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sabato 7 novembre 2015

Il Nobel che con le parole si inventa collage



Amare la parola, fino al punto di accarezzarla con lo sguardo e trovarla bella per come si distende su una pagina, prima ancora che per il suo significato o per il suo suono. Fino al punto da adoperarla per ciò che semplicemente è - successione di lettere, formiche di inchiostro su un sentiero bianco - e non solo per come si mette in fila dietro e davanti altre parole.

E' questo che mi ha suggerito una bella intervista a Repubblica di Herta Muller, in Italia per presentare il suo ultimo libro, Il Novecento non ci ha insegnato niente.

Intervista in cui racconta molte cose: su come cambia la vita, se cambia, dopo aver vinto un premo Nobel; su come si può cominciare a scrivere per "trovare un punto di appoggio", su come la letteratura può nutrirsi di silenzio. Ma poi ecco le parole: queste strane creature che da sempre, e senza mai smettere, Herta Muller ha ritagliato da giornali e riviste.

Ritagliavo di tutto: articoli, titoli, foto. Ognuna di quelle parole sminuzzate aveva un carattere, una grandezza, un colore diverso, a differenza di quelle dattiloscritte, che sono sempre le stesse.

E dopo le forbici la colla: perchè un'opera d'arte può essere un romanzo, ma anche un collage che utilizza le parole come mattoncini, o come pennellate. Ma cosa c'entra con la letteratura? Ecco Herta Muller:

Solo così ho capito quanto potente e decisiva può essere una singola, apparentemente semplice, parola.

E allora c'en
tra, come no, c'entra.


lunedì 27 ottobre 2014

Il poeta in carcere che scrive con l'acqua della ciotola

Ogni giorno scrive poesie sul pavimento di pietra, bagnando un dito nella ciotola dell'acqua che beve....

Come un antico poeta del Giappone, che sa che la bellezza è tanto più bella quanto è effimera. Perché ciò che conta è la creazione, non ciò che di essa rimane. Allo stesso modo dei fiori di ciliegio, i cui petali cadono subito. Bellezza che svanisce, bellezza che evapora, come quelle parole tracciate con l'acqua.

Tutto molto bello, ma non è la bellezza, almeno, non è solo la bellezza, che tutto questo richiama Liu Xiaobo: il poeta che scrive con i polpastrelli bagnati nella ciotola, perché non ha più carta e inchiostro. Perché quella ciotola d'acqua è l'unica cosa che in carcere gli rimane.

Liu Xiaobo, il poeta che hanno condannato al silenzio; il dissidente nella Cina che non ammette nemmeno l'idea del dissenso. Premio Nobel per la Pace, in una cerimonia in cui spiccava la sua poltrona vuota.

Liu Xiaobo, forse un imbarazzo per il regime, il giorno del Nobel. Oggi non più. Non fosse per qualche articolo - come qualche giorno fa quello di Giampaolo Visetti su Repubblica - appena un vago ricordo. Facilmente esorcizzato in Cina e anche fuori dalla Cina, da quel mondo che con la Cina ha smania di fare affari, figurarsi se ha tempo da perdere con quegli scocciatori degli attivisti dei diritti umani.

Vorrei che la bellezza delle parole scritte con le dita bagnate indugiasse tra noi. Vorrei che quelle parole resistessero anche dopo essere evaporate, solo per il fatto di esserci state per un istante. Vorrei che si trasformassero in grido di indignazione. Il nostro grido: ce la faremo?


sabato 11 ottobre 2014

Modiano, dalle vecchie foto le possibilità della memoria

Patrick Modiano è uno scrittore della memoria come dicono i giudici del Nobel, ma di una memoria che non è la sua.

Da mezzo secolo si aggira nella sua Parigi alla ricerca di ricordi che non gli appartengono, servendosi di vecchie fotografie sfuocate, troppo bianche o troppo nere, di numeri civici in apparenza senza storia, di elenchi del telefono in disuso, di facce di uomini e donne sospette, di una toponomastica municipale superata, per tratteggiare più che ricostruire un passato precedente alla sua nascita.

Precedente di poco perché Modiano è stato concepito nel '44, in un appartamento del numero 15, Quai de Conti, sulla Riva sinistra della Senna, e nel '45, quando è nato, era appena finito il periodo che l'ossessiona ancora a quasi settant'anni, quello dell'occupazione e del collaborazionismo con gli invasori nazisti.

Quel periodo è come un labirinto di nome Parigi in cui Modiano si addentra per afferrare i fili di esistenze legate alla sua e sempre rimaste nebbiose.

(Bernardo Valli, Il Nobel che cerca i ricordi degli altri, da Repubblica)

mercoledì 10 settembre 2014

L'Italia dell'altrove, ripresa dai margini

Ma sì, ci sarebbe un'idea quanto mai vaga di tornare a raccontare l'Italia meno italiana. Meno ovvia e meno vista. 

Un esperimento che già feci negli anni Ottanta, quando giravo con le corriere e andavo in posti minuscoli, sconosciuti, dove non va mai nessuno. 

Un'Italia dell'altrove, ripresa dai margini, dai confini. Raccontata in modo quanto più possibile semplice, elementare. Rasoterra.

 Ma ammesso e non concesso che io sia ancora in grado di accollarmi un compito del genere, capisco sempre meno per chi poi si scrivono quelle eventuali pagine. 

Gli editori, sa, si lamentano perché i miei libri non vendono abbastanza. Vorrebbero da me un romanzo ben strutturato, ordinato e pulito, mentre al contrario a me piace sparpagliare le parole, accettare il loro disordine creativo. 

Mi piace partire da una certa vaghezza, o da barbagli di luce, dal sentito dire, per poi concentrami e ascoltare le più diverse voci: interne ed esterne. E recuperare così l'idea della letteratura come pensiero anonimo e collettivo. 

Ma gli editori non vogliono queste cose, per loro sono all'antica. Loro vogliono l'ebook! Si, buonanotte!

(Gianni Celati, da un'intervista a Franco Marcoaldi su Repubblica)

venerdì 22 agosto 2014

Dimenticare Augusto, nell'"epoca della rozzezza"

Stendiamo un pietoso velo sul Mausoleo di Augusto, da molto tempo chiuso per restauri e allagato nell'unico giorno in cui era stato riaperto per celebrare il bimillenario (dicesi bimillenario). Questa è evidentemente l'Italia che non si smentisce nel modo in cui maltratta i suoi beni culturali. Ma la domanda è: come mai un personaggio come Augusto, così decisivo nella storia di Roma e diciamo pure dell'umanità, non è riuscito a entrare se non nel nostro immaginario almeno nel cono di luce della nostra attenzione?

Perché questo è fuor di dubbio, altri imperatori - per rimanere agli imperatori - ci sono riusciti assai meglio: Adriano, per esempio, e non solo per lo splendido libro della Yourcenar; e perfino Nerone, con tutto quello che ha combinato. E allora?

Una bella risposta l'ha data qualche giorno Maurizio Bettini sulla cultura di Repubblica, in un intervento in cui, appunto, si interroga sui motivi per cui abbiamo dimenticato l'imperatore che inventò la pace globale (non senza fare le sue guerre, in ogni caso). Scrive Bettini:

Augusto rappresenta la classicità della classicità, una sorta di classicità esponenziale, quella propria del signore di un'epoca che amò la perfezione della forma, l'eleganza, l'ironia, la cultura, perfino l'erudizione: tutti valori che la nostra società, incline alle sensazioni forti e dedita talora alla poetica delle rozzezza, rispetta e ammira, almeno a parole, ma certo non sente proprie.

Ecco, ora mi torna più. Non è per Augusto. E' la nostra "epoca della rozzezza" che ha i suoi problemi. Ora che ci penso, non ne dubito.


venerdì 13 giugno 2014

Il musicista che con le parole cerca il silenzio

Quando pronuncio la parola silenzio, lo distruggo.

Così diceva la grande Wislawa Szymborska ed è un verso che deve aver scavato e risuonato a lungo dentro Mario Brunello, il grande violencellista.  Che al silenzio - cosa non scontata per un musicista - ha dedicato persino un libro. Silenzio, appunto, uscito recentemente per Il Mulino.

Non l'ho ancora letto, ma lo leggerò certamente, perché mi piace il silenzio, mi piacciono, paradossalmente, le parole che parlano di silenzio. E so che vale lo stesso anche per la musica, che non è fatta solo di note, ma anche delle pause tra una nota e l'altra.

Spiega Mario Brunello a Brunella Schisa, in un'intervista al Venerdì di Repubblica:

L'ho cercato a lungo e credo che non smetterò mai di rincorrerlo. Io l'ho incontrato, l'ho conosciuto anche se ancora non ho capito da che parte sta. 

Dice anche:

Prendevo appunti da diversi anni, all'inizio sotto forma di note, e quando mi sono messo a scrivere ho creduto di suonare. Più penso al silenzio più mi sembra di sentire la musica.

Bello, un grande musicista che scrive un libro come fosse uno spartito. Che scambia le note con le parole, la musica con il silenzio.

lunedì 2 giugno 2014

Gay Talese, giornalista e contastorie

Credo che sia legittimo scrivere delle inchieste con le armi proprie di colui che racconta delle storie.

Io aspiro ad essere un buon contastorie, con una caratteristica importante, ed è che io non mi allontano dai fatti e uso soltanto dei nomi reali.

Ci sono grandi romanzieri che sono stati dei magnifici giornalisti, come Graham Greene, John O'Hara o Hemingway. Io scrivo dei reportage, e un reportage non è narrativa. Bisogna stare molto attenti a non immaginare assolutamente nulla. Spetta al romanziere immaginare.

Lo scrittore di non-narrativa deve lavorare sull'aspetto interiore del personaggio, su ciò che lo circonda, sull'atmosfera nella quale vive. Tutto ciò dà alla cronaca un'aria di narrativa, ma ci sono differenze e sfumature. In un buon reportage, i fatti si devono subordinare al personaggio e non il contrario.

(Gay Talese, sul Venerdì di Repubblica, intervistato da Eduardo Lago)

mercoledì 2 aprile 2014

Newton e il suo gatto, che ingrassava molto

Newton era un uomo estremamente solitario; visse tutta la sua vita al Trinity College di Cambridge, dove è ancora conservata la stanza in cui lavorava. Era entrato nel college con lo status degli studenti poveri che dovevano servire i compagni di studi.

Newton non viveva in un mondo come il nostro, ma in un mondo dove le diseguaglianze erano molto più forti. Tra i compiti di Newton c'era quello di pulire le calzature dei suoi colleghi e di vuotare i loro pitali tutte le mattine. Come si può facilmente immaginare, si trattava di compiti piuttosto umilianti e, di certo, lui li visse così.

Era un uomo estremamente difficile di carattere, ma dedito agli studi e alla ricerca con un'intensità sconosciuta ai suoi contemporanei, al punto che su questo aspetto della sua vita circolavano aneddoti: quando per esempio Newton avviava l'esame di un problema, o si era messo a scrivere qualcosa, il suo gatto ingrassava molto, perché Newton smetteva di mangiare. 

(Paolo Rossi, Newton e la rivoluzione scientifica, La Biblioteca di Repubblica)

venerdì 31 gennaio 2014

Il tempo della solitudine per il lettore

Era il 1925 e già Virginia Woolf ammoniva su quanto fosse difficile leggere un romanzo. Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti e le difficoltà - non solo per i romanzi ma per i libri in genere - sono cresciute come montagne. Non ultime, logicamente, quelle legate all'uso dilagante di nuove tecnologie che sembrano indirizzare verso una lettura rapida, superficiale, estemporanea.

Però c'è da riflettere anche sulla difficoltà di cui recentemente ha parlato Valerio Magrelli su Repubblica, in La solitudine del lettore, titolo particolarmente eloquente. Solitudine, certo, si capisce in un mondo in cui viene meno la propensione alla lettura. Ma quella di cui parla Magrelli è anche un altro tipo di solitudine, legata alla scomparsa di figure di riferimento che indirizzino alla lettura, che selezionino e consiglino le buone letture.

Vale anche per la musica, dove è finito il tempo dei musicologi e gli ascolti casomai sono influenzati dalle scelte dei dj (ovvero dei disc-jockey, notare la parola jockey, in inglese fantino: ovvero chi cavalca la musica, verso le vette delle classifiche). Allo stesso modo non ci sono più critici letterari, casomai testimonial che, con meccanismi più vicini alla pubblicità che ai discorsi della letteratura, fanno in modo che i best-seller diventino best-seller.

In effetti, sono tra coloro che non rimpiangono molti i critici di un tempo e che hanno trovato e trovano noiose e superflue tante recensioni, quasi fossero presidiate più dal piacere della critica che dall'amore della lettura. Eppure il pericolo segnalato da Magrelli è reale:

Il rischio, insomma, è che, con la scomparsa di librai e critici, abbiano la meglio i fast-book, ossia quei testi che richiedono solo un contatto rapido e sbrigativo. Se ciò si avverasse, il nostro paesaggio intellettuale risulterebbe impoverito come dopo un bombardamento di defolianti.

E certo questa solitudine deve rimpiangere anche altre assenze. Si comincia dagli editori che non sono più editori - e non lo sono se sono a pagamento, ma anche se rinunciano a una loro proposta culturale  - e si arriva per forza alle librerie che non ci sono più o sono solo di catena e magari finiscono per trattare il libro come un capo di abbigliamento. Ce ne sarebbe di che discutere.

lunedì 18 novembre 2013

Se la narrativa ha traslocato dalle grandi città

La verità è che negli ultimi anni le metropoli sono state sempre meno dei luoghi d'esperienza. Ridotte a centri amministrativi o di potere, a mete di shopping o residenze per ricchi (per non parlare dei musei a cielo aperto cui si vorrebbero ridotte tante nostre città), costose e poco inclusive, nei propri luoghi simbolo offrono assai di meno quelle occasioni d'avventura e di incontro (tra diversi) che davano sale alle grandi narrazioni.

Questa è la risposta che si dà Nicola Lagioia, in un bel paginone centrale di Repubblica, a sua firma, di qualche tempo fa (La caduta di Metropolis), in cui  si pone la questione della perdita di centralità della grande città nella letteratura contemporanea.

Bella questione e mutamento di scenari che non avevo colto completamente, anche se la realtà come sempre è più articolata: il fascino della provincia non è solo di oggi (non scrive da oggi Philip Roth, con la sua Newark che è un altro mondo rispetto a New York) e comunque c'è ancora tanta narrativa che vive grazie alla linfa vitale di metropoli come Berlino, Londra, Parigi, Barcellona.

Eppure è vero - come è vero che anche in Italia da anni c'è più provincia che Milano o Roma - è vero che Londra non più la Londra di Dickens, che Parigi non è più la Parigi di Proust e Balzac.

E sarà che la grande città ha perso diverse delle sue attrattive, sarà che sono altri i luoghi di vita e di lavoro cui si aspira nel nostro immaginario. Però mi piace, mi piace pensare che in questo modo il mondo si sia fatto più largo e che la letteratura sia stata brava ad abitarlo.


martedì 12 novembre 2013

Mankell, non solo noir: un ponte per l'Africa

Anni fa ho scritto una piéce intitolata Lampedusa.

Non capisco perché ci vogliano centinaia di morti prima che qualcosa cambi davvero, prima che si rifletta seriamente sull'immigrazione.

Quella di Lampedusa non è una questione italiana, ma dell'Europa tutta. 

Dove sono gli intellettuali? Dove sono i giovani? Vogliono solo diventare idoli della tv? Perché fino a oggi c'è stato silenzio? 

La cosa migliore che potremmo fare in questo momento è costruire un ponte che si colleghi all'Africa.

(Henning Mankell, da un'intervista di Dario Pappalardo su Venerdì di Repubblica)


mercoledì 30 ottobre 2013

Se riscrivere un classico non è sacrilegio

Sacrilegio o lavoro sacrosanto perché i classici non smettano di parlarci? Intrigante il dibattito che in queste settimane è stato alimentato da più parti - anche con il servizio di apertura del Venerdì di Repubblica - a proposito della riscrittura dei classici in una lingua più vicina ai nostri tempi, la nostra lingua.
Cosa che diversi editori hanno cominciato a fare, anche con operazioni decisamente ambiziose, basta pensare al Decamerone affidato da Rcs ad Aldo Busi.

Il dilemma non è da poco. Difendere con rigore il testo originale, condannandolo però nei confini della riserva indiana dei pochi specialisti? O permettere che sia liberamente reinterpretato, consegnandolo a una più vasta platea di lettori ma con il rischio di tradirlo?

Ovviamente il dilemma esiste anche perché gli aut-aut in fondo ci piacciono e che pure ci semplificano la vita. Non capisco perché le due cose non possano coesistere, anche nella stessa edizione.

Ma se proprio, sono convinto che anche alle grandi opere debba essere permesso di mettersi in movimento. Di cambiare, come cambia incessantemente la nostra lingua. La penso insomma come Lara Crinò, sul Venerdì:

Dare ai classici nuova vita, nella consapevolezza che un classico, come diceva Calvino, non è solo "il libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire", ma anche quello capace di sopportare trasformazioni, riscritture.

Magari sfuggendo così alla maledizione dei 24 solo 24 lettori. E conquistandone di altri, anche fuori dei recinti dell'obbligo scolastico. 

sabato 12 ottobre 2013

Alice Munro, il Nobel nelle parole di Irene Bignardi

Raccontava le ragioni per cui ha scelto come forma prediletta il racconto, che è l'altro vincitore di questa edizione del Nobel: perché, dice, in una vita travagliata, sin da quando era una ragazzina terribilmente povera, con un padre che, nei postumi della Grande depressione, passava da un disastro all'altro, con una madre malata, poi da giovane moglie e madre divisa tra fatica, mancanza di denaro, dolori, non ha mai avuto il tempo e l'agio per affrontare la complessità del romanzo, e ha dovuto accontentarsi del tempo utile per creare una cosa più piccola - all'apparenza. Scoprendo così che la misura del racconto le è congeniale, le permette la necessaria concentrazione, le garantisce lo spazio che desidera.

(da Irene Bignardi, Alice e il Nobel, da Repubblica dell'11 ottobre)

mercoledì 2 ottobre 2013

L'impossibile impresa di Flaubert contro la stupidità

Usciva esattamente cent'anni fa, pubblicato postumo, sorta di omaggio a un'impresa impossibile incastonata in un'altra impresa impossibile. Però da allora ne ha fatta di strada, anche senza più il suo autore, ad accudirlo come una sorta di figlio o di magnifica ossessione.

Parlo del Dizionario dei luoghi comuni di Gustave Flaubert, che non intendeva essere solo un'antologia di luoghi comuni, ma assai di più. Come ricorda Giuseppe Marcenaro sul Venerdì di Repubblica, con la sua vocazione enciclopedica, onnicomprensiva, ambiva piuttosto a proporsi come summa dell'imbecillità umana, stupidario definitivo.

Non a caso non era un'opera a se stante, ma la parte conclusiva di Bouvard e Pécuchet, la storia di due ispirati folli (come definirli altrimenti?) che possiedono come unica certezza la carta stampata e come aspirazione finale quella di abbracciare l'intero universo della conoscenza - ma forse sarebbe meglio dire dell'erudizione.

Impresa impossibile, ovviamente, così come è impossibile contenere, anche nella più vasta e aperta delle opere, le forme infinitamente mutevoli della stupidità umana. Flaubert lo sapeva, anche se già da ragazzino la cosa l'aveva preso. Siccome c’è una signora che viene da papà e ci racconta sempre delle sciocchezze le scriverò. Così a solo nove anni.

Lui - l'uomo che ci ha regalato l'immortale personaggio di Madame Bovary - sarebbe morto mentre era ancora impegnato a scrivere le gesta della stupidità.

Cent'anni sono passati dal primo Dizionario. E se Madame Bovary è sempre lì, sempre lei, quante ne abbiamo viste, per quanto riguarda la stupidità. Basterebbe prendere nota in una serata alla tv. Rimpiangendo un altro implacabile Flaubert. 

mercoledì 7 agosto 2013

La storia è acqua di mare raccolta in un bicchiere

Pensare, ricordare, vagabondare e mettere tutto in relazione: i segni della realtà esteriore con le storie piccole e grandi del mondo.

Eccola qui, la nuova frontiera della scrittura, forse capace di salvarci dal respiro corto di una narrativa in crisi e di andare oltre confini che prima sembravano invalicabili. Invenzione, trame, personaggi che vivono sola sulla carta? Piuttosto è il tempo della verità che si fa largo tra le pagine, con esperienze vissute e cammini intrapresi. E di scritture che sanno mettere insieme saggistica e narrativa, autobiografia e riflessione, viaggio, anche senza meta, ed esplorazione nella biblioteca universale.

Ma soprattutto non c'è più bisogno di una storia compiuta, con suo inizio e un suo epilogo, di un intreccio che si scioglie, di un enigma che si rivela, dell'ultima tessera che va al suo posto. Perché non è così la vita., che semmai è peregrinare, è istinto e casualità.

Di tutto questo si parla - molto bene - in un paginone centrale di Repubblica di qualche giorno fa, a firma di Cristiano De Majo, Scritture vagabonde. Addio trame, la letteratura diventa arte della divagazione.

Divagazione per cui sono indicati padri nobili quali il Montaigne dei Saggi e il Rousseau delle Fantasticherie del passaggiatore solitario (nell'elenco manca, mi pare, il grande Laurence Sterne), per arrivare ai nostri tempi con un grande come Sebald. E si racconta in particolare di un libro, The Faraway Nearby ("la lontana vicinanza") di Rebecca Solnit (credo non ancora tradotto in Italia), libro che è un flusso di pensieri, riflessioni, racconti, esperienze in cui ogni molecola d'acqua è collegata all'altra dando forma a un insieme che fa perdere le tracce dei singoli componenti. Libro da cui è prelevata questa frase:

La materia di una storia è come acqua raccolta dal mare in un bicchiere e poi di nuovo restituita al mare.

Che è esattamente ciò che penso e che vorrei tradurre nelle mie pagine.

lunedì 5 agosto 2013

Boris, se tu sei qui a raccontarlo


A quasi cent'anni, ho imparato la sopportazione.

Così dice il grande Boris Pahor in un'intervista di Antonio Gnoli, pubblicata su Repubblica qualche settimana fa, mentre si avvicina al secolo di vita e ancora gira per l'Europa per raccontare i suoi libri e coltivare la memoria. Del resto per spostarsi prende l'autobus e per un'intervista può fissare ancora a un bar. Ma perché va ancora in giro?

Vado perché sta crescendo il disinteresse per il passato. Dilaga l'oscurità e con essa l'indistinzione.

Domanda: e il futuro?

Non mi aspetto granchè. Se ragiono con la mente mi fido poco dell'uomo e delle sue pulsioni. Basta vedere cosa è accaduto nel Novecento. Ma poi mi dico: Boris, se tu sei qui a raccontarlo, e qualcuno ancora ascolta, allora non si è proprio soli. Non abbiamo del tutto fallito.

venerdì 2 agosto 2013

Se le oasi del libro si mettono in cammino

Tre storie raccontate sulla Repubblica di ieri da Elena Stancanelli, tre storie che non sono solo di amore per i libri, di più, sono l'amore per i libri che si mette in movimento per portare i libri dove i libri non arrivano.

La prima. Filippo Nicosia, che con mille euro ha comprato un vecchio furgone e li ha caricati di libri con cui andrà in giro per la Sicilia, ogni giorno un luogo, una piazza, un'occasione di incontro. Con la consapevolezza che i libri non sono articoli in vendita come gli altri. Con questa consapevolezza e l'orgoglio: "Venderò solo libri che mi piacciono, e saprò raccontarli meglio". (per seguire la sua avventura c'è anche un blog)

La seconda. Davide Ruffinengo, un altro libraio itinerante, e prima di tutto un "personal reader", espressione che mi era ignota, ma che, a ben considerare, richiama ciò che ogni autentico libraio dovrebbe fare: suggerire, consigliare, porgere il libro giusto per ognuno. Anche lui si è messo per strada. Se Filippo ha chiamato il suo progetto Pianissimo, il suo è una citazione: Il libraio suona sempre due volte.

La terza. Valentina Rizzi, che con il finanziamento di un bando della creatività si è comprato un Ape e ne ha fatto una libreria itinerante, a caccia dei propri lettori. Un'altra book car, ora le chiamano così: e mi piacciono.

Cronache dal paese della desertificazione culturale. Sorpresa: le oasi ci sono ancora. Anzi: le oasi non stanno più ferme.

giovedì 25 luglio 2013

Invidia per l'Islanda: con la crisi comprano più libri

Un famoso proverbio islandese dice: "Cieco è colui che non legge".

"In Islanda tutti, a Natale, ci scambiamo libri", conferma Audur Ava Olafsdottir, una delle più grandi scrittrici viventi.

"Poi, certo", continua, "mica li leggiamo tutti. Ma pensi che, nonostante la grave crisi del 2008, oggi gli islandesi comprano più libri e frequentano di più teatri e concerti"

(da Antonello Guerrera, Il vero segreto? Sconfiggere la crisi con lo humour, Repubblica del 16 luglio 2013)

domenica 7 luglio 2013

Elizabeth Strout e il suo mondo, lassù nel Maine


Elizabeth Strout è una delle scrittrici più profonde e raffinate della scena letteraria americana.

Schiva, ironica ed estremamente acuta, vive nel Maine, limitando le frequentazioni sociali: il mondo culturale newyorkese è una realtà con cui si confronta a piccole dosi e con la massima cautela, mentre il mondo rurale dello stato in cui è nata rappresenta il retroterra imprescindibile di una commedia umana nella quale sa individuare con ammirevole capacità introspettiva splendori e miserie, speranze e delusioni.

Non è un caso che nelle sue storie ci siano personaggi ricorrenti. Prima che un piacere, la scrittura per la Strout rappresenta una necessità catartica, che lei affronta con rigore quasi monastico: da questo punto di vista, il suo lavoro è paragonabile a quello di Alice Munro e Annie Proulx.

(da Antonio Monda, Pastorali Americane, intervista all'autrice premio Pulitzer su Repubblica)


domenica 19 maggio 2013

I libri italiani peggio che in un tunnel


No, non usate più la metafora del tunnel, almeno per il mercato del libro in Italia. Troppo ottimismo. E' come dire che prima o poi la crisi finirà e presto torneremo alla luce. Troppo ottimismo, appunto. E non è questa l'aria che si respira al Salone del Libro di Torino.

I dati, resi noti dall'Aie (cioé dall'Associazione Italiana Editori), sono impietosi. Nei primi quattro mesi del 2013 le vendite hanno segnato un - 4,4%, che si aggiunge al - 15% dei due anni precedenti: un intero settore industriale che sta sparendo, insieme alla possibilità di fare e condividere cultura in questo paese.

E  niente foglie di fico, per favore. Questa non è solo una rivoluzione tecnologica, dato che il libro digitale oggi rappresenta solo un misero tre per cento del mercato complessivo. Semmai il crollo delle vendite non coincide del tutto con un crollo delle letture, se è vero che anche a Torino in questi giorni si è fatto la coda agli stand che proponevano libri in offerta a un euro.

E sapete, questo mi sembra anche peggio, anche dopo aver riconosciuto che le tasche degli italiani sono sempre più vuote. Fatto sta che per uno smartphone o un prodotto dietetico si può ancora essere disposti a spendere. Per la cultura no, la cultura va bene se si regala.

Scrive Simonetta Fiori, su Repubblica, in un articolo dal Salone pubblicato col titolo Librolandia nel paese dell'ignoranza:

Da noi non si intravede nessun barlume, dicono gli affannati abitanti della libropoli torinese. Solo un precipizio di mille metri, come quello avvistato da Willy il Coyote.

Solo che il mitico Willy dopo il precipizio e l'impatto al suolo si rivede di nuovo in pista, a tentarci per l'ennesima volta con il maledetto Bebeep. Con i libri non funziona così. 

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...