido Gozzano.


sabato 16 marzo 2013

Se la prossima volta sarà nei Caraibi

Vorrei assistere davvero alla loro partenza. Vedere una nave che stacca gli ormeggi e abbandona quella nostalgia di pietra che è il molo, come diceva il grande Fernando Pessoa. Vorrei osservarli bene mentre dal ponte osservano tutti noi farsi più piccoli, interrogandosi su quanto si stanno lasciando indietro: forse altre persone che misteriosamente erano anche loro stessi, prima.
 

E già che ci sono vorrei che con loro ci fossero anche altri amici che mi hanno tenuto compagnia.
 

Magari Tex che in qualche modo ho sempre considerato l’altro fratellino di Sandokan, benché porti la stella dei rangers, non la lama del pirata. E perché no, anche Corto Maltese, il marinaio, l’avventuriero irrequieto di quell’altro sognatore praticante che è stato Hugo Pratt.
 

Per tutti loro mi rifarei di nuovo ragazzino orgoglioso di cantare a squarciagola la sigla di uno sceneggiato. 
Scorre il sangue... nelle vene
Forte vento... nella notte calda si alzerà!
Sandokan! Sandokan!
Giallo il sole la forza mi dà
Sandokan! Sandokan!
dammi forza ogni giorno ogni notte il coraggio verrà...

 

E sarei davvero più forte, sarei più coraggioso. Riacciufferei quanto ho perso nel cammino.

Anche Emilio, ora. Emilio che scorgo mentre si gira verso Odoardo e gli sorride, una buona volta. E che si permette anche una frase lieve, che sa di amicizia. 


La prossima volta nei Caraibi? C’è un certo corsaro nero che merita di conoscere…
 

Li saluterò per l’ultima volta, libero da ogni rimpianto. Poi forse, girandomi per tornare a casa, mi tornerà in mente una di quelle vecchie illustrazioni, con Sandokan sul ponte della nave abbracciato a una giovane principessa malese.
 

E l’ aurora ci trovò sul ponte del praho, pallidi e commossi, recitava la didascalia.
 

A guardare per bene quel Sandokan superbo era proprio lui.
 

Era Emilio. Era Odoardo. Ero io. 

(da Paolo Ciampi, I due viaggiatori, Mauro Pagliai editore)

sabato 14 luglio 2012

Dalla Russia dello zar il più metodico dei carnefici

Di lui si diceva che era l'erede di Gengis Kahn e che era al comando di un esercito di demoni, che lui stesso era una maledizione, un castigo divino, una resa alle forze del male. Sicuramente era un visionario, un guerriero, un massacratore. Uno di quei personaggi che lasciano dietro di sè una tale serie di rovine che non sembrano veri, piuttosto li diresti presi di peso da un'avventura di Emilio Salgari o da una storia di Hugo Pratt.

E invece no, Roman Nikolas Max von Urgern-Sternberg, davvero buono per un romanzo gotico, è esistito davvero, semmai era un libro su di lui che mancava. Ora c'è, lo ha scritto Vladimir Pozner, è uscito per Adelphi con un titolo che la dice già lunga, Il barone sanguinario.

Figura infernale, quella del barone, che ebbe per palcoscenico le steppe asiatiche negli anni del crollo della Russia degli zar. Il suo esercito dilagò seminando ovunque terrore e distruzione. Non fumava, non beveva, ignorava le donne, il Barone. A suo modo un asceta, un mistico, ma con le mani zuppe di sangue. Non obbediva a nessuno, se non ai suoi imperscrutabili impulsi. Era la Morte in cammino, non un progetto della Storia.


Il più disinteressato degli assassini, il più metodico dei carnefici, così ne parla Pozner. Uno spaventoso cammino di redenzione attraverso l'annientamento di tutto ciò che è vita.

Finì come doveva finire, il Barone. Divorato dalla sua stessa fame di massacro che spingeva la sua soldataglia, sotto le bandiere con teschi e tibie incrociate. Ma perché stendere su di lui un pietoso velo?

Ci sono enigmi che hanno bisogno delle nostre parole. E anche di libri come questo.

sabato 26 maggio 2012

Ci sarà Mompracem, tenendomi stretto le parole

Ritorno spesso a Mompracem, quando posso, quando voglio.

Ogni volta che mi dicono che non c’è, che non è mai esistita, mi piacerebbe avere tra le mani qualche vecchia mappa del Mar Cinese. Mompracem c’era, al largo della costa occidentale del Borneo, anche se per qualcuno era  Mon Pracem, o piuttosto Monpiacem. Ancora gli atlanti della prima metà dell’Ottocento la riportavano. Poi scomparve, ma si sa, queste cose succedono.


Per me c’è ancora, c’è almeno da quella notte di tempesta del 20 dicembre 1849, con cui Emilio per la prima volta mi prese per mano e mi portò dentro la storia di Sandokan e di Yanez, di James Brooke e di Marianna.


Quando sento che si avvicina una tempesta di incredulità, quando i venti dell’età troppo adulta cominciano a spazzare la tolda della mia nave, quando ancora il cielo è spezzato dai fulmini del più crudo realismo, Mompracem mi aspetta.


A volte mi capita anche di appellarmi a un’altra isola che non c’è, quella di Peter Pan. E mi sorprendo a canticchiare, stonato come sono, la canzone di Edoardo Bennato: seconda stella a destra, questo è il cammino, e poi dritto fino al mattino, non ti puoi sbagliare perché quella è l’isola che non c’è...  ma questo per dire, perché quella che conta per me è solo Mompracem.


Le cose ora ci sono e ora no. O prima non ci sono e poi sì. Cosa che anche Odoardo sa bene, lui che una volta scavalcò una catena di monti e fu il primo a imbattersi in un fiume più grande del Tevere e del Tamigi, solo che vicino al mare si imbucava per gettarsi in una cascata tra le rocce.


Io so perfino che Mompracem c’è e ci sarà finché mi terrò stretto le parole.

(Da Paolo Ciampi, I due viaggiatori, Mauro Pagliai editore)

sabato 4 febbraio 2012

Se Dickens è un giaguaro, anzi no, un gatto

Pochi giorni ancora e, per chi crede a questi appuntamenti, avremo modo di celebrare i 200 anni dalla nascita di Charles Dickens: l'autore di Oliver Twist, David Copperfield, Grandi Speranze, Canto di Natale, solo per ricordare i primi titoli che mi vengono in mente.

Non so quanti di voi abbiano avuto un'adolescenza segnata anche dalla lettura delle pagine di Dickens. Io sono tra quelli, anche se tra Dickens e Salgari c'è di mezzo tutto un mare di emozioni e sogni.

E' passata una vita da quando mi sono lasciato alle spalle quelle pagine. E solo ora scopro, grazie a un bell'intervento di Antonio Debenedetti sul Corriere della Sera, quanto sia dibattuto questo scrittore, allo stesso tempo amato e detestato, lodato e criticato.

Se non lo avessi letto, chissà quale percezione avrei avuto di lui. A chi avrei potuto credere? AVirginia Woolf che lo stronca senza pietà con parole come queste (e non solo queste)?


E' uno scrittore per tutti e non, è lo scrittore di nessuno in particolare; è un istituto, un monumento, una strada pubblica continuamente calpestata da milioni di piedi.

O piuttosto sarei stato propenso a fare mio il giudizio di un critico cone Edmund Wilson?


E' il più grande scrittore drammatico che gli inglesi abbiano avuto dopo Shakespeare

Davvero, nella critica, si dice tutto e il contrario di tutto - ed è giusto che sia così, perché questo non è certo il terreno della verità, sempre che questo terreno esista.

Giorgio Manganelli però diceva che Dickens era un animale letterario tra il giaguaro e il gatto domestico. Non so bene cosa intendesse, ma tra tutti è questo il giudizio che mi piace di più.

Giaguari e gatti hanno popolato le mie fantasie di ragazzino, in quella stanza che con i libri diventava un tappeto volante.

Ci sta che Dickens sia un giaguaro. Anzi no, un gatto che fa le fusa.




giovedì 19 gennaio 2012

Carlo Fruttero e le persone che hanno sempre un'opinione

Bellissimo il ricordo che sulle pagine di Repubblica Antonio Gnoli ci regala di Carlo Fruttero, lo scrittore piemontese e - io aggiungerei, il grande signore della nostra cultura - scomparso qualche giorno fa.

Dice Gnoli di Fruttero:

Lo spaventavano le persone che avevano un'opinione su tutto. Aveva eletto una frase di Valéry a guida del proprio agire: non avere opinioni.

E aggiunge, Gnoli:

Fruttero ha vissuto senza aspettarsi molto. Questa fu la sua forza, il suo segreto: di non sentirsi invincibile. Solo così poteva scherzare, ridere, comversare: "Quando hai lasciato agli altri i destini del mondo a te resta tutto il bello della vita".

Mi piace ricordare anche che la sua prima lettura fu Il corsaro nero, letto ad appena cinque anni. Lo ricordo per complicità salgariana. Ma anche perché ci deve essere una segreta corrispondenza tra il carattere schivo (e il non sentirsi invincibile) e l'amore per i libri scatenato da un personaggio di carta che non si è mai lasciato domare dagli eventi.

sabato 8 ottobre 2011

Dare nomi, la grande consolazione


(da Paolo Ciampi, I due viaggiatori, Mauro Pagliai editore)

Mi capita anche di ripensare spesso a una bella frase di Elias Canetti:

Dare un nome alle cose è la grande e seria consolazione concessa agli umani
 

Dare un nome: è questo il lavoro di chi lavora alla conoscenza del mondo. Lo fa il naturalista, come il geografo. Lo fa l’esploratore, magari immergendosi nei nomi degli altri, accettando il rischio della differenza e dell’equivoco. 

Cosa, quest'ultima, di cui Odoardo sarà sempre ben consapevole. Su di essa dirà anche cose importanti. Come quando un giorno veleggerà verso Papua, un viaggio terribile, sfibrante, con la febbre alta e la milza a fargli vedere le stelle. Riuscirà comunque ad accorgersi che le carte nautiche riportano due isole, Jackson e Pulo Snapam, che in realtà sono la stessa cosa. 


Viziaccio dei cartografi, questo, di voler ribattezzare i posti con i nomi di generali, santi e principesse, invece che accontentarsi dei nomi sotto i quali sono conosciuti dai nativi. È così che si finisce per prendere lucciole per lanterne. E non è solo accademia, perché ci sono anche sbagli che ti portano dritto su uno scoglio o un banco di sabbia.
 

Dare nomi: cioè scovarli, attribuirli, ripeterli, ascoltarli, lasciarli risuonare. A pensarci è proprio questo che ha fatto anche Emilio, nella sua vita di capitano ormeggiato in biblioteca. Il suo modo di organizzare la varietà e la complessità che c’è in terra.
 

Ha scritto una volta Pietro Citati:
 

Il dono maggiore di Salgari fu proprio quello di credere ciecamente e inconsciamente nella suggestione delle parole che aveva trovato nei vocabolari.

domenica 7 agosto 2011

Non c'è più la libreria del signor Schiffer

Salviamo i librai come il signor Schiffer, scriveva l'amico Tito Barbini, in una delle più belle pagine che ci ha regalato sui suoi giorni a Buenos Aires (sarà pubblicata anche sul suo prossimo libro, Il cacciatore di ombre, in  uscita per Vallecchi in queste settimane)

Raccontava, Tito, di come aveva scoperto per caso quella libreria, mentre ritornava dalla tomba di Evita, camminando lungo il muro del Cimitero della Recoleta.  Una libreria dal sapore antico con dentro un interno mondo anch'esso antico.

Scriveva, Tito:

Dietro il bancone, un anziano signore dall'aria distinta consultava alcuni cataloghi buttando di tanto in tanto un occhio a un vecchio computer sulla scrivania. Intorno all'anziano libraio, con gli occhiali e il maglione rosso, antichi mobili di ciliegio custodivano sotto chiave rarissimi e preziosissimi volumi dal valore sicuramente inestimabile

Regnava il silenzio più assoluto, un silenzio rotto soltanto dal rumore delle pagine sfogliate e dei passi che scricchiolavano sul legno del pavimento.


 L’avevo scoperta per caso e subito mi rammentò un bellissimo film con Anthony Hopkins e Anne Brancroft. Ricordate? Helen è una scrittrice americana che vive a New York, è alla ricerca di alcuni libri rari. Entra in contatto con una libreria specializzata di Londra, al numero 84 di Charing Cross (e questo indirizzo è anche il titolo del film). Inizia una relazione epistolare con il direttore della libreria: continuerà anche se i due non s’incontreranno mai.

Per me questa libreria di Baires è diventata l’equivalente della libreria all’84 di Charing Cross.


Fantasticava, Tito,  dell'idea di scriversi con il signor Schiffer. Di tanto in tanto si sarebbe fatto spedire un bel libro, raro e importante, introvabile in Italia.

Sapete, più tardi qualcosa della libreria del signor Schiffer avrebbe trovato anche la strada di casa mia. Quel giorno - o forse un altro, non so - Tito riempì il suo zaino di volumi. E uno di essi, una rara edizione argentina di Emilio Salgari, me lo regalò, al suo ritorno.  Vai a prevedere i destini dei libri, le loro rotte e i loro porti, capaci come sono, i libri, di attraversare oceani e continenti.

Ora Tito scrive sul suo bellissimo blog che la libreria del signor Schiffer ha chiuso. Non ce l'ha più fatta a quadrare i conti.

Pensare che solo l'altra sera io, lui e Andrea Bocconi, c'eravamo trovati a Bagno Vignoni per una conversazione sui libri di viaggio organizzata da Toscanalibri. A cena avevamo parlato a lungo delle piccole coraggiose librerie sparse per l'Italia, da difendere con le unghie e con i denti.

E ora, questa notizia che arriva dall'Argentina.  Non c'è più, questa libreria che non inseguiva le novità, ma l'amore per i libri.

E' lontana, l'Argentina. Ma non tanto da non sentirmi un po' più povero oggi.

Ps: forse non vi è mai capitato di varcare la porta del signor Schiffer, ma a Bagno Vignoni, per dire, c'è una di quelle piccole coraggiose librerie. Siete sempre a tempo

venerdì 29 luglio 2011

Il capitano che sapeva disegnare il vento

Ma Sandokan sono i lettori, quello che i lettori vorrebbero essere

E su questo ci potete giurare. Nei pigri pomeriggi d'estate in cui Emilio Salgari mi teneva compagnia io ero andato via da un pezzo, e da un pezzo ero approdato a Mompracem: ero Sandokan, o forse ero Yanez, dipende.

Ma se Sandokan è il suo lettore, questo è vero anche per chi Sandokan ce l'ha portato in dono.

Si scrive per vivere molte vite

Così dice il capitano Salgari nel bellissimo Disegnare il vento di Ernesto Ferrari, racconto di vita, narrazione a più voci, degli ultimi anni di uno scrittore che si inventò molte vite e se ne spogliò per regalarsene, fino a rubarsi anche l'ultima che le rimaneva.

Un giorno lo trovarono con il ventre squarciato su una collina appena fuori Torino. Una sorta di harakiri borghese, roba davvero da romanzo. Samurai in trasferta dai territori dell'immaginazione.

Aveva vissuto molte vite, aveva viaggiato molti paesi, aveva affrontato avventure di ogni genere. Così diceva, così scriveva.

La sua vita erano i suoi sogni, le sue letture. Un mondo di carta. La sua vita è ancora oggi quella carta.

Me la tengo stretta.

martedì 26 luglio 2011

Quando Salgari naufragò nell'oceano di carta



Ha spiegato che da giovane i libri non ti bastano mai, invece quando sei avanti con gli anni capisci che quelli che servono per davvero sono pochi. Adesso l'idea che ci siano dei libri che aspettano di essere letti da lui gli mette angoscia. Troppi libri che lo tirano per la giacca. Gli sussurrano che loro se ne staranno lì belli tranquilli anche quando lui sarà morto da un pezzo

(da Ernesto Ferrero, Disegnare il vento. L'ultimo viaggio del capitano Salgari, Einaudi)

Ecco, sono incappato in questa frase, solcando i capitoli di questo splendido libro a metà tra la biografia e il romanzo corale, sorta di Rashomon in salsa piemontese sugli ultimi anni di vita del capitano che navigò solo oceani di carta.

Sono incappato in questa frase e per un pezzo non mi sono più mosso.

Anche per me c'è stato un tempo in cui aspiravo a divorare intere biblioteche. Compilavo liste di libri da leggere e poi le spuntavo. Un garibaldino delle biblioteche. Poi è arrivato il tempo dell'ansia. Poi, ancora, il tempo che non so definire della rassegnazione o della maturità.

Oggi non intendo farmi più tirare per la giacca dai titoli. Oggi scelgo il mio piacere. Oggi è già tempo di rileggere ciò che in altri anni mi è stato importante.

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...