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martedì 18 aprile 2017

Storia dalla lunga notte dei popoli dei ghiacci



Le sue giornate. Le sue notti. Com'erano le sue mani? Che occhi aveva? Cantava a volte? non lo so. Ma c'era. C'era davvero.

E' da qui che bisogna partire, non dai numeri che danno la dimensione di ciò che è stato fatto. Le statistiche rendono assai meno, di fronte alle parabole di vita e morte che vorremmo strappare al silenzio. Non inquadrature su scene di massa, piuttosto obiettivi che vorremmo puntate su quel viso, sulla persona che ha avuto quel nome e quel destino, su quelle parole che ci sono state strappate e mai più saranno restituite.

Ed è così che Matteo Meschiari ci prende per mano e ci accompagna nella lunga notte dei popoli dei ghiacci, con le pagine di Artico nero, altro piccolo grande libro che ci viene proposto da Exòrma. Sette storie - non sempliemente sette saggi - che ci portano in Canada, in Norvegia, in Siberia, in Groenlandia e in Alaska, insomma, nel Nord più remoto e difficile da collocare, nella nostra geografia e nella nostra storia. Anche su una mappa avremmo difficoltà a collocare molte di queste terre, figurarsi sapere qualcosa dei popoli che per millenni le hanno abitate, a prescindere ovviamente dall'immaginario che li vuole felici negli igloo e nei giochi con le foche.

 Artico nero, Artico rosso sangue, invece. Perché i popoli dei ghiacci non hanno avuto sorte migliore di tanti altri popoli indigeni, destinati a soccombere nell'urto con la nostra civiltà, in una lunga teoria di crimini che vanno dalla deportazione all'eugenetica.

Triste è questa storia dimenticata, come è facile dimenticare la storia dei popoli che non hanno voce e tanto meno scrittura. Triste, dolorosa e vergognosa: tanto più che non è imputabile solo alla vecchia Russia zarista, per cui i siberiani erano stranieri nella loro terra, ma anche alle solide democrazie del welfare della nostra Europa.

Il peggio si è consumato e ora tutto tace, tutto è stato inghiottito nella lunga notte. Come se niente fosse successo, in effetti. Ben vengano allora pagine a ripristinare la parola che racconta, o che almeno domanda e si domanda: e cerca di riitrovare quel volto, quel nome, quella storia. 

martedì 29 gennaio 2013

La Groenlandia, prima che si arrivasse noi

Siamo in Groenlandia, più o meno verso la metà dell’Ottocento, prima che gli europei abbiamo fatto la loro irruzione nel millenario mondo delle tribù inuit. Prima del domani, appunto: il titolo di questo bel libro del danese Jorn Riel, pubblicato da Iperborea.

Uomini e donne che da sempre vivono in condizioni che a noi piace classificare proibitive. Esistenze dure sostenute dalla forza di piccole comunità che sanno trarre il meglio da una natura avara e dal succedersi delle stagioni e concedersi persino la tregua della bellezza.

Poi arrivano loro, i bianchi sterminatori. E di un’intera comunità non sopravvivono che una donna anziana e un suo nipotino, flebile possibilità di futuro.

Sullo sfondo di una vicenda poco conosciuta, quella dell’orribile massacro degli inuit, ecco una storia intensa, dolorosa e poetica.

Una storia “possibile”, raccontata da uno scrittore che per tanti anni ha vissuto in Groenlandia (prima di finire, per chissà quale singolare contrappasso, in Malesia), a partire da due crani che tanti anni fa ha ritrovato in queste terre dell’estremo nord: di una donna e di un bambino appunto,

Riel è magistrale nel raccontarci il mondo degli inuit prima del devastante impatto con gli europei. Una rara penna capace di usare al meglio tutti i colori del crepuscolo.

giovedì 20 ottobre 2011

Se agli islandesi mancano le parole per i boschi

Ricordate Il senso di Smilla per la neve di Peter Høeg? Benchè, a distanza di anni, faccia gran fatica a riannodare i fili della trama, rammento un particolare che all'epoca mi colpì e che, a ripensarci, mi colpisce ancora. Io la neve l'ho sempre chiamata neve, ma grazie a Peter Høeg ho saputo che gli eschimesi hanno un'impressionante quantità di modi per chiamare quella che per me è soltanto neve.


Questo mi è tornato in mente leggendo quello che lo scrittore Jon Kalman Stefansson scrive a proposito dei boschi. Stefansson è islandese e nel suo paese non dico i boschi ma anche gli alberi sono spettacoli piuttosto inusuali. Tanto che circola questa battutra: Cosa fai se ti perdi in un bosco islandese? Alzati in piedi!


Stefansson ci ricorda che in Islanda persino una distesa di cespugli sembra un bosco e questo ha le sue conseguenze anche sul linguaggio:


Nella lingua islandese ci sono tanti vocaboli per parlare del mare, dei monti, del tempo, del buio - ma pochissimi relativi ai boschi.


In un vecchio dizionario, aggiunge, la parola skòg è associata non solo a un posto dove si trovano molti alberi, ma anche, e la dice lunga, a una sensazione di soffocamento.


Per noi il bosco è sinonimo di libertà, per l'islandese evoca una sensazione di oppressione. Per noi è la bellezza del paesaggio, per l'islandese è un paesaggio rubato.


Meraviglie della lingua, imprese della traduzione, fascino della navigazione tra letterature diverse e lontane.

venerdì 17 giugno 2011

Così era la Groenlandia, prima di domani

Siamo in Groenlandia, più o meno verso la metà dell’Ottocento, prima che gli europei abbiamo fatto la loro irruzione nel millenario mondo delle tribù inuit. Prima del domani, appunto: il titolo di questo bel libro del danese Jorn Riel, pubblicato da Iperborea.

Uomini e donne che da sempre vivono in condizioni che a noi piace classificare proibitive. Esistenze dure sostenute dalla forza di piccole comunità che sanno trarre il meglio da una natura avara e dal succedersi delle stagioni e concedersi persino la tregua della bellezza.

Poi arrivano loro, i bianchi sterminatori. E di un’intera comunità non sopravvivono che una donna anziana e un suo nipotino, flebile possibilità di futuro.

Sullo sfondo di una vicenda poco conosciuta, quella dell’orribile massacro degli inuit, ecco una storia intensa, dolorosa e poetica.

Una storia “possibile”, raccontata da uno scrittore che per tanti anni ha vissuto in Groenlandia (prima di finire, per chissà quale singolare contrappasso, in Malesia), a partire da due crani che tanti anni fa ha ritrovato in queste terre dell’estremo nord: di una donna e di un bambino appunto,

Riel è magistrale nel raccontarci il mondo degli inuit prima del devastante impatto con gli europei. Una rara penna capace di usare al meglio tutti i colori del crepuscolo.

mercoledì 7 luglio 2010

Prima di domani, così era la Groenlandia

Siamo in Groenlandia, più o meno verso la metà dell’Ottocento, prima che gli europei abbiamo fatto la loro irruzione nel millenario mondo delle tribù inuit. Prima del domani, appunto: il titolo di questo bel libro del danese Jorn Riel, pubblicato da Iperborea.

Uomini e donne che da sempre vivono in condizioni che a noi piace classificare proibitive. Esistenze dure sostenute dalla forza di piccole comunità che sanno trarre il meglio da una natura avara e dal succedersi delle stagioni e concedersi persino la tregua della bellezza.

Poi arrivano loro, i bianchi sterminatori. E di un’intera comunità non sopravvivono che una donna anziana e un suo nipotino, flebile possibilità di futuro.

Sullo sfondo di una vicenda poco conosciuta, quella dell’orribile massacro degli inuit, ecco una storia intensa, dolorosa e poetica.

Una storia “possibile”, raccontata da uno scrittore che per tanti anni ha vissuto in Groenlandia (prima di finire, per chissà quale singolare contrappasso, in Malesia), a partire da due crani che tanti anni fa ha ritrovato in queste terre dell’estremo nord: di una donna e di un bambino appunto,

Riel è magistrale nel raccontarci il mondo degli inuit prima del devastante impatto con gli europei. Una rara penna capace di usare al meglio tutti i colori del crepuscolo.

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