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domenica 27 maggio 2018

Quattro montagne per una vita intera

Quella pausa, quella crostata e quella sigaretta, la valle tutta di fronte a noi e il Dolada alle spalle, ne sono certo anche ora, rappresentarono per entrambi, nel nostro intimo, un punto alto di felicità.

Quante cose ci possono essere in cima a una montagna, quante cose che rimanendo in basso non si riusciranno mai a cogliere. Non basta nemmeno contemplarla da giù la montagna, perché reclama il ritmo del passo, il respiro affannato, la parola che si dirada. Allora sì che può diventare ponte con noi stessi, farsi scoperta, meraviglia, riconciliazione. A volte, incredibile, persino brivido di felicità.

Se non ci credete, tuffatevi nelle pagine de Il punto alto della felicità, ultimo libro di Mauro Daltin (Ediciclo editore), autore friulano di cui negli anni scorsi ho già avuto modo di leggere Officina Bolivar, ritrovandomi a meraviglia nelle sue pagine di ottimo scrittore di viaggio.

Tuffatevi, perché in un periodo in cui la montagna pare andare di moda e suggerire diverse buone letture, questo non è il solito libro di montagna. Non un saggio o un'esperienza più o meno autobiografica, ma un romanzo, un romanzo vero, un romanzo che riassume una vita attraverso quattro montagne e quattro spartiacque nelle vicende di un uomo, Pietro, colto nelle diverse età.

Vicende che stanno più che dentro che fuori, a partire dalla prima ascesa, con Pietro  bambino che, in compagnia dello zio, comincia a cogliere il significato della morte e dell'amore. Che è come varcare quella linea invisibile che separa l'infanzia dall'adolescenza. Ragazzo, adulto, vecchio: una vita legata alla montagna. Scandita dalla montagna, fino all'ultimo.

E quante cose Daltin riesce a mettere dentro questo libro, non senza un debito dichiarato a autori come Dino Buzzati, il grande bellunese, oppure al Paolo Cognetti de Le otto montagne.

Storie da cui si vorrebbe discendessero altri romanzi, quali quelle del battaglione fantasma della Grande Guerra oppure dell'alpinista che per tutta la vita ha cercato un fiore che non esisteva.

Il sentimento del tempo e la fragilità dei nostri affetti e delle nostre certezze. Anche per questo la montagna ci è necessaria, per come ci offre quel poco di stabilità che ci ha dato. Fino a farsi legame tenace, promessa che forse riusciremo a mantenere: come spero faccia Mauro con il borgo di Givigiana, quasi un paese fantasma, oppure no, una speranza di nuova vita nella nostra montagna.





sabato 18 febbraio 2012

Una vita intera nel deserto dei Tartari

Figurarsi che la prima volta che mi capitò di leggere Il deserto dei tartari di Dino Buzzati fu tanti anni fa, per portarlo all'esame di terza media: lettura non dico sconsigliata per un adolescente, ma certo intempestiva, perché questo è un libro che è come il vino che invecchia acquistando un corpo diverso, arricchendosi di sfumature che fanno la differenza.

In seguito a lungo mi sono fatto accompagnare dalle sue domande metafisiche, dalla vertigine dell'attesa che inghiotte  la vita intera del tenente Drogo, magari anche dalla fame di un nemico, perché anche un nemico può regalarti un senso...

Solo più tardi ho capito che il senso è piuttosto abbandonare la fortezza e scommettere su un altrove... ma è da qui, è dal deserto dei Tartari, che bisogna sempre partire... è il deserto dei Tartari che pretende sempre da noi una risposta...

E ancora oggi torno alle pagine che mi raccontano di quell'attesa, del giorno della battaglia che forse sarà domani, o domani ancora, ma mai oggi, di quella vita che aspetta perennemente la sua chiamata, il suo banco di prova, il gesto che le attribuirà un senso, pure nella sconfitta...

E tutto questo con il passo del romanzo di avventura (senza avventura), da ragazzino appunto...

Ci sono libri che fai fatica a catalogare anche come capolavori, perché devi andare oltre un giudizio sulla qualità, non ci sono stelle o voti o categorie di valutazione che esprimano quanto un libro è entrato nella tua vita, quanto ti è stato essenziale.

Per me un libro fondamentale. Credo per parecchi.

martedì 12 ottobre 2010

Se la scuola fa male alla poesia

Come mai, se la poesia è tanto presente nell'insegnamento scolastico, una volta terminati gli studi, sono così pochi i suoi lettori?

E' questa la domanda che, ancora una volta, Maurizio Cucchi ha lanciato dalle pagine di Tuttolibri, recensendo il libro di Davide Rondoni Contro la letteratura.

E dunque, a prescindere dal fatto che il titolo sembra offrire già una risposta convinta – La poesia vive solo lontano dalla scuola – non è che la questione sia proprio peregrina. Merita di pensarci sopra: e il tarlo è un pezzetto che scava.

Rondoni (che non ho ancora letto) pare piuttosto netto nel suo giudizio:

La letteratura non è una materia da imparare a scuola, ma un'attitudine da non perdere per conoscere il mondo e se stessi.


Allora, perché imporla in classe, perché farne obbligo scolastico? Perché non restituirla alla facoltà di un insegnamento facoltativo?

Bella questione, che non vale solo per la poesia. Sono parecchie le cose che a scuola ci provocano irritazione o peggio ancora indifferenza per essere riscoperte solo anni e anni più tardi, quando la nostalgia vale persino per le interrogazioni alla lavagna.

E' vero, a scuola ci si può disamorare della poesia e della letteratura in genere. Però è anche vero che con certi insegnanti poi scocca la scintilla giusta (che sarei stato io senza la mia professoressa di italiano che già in terza media mi faceva leggere Dino Buzzati e Jean Paul Sartre?)

Non credo all'insegnamento facoltativo, credo che a tutti debba essere data la straordinarietà opportunità della parola poetica. Una provocazione, in fondo: per dire che la bellezza, la profondità dell'arte,  non si possono tradurre in nozione, in voto. E che anche in un'aula si può alimentare l'emozione.

sabato 18 settembre 2010

La Patagonia e il nostro deserto dei Tartari

Alle volte mi viene da chiedermi cosa sia stato il viaggio per Chatwin.  Da ragazzo amavo passare ore intere davanti al mio mappamondo. Tracciavo itinerari di viaggi immaginari. Erano sempre le terre estreme a imprigionare la mia fantasia. La Patagonia, assieme alla Terra del Fuoco era sempre in mezzo. Giochi di un ragazzo che, tuttavia, nascevano dal bisogno di scoprire il mondo là dove il mondo sembrava finire.


Tito Barbini è uno scrittore-viaggiatore (o un viaggiatore-scrittore?) che spero tutti abbiamo modo di conoscere, perché è un piacere usare i suoi libri come tappeti volanti per arrivare lontano. È anche un amico, con cui spesso ho parlato di libri e di viaggi. Per esempio della Patagonia che lui conosce come le sue tasche (giusto così, è un posto che si portava nel cuore fin dall'infanzia) e che io ho annusato solo attraverso le pagine scritte. Oppure di Bruce Chatwin, che a entrambi piace, e che pure a entrambi desta qualche perplessità.

Ora, sul suo bel blog, Tito mi lancia un altro spunto, che non posso non raccogliere, perché non solo parla di Chatwin, ma lo incrocia con uno dei libri che  da sempre porto con me (pensate, letto per la prima volta per l'esame di terza media, velo pietoso sugli anni passati): ovvero Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati.

Non ci avevo mai pensato, ma la suggestione funziona e la Patagonia si arricchisce di incanto di nuovi nomi: il tenente Giovanni Drogo, la fortezza Bastiani... pensare che il film che Valerio Zurlini ha tratto dalle pagine di Dino Buzzati regala le sabbie e il vento dell'Iran...

Scrive Tito, raccontando anche la sua Patagonia:

Come Chatwin il tenente Giovanni Drogo arriva in una terra estrema. Un’esplorazione fatta di lucide visioni, di ombre, di sussulti e misteri, di miti avulsi strappati a qualsiasi riferimento storico, universali perché fuori da ogni tempo. La Patagonia come la fortezza Bastiani. La fortezza è un avamposto al confine con il deserto. La Patagonia è il deserto. E come Drogo, Chatwin arriva in quella solitudine convinto di ripartirne presto. È sicuro di sé, di avere tutta la vita davanti. Trascorreranno molti anni prima di rendersi conto che il tempo è fuggito e con esso la sua idea iniziale di Patagonia. Ho pensato spesso al bellissimo racconto di Buzzati. Vale la pena rileggerlo in queste terre, per riflettere e guardarsi dentro.

Non avevo mai pensato che le sconfinate distese della Patagonia potessero essere l'equivalente dell'avamposto che guarda altre distese, quelle che non attraversi, ma da cui un giorno potrà arrivare qualcosa (o qualcuno) che ti cambierà la vita.

Non ci avevo pensato, ma fa bene pensarci, fa bene capire che anche il viaggio può essere attesa, che dietro tanto movimento si può nascondere una strana vertiginosa inquietante immobilità.

lunedì 21 settembre 2009

Nel deserto dei tartari, sognando l'altrove


Figurarsi che la prima volta che mi capitò di leggere Il deserto dei tartari di Dino Buzzati fu tanti anni fa, per portarlo all'esame di terza media: lettura non dico sconsigliata per un adolescente, ma certo intempestiva, perché questo è un libro che è come il vino che invecchia acquistando un corpo diverso, arricchendosi di sfumature che fanno la differenza.

In seguito a lungo mi sono fatto accompagnare dalle sue domande metafisiche, dalla vertigine dell'attesa che inghiotte le sue pagine e la vita intera del tenente Drogo, magari anche dalla fame di un nemico, perché anche un nemico può regalarti un senso...

Solo più tardi ho capito che il senso è piuttosto abbandonare la fortezza e scommettere su un altrove... ma è da qui, è dal deserto dei tartari, che bisogna sempre partire... è il deserto dei tartari che pretende sempre da noi una risposta...

E ancora oggi torno alle pagine che mi raccontano di quell'attesa, del giorno della battaglia che forse sarà domani, o domani ancora, ma mai oggi, di quella vita che aspetta perennemente la sua chiamata, il suo banco di prova, il gesto che le attribuirà un senso, pure nella sconfitta... e tutto questo con il passo del romanzo di avventura (senza avventura), da ragazzino appunto...

Ci sono libri che fai fatica a catalogare anche come capolavori, perché devi andare oltre un giudizio sulla qualità, non ci sono stelle o voti o categorie di valutazione che esprimano quanto un libro è entrato nella tua vita, quanto ti è stato essenziale.

Per me un libro fondamentale. Credo per parecchi.

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  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...