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giovedì 23 aprile 2020

Il buon giornalista, i Balcani e la guerra smascherata

Il bene prevale numericamente sul male, ma non sa fiutare il pericolo.

Ha quasi un quarto di secolo, questo libro, ma ben pochi sono i granelli di polvere che si sono depositati sulle sue pagine, molte le parole, come queste, che andrebbero scolpite. Non è solo il reportage appassionato di un grande giornalista viaggiatore nella guerra che alla fine del secolo scorso insanguinò i Balcani, in paesi cui oggi non ci viene più di riferirci come ex Jugoslavia. E' molto di più, come per i libri di un altro reporter nei conflitti del Novecento, meglio se periferici e dimenticati, Ryszard Kapuscinski: che in Angola come in Bolivia raccontava storie che avevano piedi ben piantati per terra, ma non appartenevano solo alla cronaca. 

Così Paolo Rumiz e questo suo libro, Maschere per un massacro (Feltrinelli), opportunamente riedito a parecchi anni di distanza dalla prima uscita, mentre l'ex-Jugoslavia pareva già finita negli archivi della storia. Invece è ancora qui, deve essere ancora qui, con la sua lezione che vale per ogni guerra e direi per ogni crisi - anche laddove le armi tacciono - per ogni situazione in cui la tentazione di giocare a carte coperte o false è troppo forte. 

Un imbroglio, questa è la parola con cui Rumiz riassume ciò che si mise in moto per innescare quel conflitto. Perchè tale fu quel massacro costruito in laboratorio e sdoganato ai fessi come conflitto di civiltà, scontro tribale o generica barbarie. Imbroglio di cui molti furono complici, anche solo per conformismo, ignavia, pigrizia intellettuale. Persino rispettabili professori di linguistica o storici di secoli andati: perchè per predisporre la guerra si mobilitarono i vocabolari, si chiamarono a raccolta i morti, si fece del passato un deposito di munizioni. 

Maschere e bugie, ma anche una verità da opporre: L'odio esplode solo se c'è qualcuno che decide di servirsene. Individuare chi e come, ecco cosa può fare il buon giornalista, l'uomo che ha occhi per guardare e voce per le domande giuste.


 

domenica 6 maggio 2018

Per il mondo da giornalista allergico ai luoghi comuni

Sono un giornalista, e spesso i giornalisti cercano scampo nella cuccia tiepida dei luoghi comuni.

Così dice Flavio Fusi, giornalista di lungo corso che per decenni ha girato il mondo in lungo e in  largo, dalla Bosnia al Nicaragua, dal Kosovo al Chiapas, dalla Cecenia al Ruanda, insomma in ogni luogo dove un confine si sbriciolava oppure si faceva muro, le urne lasciavano il posto alle fosse comuni e la contabilità degli uccisi e degli esuli metteva in fila gli zeri. 

Lo dice all'inizio del suo Cronache infedeli (Voland editore), libro in cui appunto racconta le sue esperienze di inviato e corrispondente, ben disposto alla sorpresa e comunque allergico ai luoghi comuni. Uno su tutti, che per un certo periodo, dopo il crollo del Muro di Berlino, ha conosciuto una certa fortuna: quello della fine della storia. Figurarsi: ci avrebbero pensato i Balcani a chiudere la questione, qualche anno prima di un secondo e più pervicace luogo comune, quello dello scontro di civiltà.

Ha fatto altro Flavio Fusi, invece che inseguire luoghi comuni nobilitati da visioni e teorie: ha fatto il suo mestiere di cronista. E il cronista, si sa, si valuta dalle scarpe: se è bravo deve aver per forza le suole consumate, perché non si è accontentato del computer in redazione. 

Per una vita Fusi è andato a vedere là dove le cose accadevano. E più che ragionare delle sue idee e convinzioni ci ha mostrato quanto accadeva. Con l'umiltà che è virtù dei migliori giornalisti - penso per esempio a Rzysard Kapuscinski - ovvero dei giornalisti che non guardano al proprio ombelico, ma colgono i volti e gli sguardi, fermano dettagli che parlano da soli, raccontano la grande storia attraverso le piccole storie.

Tutto questo ritroviamo in questo libro filtrato attraverso la memoria e attraverso una grande qualità di scrittura: che non è enfasi e artificio, piuttosto è essere se stessi. 

Be there, essere là, come dicono gli americani. Virtù del giornalista che sta dove le cose accadono, fermo restando che la linea del fronte può essere anche la periferia di una nostra città. Prendere per mano il lettore, accompagnarlo dentro gli eventi,  fargli respirare l'aria: perché anche lui sia là, perché non possa dire "non mi riguarda".

Diceva il grande Kapu che il buon giornalista non può che essere anche un buon uomo: ci ho pensato parecchio, immergendomi in queste pagine. 

venerdì 10 luglio 2015

Il giornalismo al tempo delle bugie

A un dato momento la bugia stampata avrà la meglio su di me.

Questa era l'amara considerazione di Victor Klemperer, studioso del linguaggio tedesco, nella sua opera La lingua del Terzo Reich. Amara considerazione relativa a una verità che si misura con la bugia e che sa che la bugia finirà per prevalere. E' così che funziona: quando le cose finiscono su un giornale, quando iniziano a circolare in rete, quando sono riprese da altre testate, non importa che siano vere, il fatto è che è come se fossero vere.

Di tutto questo parla Luca Sofri, in Notizie che non lo erano. Perché certe storie sono troppo belle per essere (Rizzoli), libro che molto fa pensare e che riesce anche a essere divertente, accompagnandoci in una giungla di equivoci, di sfondoni, di allegre traduzioni e di morti più volte annunciate (su tutti Fidel Castro, il più dato morto dei vivi).

Solo una bella antologia di bufale, come si dicono nel gergo giornalistico? Direi di più, molto di più. Anche perché sfata diversi luoghi comuni. In primo luogo la supposta attendibilità della stampa tradizionale rispetto alle tante cose che circolano in rete. Vero il contrario, piuttosto: di certe cose ci si accorge di più perchè finiscono sul web; e quest'ultimo è piuttosto la cassa di risonanza di ciò che, sventuratamente, finisce pubblicato anche sui migliori dei giornali.

Ma se anche con quest'ultimi non c'è da stare allegri, bisogna solo rassegnarsi alla quotidiana disinformazione?

Forse è a un giornalismo diverso che si può pensare, che metta insieme professionisti e cittadini, nella consapevolezza - lo spiega Jeff Jarvis - che qualunque cosa svolga efficacemente il compito di creare comunità più informate - e quindi meglio organizzate - è giornalismo.

E forse si potrà continuare a fare le pulci - in questo modo mettendo in circolo non un virus letale per il giornalismo, ma vitamine per un giornalismo migliore, più attento e accurato.

O forse potremo semplicemente cavarsela come ci spiega nell'introduzione Craig Silverman:

Muovendoci con diffidenza e sapendo che dovremo arrangiarci, se vogliamo capire cosa sia vero e cosa sia falso in un mondo in cui c'è un sacco di falso, ben stampato. Divertente. 

venerdì 6 marzo 2015

Jean-Claude Izzo, l'uomo che scriveva della miseria



Scrivo della miseria che è davanti ai nostri occhi e che facciamo finta di non vedere. Scrivo perché il lettore si ribelli, e non c'è altro modo che emozionarlo, che farlo innamorare con la verità

Che belle queste parole di Jean-Claude Izzo, scrittore che abbiamo perso troppo presto, autore di grandissimi noir ma prima di tutto cantore di un'umanità dolente. Uomo che sapeva guardare e che non nascondeva il suo sguardo. Gran solitario che aveva un maledetto bisogno degli altri. Allergico a ogni liturgia mondana che si trovò a gestire un successo inaspettato. Legato in modo indissolubile a un solo posto, Marsiglia, ma a un posto che da sempre ha nel suo Dna le lontananze e le mescolanze, porto che è come dire tutto il Mediterraneo, traffici e meticciato, scontri e incontri.

E' un mondo che ho imparato a conoscere anche attraverso i suoi libri, a partire dalla trilogia di Fabio Montale. Calli alle mani e bistrot, zuppe di pesce e casse da scaricare ai moli, mazzi di carte e parole arabe mescolate al francese.

Non sapevo che Jean-Claude Izzo era stato anche un bravo giornalista. Uno di quei giornalisti che non finiscono in televisione a ogni momento o che non sgomitano con il titolo più gridato. Un giornalista che lavorava con pazienza alle sue inchieste e non scriveva delle celebrità della Costa Azzurra, ma di vita in fabbrica e di quartieri dormitorio. Consumava scarpe, Jean-Claude Izzo, perché  un buon cronista fa così, prende e va a vedere. Un giornalista militante, si direbbe oggi, o meglio, si diceva allora.

Non so se ci vedete il nesso, ma per me tutto torna, gli articoli sul lavoro degli operai siderurgici e i personaggi come Lole la zingara. Verità e poesia. Poesia e verità.

lunedì 2 febbraio 2015

Un reporter che non vorrebbe mai raccontare quella storia

Scrivere mi serve quanto a te serve ciò che hai nel bicchiere. Se posso scriverne, vuol dire che posso capirlo. E posso seppellirlo. E' l'unica cosa che voglio fare.

Dopo alcune letture decisamente impegnative, avevo voglia di tuffarmi in un thriller, comuneuq in uno di quei libri dove viene da bruciare una pagina dopo l'altra, per vedere come andrà a finire. Non so voi, ma è anche libri del genere - e di genere - che ritrovo nelle istantanee che ritraggono il piacere della lettura anno dopo anno. Che so, pomeriggi casalinghi con la pioggia battente fuori, influenze con il mal di testa che molla la presa giusto per goderti un romanzo, non troppo difficile però.

Questa volta la scelta è caduta su un autore come Michael Connelly e il suo Il poeta (Piemme). Giusto per la quarta di copertina, a solleticare il mio immaginario:

JackMcEvoy fa il reporter di nera. La morte è il suo mestiere. Ma ci sono storie che nessuno vorrebbe  scrivere. Storie a cui nessuno vorrebbe arrendersi...

Ecco qui, giusto quello che cercavo. E poco importa se tutto sommato la trama si scioglie prima del tempo. Tra queste pagine non c'è solo un omicida seriale da individuare e catturare. C'è per esempio il mondo del giornalismo americano mobilitato su un caso da prima pagina, mondo visto e raccontato dall'interno. E c'è l'Fbi, con i suoi mezzi, le sue procedure... solo per dire, tanto per dare una spinta al tuffo nella lettura.

mercoledì 20 agosto 2014

Un bar per diventare finalmente adulti

Molto prima di avermi come cliente, il bar mi ha salvato. Mi ha ridato fiducia quand'ero bambino, si è preso cura di me quand'ero adolescente e mi ha accolto quand'ero un giovane uomo. Anche se siamo attratti, temo, da ciò che ci abbandona o promette di abbandonarci, alla fine credo che sia quello che ci accoglie a segnarci

Figlio unico di madre single, J.R. insegue la figura del padre, dj di New York, che conosce solo come una voce alla radio. Non lo troverà mai, o lo troverà solo quando sarà troppo tardi, come quasi sempre capita. Ma troverà un bar - un bar di quartiere, di quelli che fanno tanto America - che lo accoglierà con la sua varia umanità e lo farà crescere, accompagnandolo attraverso gli studi, le scelte del lavoro e degli affetti, la difficile battaglia per conquistare un senso e un equilibrio.

Bello, bellissimo, Il bar delle grandi speranze di J.R Moehringer (Piemme)
, uno dei più belli tra quanti letti negli ultimi tempi. Un libro che ho sottolineato fino a consumare la matita e da cui, a distanza di mesi, pesco ancora una pagina, una citazione.

Per intendersi, non un libro sull'alcol e relative sbronze. Si beve molto, certo, ma qui non siamo nei paraggi di Charles Bukowski e delle sue mosche da bar. Piuttosto è una storia su come si diventa grandi, sulla confusione dei giorni, sul modo in cui se ne può uscire.

E quante cose che ci sono: la gente del bar come un porto di mare a cui attraccano tutte le storie e i sentimenti, ma anche il rapporto tra la madre il suo unico figlio, una storia di amore poco più che adolescenziale complicata come solo a quell'età, gli esordi di colui che diventerà un grande giornalista... già, perché in questo libro così tenero e appassionante, melanconico e divertente, c'è anche il coraggio dell'autenticità. Il valore del raccontarsi mettendosi a nudo.

Un indimenticabile ritratto - leggo nella quarta di copertina - di come gli uomini rimangano, nel fondo del loro cuore, dei ragazzi perduti. Per una volta la quarta di copertina la sottoscrivo al cento per cento.

sabato 31 maggio 2014

Facevo un respiro profondo e mi imponevo di dire la verità...

Non c'era tempo per cedere alle vecchie abitudini, per fare quel che facevo di solito prima di scrivere: stilare liste di paroloni e preoccuparmi dell'effetto che avrei provocato.

C'era tempo solo per i fatti, e così disimparai per necessità, quasi per forza.

Prima di scrivere un articolo per il "Times" facevo un respiro profondo e mi imponevo dire la verità, e così trovavo le parole, o erano loro a trovare me.

Non mi facevo illusioni. Non stavo scrivendo poesie. Non stavo scrivendo il mio capolavoro. Ma almeno quel che vedevo ogni mattina accanto al mio nome era diverso. Aveva una chiarezza, un'autorevolezza che non ero mai riuscito a ottenere prima di allora....

(J.R. Moehringer, Il bar delle belle speranze, Piemme)


mercoledì 14 agosto 2013

La giornalista che voleva cambiare il mondo

Le astrazioni la lasciano indifferente, le speculazioni la irritano. Da buon inglese ama stare con i piedi per terra, ama la concretezza della vita, le idee che hanno gambe per camminare. Ama una praticità da non confondere con un eccesso di attenzione per i propri interessi.

In effetti non sarà mai una pensatrice sistematica, capace di fare ordine, di andare al fondo delle cose. L’intuito conterà sempre qualcosa più della potenza analitica.
 

Poco importa se questo la renderà terribilmente dispersiva, farfalla che vola di argomento in argomento, attratta anche da un solo gesto, purché vi sia impressa l’umanità.
 

No, non è fatta per la filosofia, se questa vuol dire tagliarsi fuori dal mondo, sigillarsi tra tomi polverosi, smarrirsi in trattati.
 

Piuttosto il giornalismo, il giornalismo come lo intende lei: possibilità di porsi al servizio di una causa, di sciogliere l’irrequietezza di giovane studentessa in significati più ampi, di dare un senso alla vita immergendosi nel grande fiume della Storia.
 

E non se la vuole davvero far sfuggire, questa possibilità.
 

Libererà parole e sentimenti per un mondo che non c’è giorno e non c’è notte che non desideri più giusto.

(da Paolo Ciampi, Miss Uragano, Romano editore)

venerdì 1 febbraio 2013

Da Rimini a Capo Verde: andare a capo con la vita

E' un lungo viaggio, dalle spiagge di Rimini a quelle di Capoverde, e può essere ancora più lungo se implica non solo un mare diverso, ma una vita diversa, che taglia il passato con un colpo di cesoie. E figuratevi se in mezzo ci sono anche un delitto a cui ci si è trovati ad assistere, cinque milioni di euro infilati in una borsa e una resa dei conti che si profila all'orizzonte.

E' assai più di un noir, A capo, di tutto di Michele Mengoli (Edizioni del Girasole), giornalista e scrittore emiliano che, a mio parere, ha sostenuto e superato alla grande la prova del primo romanzo: e lo dico convinto, nella consapevolezza che tra i troppi esordi, la troppa carta che oggi finisce in libreria, è facile che si finisca per perdere di vista anche i libri che valgono.

E quante cose che ci sono, in questo noir che è assai più di un viaggio: racconto di una fuga che non è solo fuga dagli assassini, ma anche da una vita che non convince, un paese che ha deluso, soprattutto un lavoro - quello di giornalista - che un tempo era uno dei lavori più belli del mondo e che oggi, oggi chissà cos'è diventato, a parte un residuo straccio di orgoglio.

E quante cose si nascondono in questo titolo, così forte, A capo, di tutto, si nascondono e poi esplodono, sarà anche per quella virgola piantata in mezzo.

Andare a capo, davvero. E Lindo Bentivoglio, giornalista in fuga di A capo, di tutto, non è poi troppo diverso dal Paolo Bianciardi del mio Di diverso parere, giornalista in bilico tra la rassegnazione e la fuga.

Per entrambi un'altra vita e forse un altro lavoro.

sabato 8 dicembre 2012

Quando Firenze era la capitale dell'umorismo

E allora meglio rovesciare la medaglia e soffermarsi su tutto quello che hanno rappresentato i giornali per ridere nella cultura, nella storia, nella coscienza civile e politica. Meglio ragionare su quanto ha contato, nell'immaginario dei fiorentini, l'arte della caricatura: e sottolineare la parola arte, anche se pochi hanno il coraggio di dirla tale.

 Meglio raccontare di penne come Collodi, il babbo di Pinocchio, e come Vamba, il babbo di Gianburrasca. O di matite come  Angiolo Tricca, Adolfo Matarelli, Nicola Sanesi, tanto per ricordare alcuni grandissimi illustratori.

Con il piacere delle scelte arbitrarie questa storia comincia poco prima dell'Ottocento e si arresta al cospetto della Grande Guerra. Arbitrarie, ma non senza fondamento. Perché è negli anni della Rivoluzione Francese e poi di Napoleone che Firenze tiene a battesimo i suoi primi quotidiani, molto seri, è vero, ma anche capaci di strappare i primi sorrisi. E perché con la mattanza nelle trincee niente sarà più come prima, anche ridere.

Cominciamo, allora. Magari con le parole di un altro grande intellettuale,  Carlo Cattaneo, che parlando di satira ne coniò una bellissima definizione - l'unica che in effetti troverete in questo libro.
La satira, affermò, è un esame di coscienza dell’intera società. Un esame che se non ci fosse bisognerebbe inventare, e non solo perché il buon umore fa bene alla salute, come si dice. La satira è anche il sale che impedisce la corruzione. E dov'è che essa ha campo libero? Cattaneo non aveva dubbi:

L’audacia della Satira è uno dei segnali della superiorità mentale di una nazione... La possente Inghilterra è la patria della caricatura; ogni giorno una legione di giornali si fa specchio inesorabile della vita pubblica e privata...

L'Inghilterra, appunto, la civile, democratica, invidiabile Inghilterra. Ma che dire di Firenze?
Firenze cercava di non essere da meno. E già, proprio così rideva Firenze…

(dall'introduzione a Paolo Ciampi, Così rideva Firenze, Romano editore)

sabato 7 luglio 2012

Il reporter di guerra che non raccontava di eroi

Il giornalismo, spiega David Randall nel suo splendido Tredici giornalisti quasi perfetti (Contromano Laterza), è infestato di invidia professionale non meno di qualsiasi altra attività professionale che si svolga all'insegna di un'insicurezza cronica. E certo non dovette essere poca l'invidia che si attirò su di sé Richard Harding Davis, cronista puro e principe dei corripondenti di guerra americani.

Era bravo, Davis, e soprattutto non piegò le sue capacità a interessi di parte o peggio ancora a calcoli personali. Quanto vedeva, raccontava. Anche nel corso di quella guerra con cui gli Stati Uniti, alla fine dell'Ottocento, strapparono Cuba alla Spagna. La stessa in cui William Randolph Hearst, il potente magnate della stampa americana, pare abbia detto a Frederic Remington, il fotografo che accompagnò lo stesso Davis: Tu procura le immagini, io procurerò la guerra.

Davis la guerra la raccontò. Nella sua insensata crudeltà: guerra non di eroi, ma di uomini che subiscono il destino. E valgano per tutti queste parole:

Un certo numero di granate e proiettili è passato in uno spazio e uomini di differente stazza hanno bloccato quello spazio in differenti punti. Se un uomo si trovava nella traiettoria di un proiettile, era ucciso e spedito al creatore, lasciando una moglie e dei figli, forse, a piangerlo. "Papà è morto", diranno questi figli, "facendo il suo dovere". In realtà il papà è morto perché si è alzato nel momento sbagliato, o perché si è girato a chiedere un fiammifero all'uomo alla sua destra, anziché piegarsi alla sua sinistra, e ha proiettato la sua mole di novanta chili là dove un proiettile, sparato da un uomo che non lo conosceva e non aveva puntato contro di lui, si è trovato a pretendere il suo diritto di precedenza. Uno dei due doveva cedere e, poiché il proiettile, non ha voluto saperne, il soldato ha avuto il cuore sfracellato.

martedì 3 luglio 2012

La squadra dei 13 reporter quasi perfetti

A beneficio del futuro è possibile che i cronisti redigano, come si suol dire, la prima bozza della storia; ma per il presente, l'hic et nunc, forniscono qualcosa di ancora più prezioso: la materia prima con cui giudichiamo il nostro mondo e coloro che ricercano il potere al suo interno. E la nostra migliore difesa nei confronti di demagoghi, ciarlatani, agitatori e imbonitori, e verso tutte le menzogne e le mezze verità che questi spacciano, sono i cronisti, specie i grandi.

(David Randall, Tredici giornalisti quasi perfetti, Laterza)

Chissà se esistono giornalisti perfetti, o per l'appunto, quasi perfetti. Chissà se non sono proprio le imperfezioni, che sono le imperfezioni di tutti, a farli grandi, qualunque cosa voglia dire grandi. E vai a sapere come è che si selezionano, questi giornalisti quasi perfetti, tra la folla dei tanti che giorno dopo giorno hanno alimentato o alimentano il grande fiume delle notizie, firme luccicanti e cronisti anonimi.

Forse esiste solo un criterio: l'arbitrarietà elevata a giudizio inappellabile. Ed è quanto ha fatto David Randall, immaginandosi di dirigere una redazione con piena libertà di selezionare i migliori reporter di ogni tempo.

E va bene così, non importa che quasi tutti i prescelti siano per noi del tutto sconosciuti. Da William Howard Russel, l'uomo che per la prima volta raccontò alla gente che cos'era una guerra (che poi era la guerra di Crimea), a Edna Buchanan, la ragazza allampanata che le insegnanti rimproveravano perché non avrebbe mai combinato niente di buono e che invece divenne la più grande cronista di nera di tutti i tempi; da Nellie Bly, che si finse pazza per raccontare un manicomio dall'interno, ad Aloysius MacGahan, a cui si deve probabilmente il più grande pezzo di giornalismo di tutti i tempi (e pensare che si trattava di un reportage da una località sperduta della Bulgaria), la galleria dei personaggi è straordinaria.

Tredici reporter, ma soprattutto tredici grandi storie, ciascuna delle quali meriterebbe un romanzo. Un solo grande atto di amore nei confronti del giornalismo,

Libro non solo bello, perfino utile, in tempi in cui pare che dal giornalismo si possa prescindere, a cuor leggero.

venerdì 13 gennaio 2012

Morte del giornalismo e sua smentita

La notizia della mia morte è stata ampiamente esagerata

Così diceva Mark Twain, immagino dopo aver fatto tutti gli scongiuri del caso. Succede, che a volte si dipinga il futuro più nero di quanto sia, succede che la vista del presente tagli completamente le gambe all'ottimismo. Però c'è un'altra morte che è stata ampiamente esagerata e comunque data prima del tempo: quella del giornalismo.

Che è un po' un ritornello di questi tempi, come se la crisi dovesse essere un tunnel che non finisce più, come se con la fine dei gironali di carta (ma finiranno) rimanesse solo il chiacchiericcio di blog e social network, come se la società dell'informazione, così la chiamano, non avesse bisogno di lavoratori dell'informazione.

Per fortuna ci sono libri come questo di Nicola Bruno e Raffaele Mastrolonardo che sanno guardare oltre, non volando sulle ali di qualche bella teoria della comunicazione, ma andando semplicemente in giro, da bravi giornalisti, a vedere quello che nel mondo già si fa e si tenta.

Il titolo del libro, magari, intriga ma non rassicura: La scimmia che vinse il Pulitzer. Che poi non è nemmeno vero, il verbo casomai va girato al futuro e il soggetto non è una scimmia, è un sofistificato software in grado di sfornare cronache di partite di baseball per conto suo. Non rassicurante certo, anche se poi si parla di reporter che si inventano siti per smascherare le bugie dei politici, di ragazzini capaci di battere sul tempo le più grandi agenzie, di piattaforme di giornalismo partecipativo in grado di raccontare l'Africa che nessuno vuole vedere, di hacker che aprono una nuova era nella cronaca investigativa, magari approdando in un'isola, l'Islanda, che un giorno ricorderemo non solo per i vichinghi ma anche per la sua lezione di libertà.

Sì, forse si può pensare al momento in cui la parola crisi potrà essere sostituita dalla parola transizione. Malgrado gli editori, malgrado quanti si definiscono tali e a volte non lo sono nemmeno di lontano.

lunedì 3 ottobre 2011

Il ragazzo che voleva l'America

Non era passato molto tempo da quando ero arrivato negli Usa con il borsone dell'allenamento del basket e la Olivetti portatile, e ora scrivevo sul tentato assassinio del presidente degli Stati Uniti! Non ci potevo credere. Non potevo credere di essere preso sul serio da stimati professionisti del settore e da centinaia di migliaia di lettori. Io ero sempre quello di prima. Il ragazzo di provincia, che conosceva il basket, quello sì, che amava Henry Miller, Jack Kerouac e Charles Bukowski, ma non aveva mai studiato molto a scuola e sapeva poco di tutto

Voleva l'America, Enrico Franceschini, come da ragazzi si vogliono tante cose. Solo che lui ci ha provato e dopo averci provato non ha mollato. Metteteci fiuto per cogliere le opportunità e certo anche una bella dose di fortuna. Enrico Franceschini l'America se l'è presa. E come. Ragazzo senz'arte nè parte, l'America conosciuta e fantasticata solo sui libri, a New York è sbarcato con mille dollari in tasca, un indirizzo incerto per strappare qualche giorno di ospitalità e una conoscenza dell'inglese da ultimo della classe. Un anno dopo scrive già le sue corrispondenze per l'Espresso, dite poco.

Storia con lieto fine, quasi fiaba metropolitana, ma storia tutto sommato sincera, che ci racconta di una New York dove tutto era possibile, in quegli anni,tra locali off e spezzatini multietnici.

E forse qualcosa ci racconta anche del giornalismo: perché puoi fare il corrispondente dal cuore del mondo anche scopiazzando il New York Times.... ma poi c'è qualcosa in questo mestiere che sfugge, che non si lascia classificare, che resiste al "così lo possono fare tutti", sarà l'amore per la notizia, sarà per la fiammella della curiosità da inseguire sempre, da condividere appena possibile.

martedì 19 aprile 2011

Indro Montanelli e il nonno che non ci credeva

Ci ricordiamo ancora, giustamente, di Indro Montanelli giornalista, il grande fustigatore, il grande scontento, la penna che scorrazzava sulle colonne dei quotidiani per inseguire le miserie della politica e i vizi degli italiani. Aveva una parola precisa e secca come uno schiocco di frusta, Montanelli, una parola che era un po' come la sua silhouette, allampanato e all'osso com'era.

Pochi però si ricordano del Montanelli dei racconti e dei bozzetti, l'altro Montanelli, con la sua bella lingua toscana riposante come un pomeriggio sull'amaca del giardino, con i suoi morsi di nostalgia, con gli odori della terra e i giochi inconsapevoli dell'infanzia.

Mi è ricapitato di rileggerli ora, nell'antologia Indro Montanelli racconta la sua terra, pubbicata dalla Fondazione che porta il suo nome e che anima la vita culturale della cittadina dove è nato, Fucecchio. Che belli che sono.

Tra tutti, l'ultimo che, tra le tante cose, racconta dei suoi primi passi di cronista. Racconta cioé di come in casa entrasse solo uno dei pochi giornali su cui lui non avrebbe mai scritto. Di come il nonno, che prendeva proprio quel giornale come il Vangelo, non lo prendesse sul serio. E di quanto ci rimaneva male lui, il ragazzino che sarebbe diventato uno dei più grandi inviati speciali della nostra storia.

Il successo, che nemmeno il nonno avrebbe più potuto mettere in discussione, arrivò troppo tardi.

E nelle parole di Indro c'è tutto il rimpianto che, per altri motivi, è cosa di ognuno di noi:

E penso con  malinconia quanto ci corbelli la Gloria: ci mettiamo alla sua ricerca sognando di vedercela riconoscere in famiglia da giovani, e invece ci vien tribitata negli anni della vecchiaia, quando (forse) non c'interessa più


martedì 5 aprile 2011

Ci vogliono uomini buoni per il buon giornalismo

(Dal mio I due viaggiatori, Mauro Pagliai edizioni)

Africa, Africa. L’Africa del buon giornalismo. Lo avevo già letto e amato, ma l’altro giorno rincorrendo Emilio redattore della Nuova Arena lo sguardo mi è scivolato sullo scaffale dove tengo tutti i libri del grande Riszard Kapuscinski. Mi sono fermato sulla costola di Ebano, è stato un attimo prenderlo, sfogliarlo, lasciarmi catturare dalle sue pagine ancora una volta.

Per me è il più bel libro di questo straordinario giornalista viaggiatore, di questo uomo che i luoghi della terra non si limitò ad attraversarli e a raccontarli, ma prima li volle abitare, con il corpo, con il cuore, con l’anima.
Inviato speciale, ma inviato che non frequenta gli alberghi di lusso, le cittadelle del privilegio, gli appuntamenti mondani dove è facile scroccare oppure mettere tutto in nota spese.

Inviato come uomo che vivrà la stessa vita di chi intende poi scrivere.

Kapuscinski mi ha insegnato davvero il viaggio come stupore, come immedesimazione, come rivelazione in cui si smarriscono le proprie certezze per confrontarle con quelle altrui.

E in Ebano c’è tutta l’Africa, c’è tutto questo immenso continente bellissimo e dolente. Sembra avvertirne il canto, sembra cogliere il sangue che pulsa nelle sue vene.

E da qui mi riesce facile  tornare a Emilio, alla sua Africa raccontata dalla redazione, confondendo le acque dell’Adige con quelle del Nilo e del Congo.

È evidente che non è la stessa cosa. Però mi sa che in un posto si può entrare  in molti modi e che preparazione e onestà sono un buon punto di partenza.

Bisogna tenersi stretto quello che una volta affermò Kapuscinski:

Credo che per fare del buon giornalismo si debba innanzitutto essere degli uomini buoni. I cattivi non possono essere buoni giornalisti. Solo l’uomo buono cerca di comprendere gli altri, le loro intenzioni, la loro fede, i loro interessi e le loro tragedie. E di diventare subito, fin dal primo momento, una parte del loro destino.

Ecco, queste non sono solo parole. Bisogna essere uomini buoni per essere buoni giornalisti.

martedì 8 marzo 2011

Se il giornalismo resiste oltre i giornali

Internet è l'onda del futuro. Solo, non cercate di trovarci un lavoro

Parole come queste di Floyd Norris, giornalista del New York Times, sembrano suonare come una campana a morte per molte cose. Per i vecchi giornali di carta che erano la preghiera laica del mattino, indispensabili come un buon caffé. Per il mestiere di giornalista, in un mondo in cui tutti sembrano ormai in grado di produrre, rielaborare, condividere notizie. Per la stessa possibilità di vivere facendo informazione: paradosso di una società dell'informazione, così si definisce, dove proprio il valore dell'informazione vira drammaticamente verso lo zero.

Però non è questo quanto ci vuole spiegare Enrico Pedemonte, firma storica dell'Espresso e della Repubblica, uomo che di giornalismo ha vissuto e intende ancora vivere. Morte e resurrezione dei giornali. Chi li uccide, chi li salverà (Garzanti): già titolo e sottotitolo aiutano i più depressi e suggeriscono un futuro oltre disastro.

La crisi è anche possibilità. E c'è giornalismo perfino oltre i giornali. Certo non è che può arrivare come manna dal cielo. Ci vuole coraggio imprenditoriale, ci vuole innovazione, ci vuole una società consapevole che l'informazione è un bene quasi pubblico, su cui è importante investire.

E con le parole con cui Pedemonte conclude il libro:

La crisi dei giornali non è un dramma privato di editori e giornalisti, ma un problema della società civile. Che dovrebbe riappropriarsene

venerdì 18 febbraio 2011

Gli scrittori e i cuochi della realtà

Eugenio Montale, che lo stipendio lo portava a casa lavorando al Corriere della Sera, non aveva dubbi:

Il giornalismo sta alla letteratura come la riproduzione all'amore

E se per il grandissimo poeta il giornalismo era il secondo mestiere, altri letterati che si sono cibati di giornalismo ci sono andati giù ancora più pesi. Per Gabriele D'Annunzio era la miserabile fatica quotidiana  (ma tanto miserabile non era, a giudicare dai suoi compensi), per Tommaso Landolfi (che con le collaborazioni ai giornali si pagava i debiti di gioco) si trattava di letteratura alimentare, mentre Ennio Flaiano non risparmiava la sua penna intinta al curaro:

I giornalisti? Chi ci salverà da questi cuochi della realtà?

Traggo questi esempi dall'ultimo numero di Tuttolibri, che dedica la sua apertura, a firma di di Mirella Serri, proprio al rapporto tra letteratura e giornalismo. E tutto gira intorno a questa domanda:

Cosa li ha spinti a indossare l'elmetto e a scendere in campo per quel medium non sempre apprezzato?

Domanda legittima, a cui peraltro non mi sembra difficilissimo rispondere: i compensi delle collaborazioni più la circolazione della firma su testate autorevoli mi sembra possano essere motivo sufficiente.

Mi interessa più un'altra domanda: perché tanto sputare nel piatto in cui mangia?

E aggiungo: perché lo scrittore deve sentirsi degradato quando fa il giornalista (ovvero lo scribacchino fesso di Carlo Emilio Gadda)?

Mi sbaglierò, ma mi pare che questo tradisca un limite di tanti nostri intellettuali, ben disposti a trincerarsi negli orti chiusi delle belle lettere (torri d'avorio?) piuttosto che spendersi nelle libere praterie delle notizie, delle inchieste, dei dibattiti quotidiani.

Eh sì che il nostro giornalismo avrebbe bisogno di buoni scrittori. Non di esercizi di stile, intendiamoci. Ma di ciò che lo scrittore può davvero regalare: curiosità, sguardi diversi, nuove parole per la realtà. E per le tante realtà che hanno bisogno di essere raccontate.

lunedì 3 gennaio 2011

L'inviato speciale fatto fuori dalla velocità

Oltre al mito del giornalista vaggiatore si è (quasi) volatilizzata anche la figura del reporter che si immerge nella realtà in cui è stato catapultato.
Una volta ne aveva il tempo. Restava settimane o mesi sul posto. Oggi la velocità implica anche la fretta

E' dedicato alla "professione reporter", l'ultimo numero del Venerdì di Repubblica. E sono in particolare riflessioni come queste di Bernardo Valli che suonano come una sorta di campana a morto per l'inviato speciale, per il corrispondente di guerra, per il giornalista che, in ogni caso, partiva e arrivava lontano, per raccontarci luoghi ed eventi del mondo, professionista che ci metteva a disposizione il suo sguardo, la sua parola, la sua curiosità, la sua voglia di capire.

Che ne rimane, ora, nel mondo della fretta, dei bilanci in rosso dei giornali, delle nuove tecnologie?

Un tempo il reporter doveva trovare la notizia, oggi la notizia viaggia con lui, ricorda Valli. Se va bene, viaggia con lui.

E quante cose che sono cambiate, in questo senso, anche per chi ama i libri di viaggio, perchè è indubbio che una bella fetta di libri di viaggio sono opera proprio di giornalisti, grandi giornalisti che si trovavano più a suo agio in una capitale straniera o su una linea del fronte che sulla sedia di una redazione. Da Indro Montanelli a Tiziano Terzani, da Luigi Barzini a Oriana Fallaci. Ve li immaginate ancora nell'epoca del turismo di massa?

Però... però... anche Bernardo Valli alla fine apre più di uno spiraglio sul futuro del caro vecchio reporter:


Ha perduto da tempo il talismano della notizia, ma ha conservato quello più sofisticato, più prezioso, dell'analisi della notizia. 

E quello del racconto. Gli è riservato un compito meno popolare, ma più essenziale. Che non richiede tanto l'educazione delle scuole di giornalismo, quanto un'esperienza che non dipenda dal teleschermo e dalla memoria informatica. Ma di qualcosa di più vivo. Di più autentico

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