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mercoledì 6 agosto 2014

Chi riscopre Tarchetti, poeta della Scapigliatura

Meno male che c'è chi non si arrende e, anzi, proprio ora ci prova. Malgrado la crisi, malgrado i conti che non tornano mai, malgrado i tempi bui non solo per le vendite ma anche per la fatica che fa a farsi largo la qualità. Meno male che esistono ancora case editrici senza grandi spalle, ma che vanno avanti con le  loro proposte che niente hanno a che vedere con calcoli miopi che alla lunga fanno solo male. In natura c'è la biodiversità, ma anche nella cultura c'è qualcosa di simile, da tenere come cosa preziosa.

Prendete per esempio DeComporre edizioni, casa editrice di Gaeta, piccola, coraggiosa, intraprendente. Ricca soprattutto di passione, e lo posso dire, visto che ho avuto modo di conoscere le persone che la animano.

Ecco una loro proposta: Disjecta di Iginio Ugo Tarchetti.

Chi era, Iginio Ugo Tarchetti? Nemmeno io lo conoscevo, eppure un posto nella letteratura italiana ce l'ha avuto. Siamo verso la metà dell'Ottocento. Tarchetti è un ragazzo che ha appena voltato le spalle a una promettente carriera nell'amministrazione militare. Si è trasferito a Milano, che non è più la Milano degli Asburgo e delle Cinque Giornate. E' sempre più la Milano della buona borghesia, ma allo stesso tempo è la città dove soffia una brezza di inquietudine, che chissà, forse un giorno si farà tempesta.

All'ombra della Madonnina il nostro entra in contatto con i salotti della Scapigliatura e ne diventa una delle penne più rappresentative. Scrive, scrive molto, prima di morire troppo presto, a nemmeno 30 anni, consumato dalle difficoltà economiche e dalla tisi: epilogo quasi scritto sui muri per un poeta dell'Ottocento, per uno scapigliato che come tale non immaginiamo a mettere su famiglia e a invecchiare.

Disjecta è la sua raccolta poetica, pubblicata postuma nel 1879. Io la trovo bella, intensa, commovente. Può piacere o non piacere. Fatto sta che a riproporla, nella sua versione originale e integrale, è oggi DeComporre. Non uno dei nostri grandi editori. E allora: facciamo tesoro dei nostri piccoli.

lunedì 23 dicembre 2013

Il bello delle presentazioni è che i libri non sono gli stessi

Finito un bel giro di presentazioni del mio ultimo libro, Il babbo era un ladro, posso almeno dire una cosa: non so quanto sono riuscito a motivare alla lettura chi per caso o per sua responsabilità è stato a sentirmi; ma in ogni caso io ora ne so un po' di più di cosa ho scritto.

Per esempio quella sera alla Biblioteca delle Oblate, quando un lettore attento e rigoroso come Leandro Piantini ha puntato il dito su tre parole di una frase che sulla pagina sembrava finita quasi per caso: Era anche altro, per poi assicurare: questa frase è l'architrave della storia. Ora questa frase suona diversa anche per me.

O come la volta dopo, a Palazzo Medici Riccardi, quando un poeta e amico come Michele Brancale ha affermato che il vero tema del libro era il tempo che fugge e che questa, malgrado il titolo, non è una storia di furti da codice penale, ma una storia di furti esistenziali. E io me lo sono appuntato, perché, tra l'altro, è una cosa bella da dire.

O come l'altra sera a Gaeta quando un'altra persona che con la poesia ha molta confidenza, Sandra Cervone, ha spiegato che il filo comune dei miei libri è il rapporto tra genitori e figlio. E questo non me n'ero mai accorto, ma poi ho pensato a Una famiglia, a Una domenica come le altre, e mi sono detto: chissà forse è proprio così, forse è questo il nodo che ancora non ho sciolto, forse invece che scrivere altri libri prima o poi dovrò pensare al lettino dello psicanalista.

Il bello delle presentazioni mi sa che è proprio questo, anche se lo può apprezzare solo l'autore. Che ci si arricchisce con altri punti di vista. Che le parole di altre letture ci restituiscono libri diversi.

domenica 27 marzo 2011

Sandra Cervone e la splendida fatica della poesia





Lascerò accesa una sola lanterna.
Alla scia luminosa s’aggrappa l’amore
e vola. Da radici alle pendici. Del cuore



E' faticoso il mestiere della poesia, faticoso e ingrato, perchè si sa, eterna lamentela, la poesia non si vende, la poesia si legge poco, la poesia, soprattutto in questo nostro paese, deve accontentarsi di nicchie, alimentarsi del conforto dei pochi appassionati.

Ma la fatica non è solo del mestiere, è anche della parola poetica in quanto tale: parola che non scorre sulla superficie, come un sms o un messaggio di posta elettronica, parola che esige scavo, profondità, travaglio dei sentimenti, distacco dal superfluo. E proprio per questo parola necessaria, soprattutto in questo nostro paese, che prima ancora che alla cultura mi pare che abbia abdicato a ciò che è autentico, a ciò che dà spessore e senso.

A tutto questo ho pensato in questi giorni, leggendo e rileggendo I petali e la luna di Sandra Cervone, poetessa di  Gaeta che da molti anni oramai si cimenta con questa fatica. Con coraggio, con raffinata sensibilità, con matura consapevolezza di un lavoro poetico che cerca davvero la parola genuina, non manomessa, essenziale.

Parola mai fine a se stessa, mai isterilita in gioco formale fine a se stesso. Perché la poesia, per quanto mi riguarda, deve saper dire, deve saper strappare vita al non detto. Deve essere sangue, pulsazione, lampo di luce.

Tutto questo, ritrovo in quella bella raccolta, che arricchisce la la bella offerta di un editore bravo a scommettere sulle voci nuove come Perronelab.

Ho richiuso il libro, sprofondato nel mio divano in salotto. Ma a lungo mi sono sentito terra, terra e mare. Altri orizzonti e vento a spazzare via nubi. Come se l'aria e la luce di Gaeta, del Mediterraneo di Sandra Cervone, mi fossero entrati in casa portandomi in dono le parole della vita.






sabato 10 ottobre 2009

A Gaeta il cecchino e la bambina

More about Il cecchino e la bambinaQuando viaggiare è addentraci negli orrori e i dolori del mondo, dietro a un lavoro che ogni giorno ti chiede di liofilizzare in titoli e notizie tutto quanto investe la vita e la morte di innumerevoli persone, in una routine a rischio di cinismo. Quando quello stesso lavoro diventa rigore, responsabilità, testimonianza di umanità.

Tutto questo c'è dentro il libro di Franco Di Mare, Il cecchino e la bambina, che in questi giorni, tra l'altro, ha vinto il premio Città di Gaeta per la letteratura di viaggio e di avventura (per inciso, ero in giuria e ho partecipato alla premiazione: ascoltare Franco di Mare è stata una gran bella cosa, direi uno scatto di orgoglio in un periodo in cui la professione del giornalista è tanto bistrattata).

In questo libro Franco di Mare, inviato di guerra, racconta se stesso, racconta soprattutto le storie che gli si sono sgranate sotto gli occhi. Senza esibizionismo, senza la tentazione di offrire effetti speciali o chiavi di lettura.

Ricordi in successione, dall’assedio di Sarajevo fino al genocidio del Ruanda. Le pagine volano trascinandoci da una latitudine all’altra delle tragedie del nostro pianeta. A volte Franco Di Mare ci lascia un po’ così, quasi ci socchiudesse la porta e poi ci lasciasse fuori. Ma in realtà ogni capitolo è segnato dall’intensità di un giornalista che non si avvicina al suo lavoro con la freddezza del chirurgo.

E poi il suo è un modo diverso di raccontare rispetto ad altri inviati, un modo a cui siamo meno abituati: Franco Di Mare viene dalla televisione, da un lavoro che ti chiede di sintetizzare in un minuto e mezzo gli eventi di una giornata, da un lavoro che pretende di raccontare assai di più con un fotogramma che con mille parole. Ogni sua pagina è un'inquadratura: che arriva al cuore, che scuote, che passa ma non tu lascia come prima.

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