Una piccola isola di parole nel grande oceano della rete per condividere libri e mondi
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sabato 23 luglio 2011
domenica 26 giugno 2011
Professione ghostwriter, la fiera della vanità
Essere un fantasma ha diversi vantaggi, specialmente se si gode del privilegio di ricoprire questa posizione quando si è ancora vivi
Di rado se ne sente parlare. Ancora più di rado si sente loro parlare. Intendo i ghostwriter, coloro che prestano la loro parola a chi parola non ha, ma ha comunque ha gran voglia di raccontare una storia o anche esibire se stessi, o dare forma a un'idea, oppure vedere il proprio nome sulla costola di un libro.
A forza di prestare ad altri la loro parola, insomma, quasi sempre il ghostwriter non ha più la parola per se stesso. Per questo ho letto con molto piacere quanto di sé dice sul Venerdì di Repubblica Fabio Rizzoli, uno di questi fantasmi. Che chissà, forse mi è già capito anche di leggere, vai a sapere però sotto quale altro nome.
Quando le persone vengono a sapere come mi guadagno da vivere, generalmente mi guardano inorridite, neanche avessero appreso che gestisco un traffico d'organi tra Italia e Brasile
Dice Fabio Rizzoli: alla mia professione, sicuramente bizzarra, si è appiccicata l'idea di un che di riproverevole. Come se quella del ghostwriter non fosse nient'altro che l'arte dell'inganno, l'esercizio della simulazione. Pensare che negli Stati Uniti questi fantasmi hanno persino la loro associazione professionale, capace presumibilmente di dettare regole e tariffe.
No, nemmeno io ci vedo niente di riprovevole. Perché dovrebbe esserlo, mettere la propria parola al servizio di chi non ha parola? Semmai mi stupisco dell'altro, del committente, chiamiamolo così. Perché pretendere ciò che non si ha?
Più che l'arte dell'inganno, mi pare la fiera della vanità. Come se un nome su una copertina cambiasse davvero la vita. Vanitas vanitatum...
Di rado se ne sente parlare. Ancora più di rado si sente loro parlare. Intendo i ghostwriter, coloro che prestano la loro parola a chi parola non ha, ma ha comunque ha gran voglia di raccontare una storia o anche esibire se stessi, o dare forma a un'idea, oppure vedere il proprio nome sulla costola di un libro.
A forza di prestare ad altri la loro parola, insomma, quasi sempre il ghostwriter non ha più la parola per se stesso. Per questo ho letto con molto piacere quanto di sé dice sul Venerdì di Repubblica Fabio Rizzoli, uno di questi fantasmi. Che chissà, forse mi è già capito anche di leggere, vai a sapere però sotto quale altro nome.
Quando le persone vengono a sapere come mi guadagno da vivere, generalmente mi guardano inorridite, neanche avessero appreso che gestisco un traffico d'organi tra Italia e Brasile
Dice Fabio Rizzoli: alla mia professione, sicuramente bizzarra, si è appiccicata l'idea di un che di riproverevole. Come se quella del ghostwriter non fosse nient'altro che l'arte dell'inganno, l'esercizio della simulazione. Pensare che negli Stati Uniti questi fantasmi hanno persino la loro associazione professionale, capace presumibilmente di dettare regole e tariffe.
No, nemmeno io ci vedo niente di riprovevole. Perché dovrebbe esserlo, mettere la propria parola al servizio di chi non ha parola? Semmai mi stupisco dell'altro, del committente, chiamiamolo così. Perché pretendere ciò che non si ha?
Più che l'arte dell'inganno, mi pare la fiera della vanità. Come se un nome su una copertina cambiasse davvero la vita. Vanitas vanitatum...
lunedì 20 giugno 2011
Se anche Franzen non ce la fa con La Recherche
Se anche Jonathan Franzen non ce l'ha fatta con Marcel Proust, forse possiamo tutti essere più sereni: abbandoniamo ogni senso di colpa per non aver finito e a volte nemmeno cominiciato uno dei capolavori più citati e mi sa anche meno esplorati della letteratura moderna.
Perchè è così, dici La Recherche e vai in confusione. Arrossisci e provi a dileguarti dalla domanda con qualche frasetta di circostanza. Ma tu l'hai letta? Fossero tutti sinceri con se stessi e con il prossimo, ammettendo la propria ignoranza, magari rivendicandola.
C'è anche chi rivendica letture remote, parziali, rabdomantiche, frettolose (con La recherche?), ma sempre con qualche imbarazzo, perché Proust, si sa, è Proust.
Afferma Angelo Aquaro su Repubblica, a proposito dell'outing di Jonathan Franzen:
L'opera di Marcel Proust incute un rispetto così sacrale che perfino i più grandi ci si rapportano con lo stesso senso di colpevole inadeguatezza che attanaglia il comune lettore
Sarà per questo che il grande Franzen subito dopo l'outing si è lasciato andare a una mezza sorpresa? Ancora no, però questa estate, sapete, magari sarà la volta buona.
Perchè è così, dici La Recherche e vai in confusione. Arrossisci e provi a dileguarti dalla domanda con qualche frasetta di circostanza. Ma tu l'hai letta? Fossero tutti sinceri con se stessi e con il prossimo, ammettendo la propria ignoranza, magari rivendicandola.
C'è anche chi rivendica letture remote, parziali, rabdomantiche, frettolose (con La recherche?), ma sempre con qualche imbarazzo, perché Proust, si sa, è Proust.
Afferma Angelo Aquaro su Repubblica, a proposito dell'outing di Jonathan Franzen:
L'opera di Marcel Proust incute un rispetto così sacrale che perfino i più grandi ci si rapportano con lo stesso senso di colpevole inadeguatezza che attanaglia il comune lettore
Sarà per questo che il grande Franzen subito dopo l'outing si è lasciato andare a una mezza sorpresa? Ancora no, però questa estate, sapete, magari sarà la volta buona.
martedì 29 marzo 2011
Ma perché agli scrittori piace Facebook?
Facebook è la babysitter di noi scrittori persi nella rete, potenzialmente in grado di metterci nei guai
Interessante, davvero interesante, la riflessione che Elena Stancanelli fa sulle pagine di Repubblica (La nuova letteratura dei social network) nel tentativo di spiegare perché tanti scrittori si sono fatti catturare da Facebook, allo stesso tempo raccontando perché lei stessa si è costruita un profilo, l'ha cancellato (perseguitata dalla domanda: ma a che ti serve?) per poi aprirlo di nuovo.
E dunque, perché tanti scrittori dopo aver passato tanti ore a distillare parole per i loro libri poi non trovano niente di meglio che spendere altro tempo per macinare altre parole sul computer. Possibile sia solo per biechi motivi di autopromozione?
Dice la Stancanelli:
Invece ci colleghiamo a Facebook, scambiamo due frasi con qualcuno, sbirciamo le foto di un altro, scriviamo un mini pensiero nello spazio chiamato "cosa stai pensando". E' rilassante, e non incide sulla carta di credito. Ma a cosa serve? A niente
Forse è proprio questo niente una prima risposta. Questa possibilità di parola leggera, scorrevole, non impegnativa, non destinata a rimanere....
Chissà però che da questo niente non possa nascere qualcosa di incredibilmente importante. Non so niente dei romanzi che in America cominciano a essere scritti a forza di cinguettii di Twitter, non so se attraverso Facebook stanno nascendo la lingua e la capacità di racconto del domani, ma sono proprio contento di poter assistere a cosa sta succedendo. E cito ancora, sarà perché Internet è la grande macchina della citazione universale:
D'ora in poi quando i mormoni della letteratura mi chiederanno "sì, ma a che serve?", risponderò che i social network sono i libri del futuro. E potrei anche avere ragione.
Interessante, davvero interesante, la riflessione che Elena Stancanelli fa sulle pagine di Repubblica (La nuova letteratura dei social network) nel tentativo di spiegare perché tanti scrittori si sono fatti catturare da Facebook, allo stesso tempo raccontando perché lei stessa si è costruita un profilo, l'ha cancellato (perseguitata dalla domanda: ma a che ti serve?) per poi aprirlo di nuovo.
E dunque, perché tanti scrittori dopo aver passato tanti ore a distillare parole per i loro libri poi non trovano niente di meglio che spendere altro tempo per macinare altre parole sul computer. Possibile sia solo per biechi motivi di autopromozione?
Dice la Stancanelli:
Invece ci colleghiamo a Facebook, scambiamo due frasi con qualcuno, sbirciamo le foto di un altro, scriviamo un mini pensiero nello spazio chiamato "cosa stai pensando". E' rilassante, e non incide sulla carta di credito. Ma a cosa serve? A niente
Forse è proprio questo niente una prima risposta. Questa possibilità di parola leggera, scorrevole, non impegnativa, non destinata a rimanere....
Chissà però che da questo niente non possa nascere qualcosa di incredibilmente importante. Non so niente dei romanzi che in America cominciano a essere scritti a forza di cinguettii di Twitter, non so se attraverso Facebook stanno nascendo la lingua e la capacità di racconto del domani, ma sono proprio contento di poter assistere a cosa sta succedendo. E cito ancora, sarà perché Internet è la grande macchina della citazione universale:
D'ora in poi quando i mormoni della letteratura mi chiederanno "sì, ma a che serve?", risponderò che i social network sono i libri del futuro. E potrei anche avere ragione.
lunedì 15 novembre 2010
Un Buster Keaton nelle birrerie di Praga
Bohumil Hrabal faticava durante il giorno, però di sera si prendeva il suo tempo in una delle tante belle osterie di Praga e lì si metteva a scrivere pagine che mi immagino inzuppate da tanta birra e ingarbugliate da molte conversazioni sul niente e sul tutto.
Da tutto questo balzò fuori uno scrittore insolito, irresistibile sia nell’umorismo che nella dolcezza surreale e struggente. Una sorta di Buster Keaton della letteratura, mi verrebbe da dire, anche se in effetti Hrabal non lo puoi paragonare a niente che non presupponga il suo essere in tutto e per tutto abitante di Praga.
Treni strettamente sorvegliati è il primo libro che lo ha fatto conoscere anche da noi, grazie anche a un film di Jiri Menzel (nella foto) che da esso è stato tratto: e c'è già tutta la sua forza, la sua inventiva, la sua poesia sbilenca, la sua capacità di strappare un sorriso e un brindisi anche dalle miserie che sono di tutti noi.
Da leggere e volare con la fantasia verso un paese - la Cecoslovacchia - che non c'è nemmeno più.
Da tutto questo balzò fuori uno scrittore insolito, irresistibile sia nell’umorismo che nella dolcezza surreale e struggente. Una sorta di Buster Keaton della letteratura, mi verrebbe da dire, anche se in effetti Hrabal non lo puoi paragonare a niente che non presupponga il suo essere in tutto e per tutto abitante di Praga.
Treni strettamente sorvegliati è il primo libro che lo ha fatto conoscere anche da noi, grazie anche a un film di Jiri Menzel (nella foto) che da esso è stato tratto: e c'è già tutta la sua forza, la sua inventiva, la sua poesia sbilenca, la sua capacità di strappare un sorriso e un brindisi anche dalle miserie che sono di tutti noi.
Da leggere e volare con la fantasia verso un paese - la Cecoslovacchia - che non c'è nemmeno più.
giovedì 4 novembre 2010
Quando la rapidità non fa male
Forse avete letto anche voi la storia di quel concorso letterario aperto a ogni genere di romanzo, basta che i concorrenti rispettino un solo requisito, averlo scritto in appena 30 giorni. Nel caso, vi riporto quanto ha scritto Raffaella De Santis sulle pagine di Repubblica:
Se Jack Kerouac ha scritto On the road in solo tre settimane, perché non tentare. Centinaia di migliaia di aspiranti scrittori sparsi in tutto il mondo in questi giorni ci sperano e intasano con i loro manoscritti il sito web del National Novel Writing Month
Non so se questo concorso mi piace. Certo, a giudicare dal suo successo, pare essere decisamente in sintonia con i nostri tempi. Tempi dove evidentemente la rapidità - e non la lentezza - pare dote essenziale e imprescindibile. In cui la scrittura è quella veloce, quasi automatica, delle email e non quella di chi distilla le parole su uno schermo bianco o peggio ancora su un foglio di carta. Tempi in cui, peraltro, i libri entrano nelle librerie e ne escono con lo stesso ritmo dei turisti in un villaggio vacanze.
E dunque, pensandoci un po' di più questa idea mi piace ancora meno. Però se insisto a pensarci l'occhio mi casca anche sul titolo dell'articolo: Quei grandi romanzi scritti in pochi giorni.
E allora è giusto ricordarsi di Jack Kerouac e dei tanti altri che volarono sulle pagine. Stendhal che completa La Certosa di Parma in appena 52 giorni tenendo fuori di casa tutti gli scocciatori ("Il signore è a caccia" dice la servitù). Fedor Dostoevskij che impiega solo 26 giorni per Il giocatore. Graham Greene, William Faulkner, Luigi Pirandello che in una manciata di settimane sfornano capolavori.
E allora preferisco sospendere il giudizio. Perché mi sa che non conta quanto si è veloci, ma quanto si ha da dire. Quanto ci si sente a proprio agio in quello che si dice. E sarà banale, ma è proprio così.
Se Jack Kerouac ha scritto On the road in solo tre settimane, perché non tentare. Centinaia di migliaia di aspiranti scrittori sparsi in tutto il mondo in questi giorni ci sperano e intasano con i loro manoscritti il sito web del National Novel Writing Month
Non so se questo concorso mi piace. Certo, a giudicare dal suo successo, pare essere decisamente in sintonia con i nostri tempi. Tempi dove evidentemente la rapidità - e non la lentezza - pare dote essenziale e imprescindibile. In cui la scrittura è quella veloce, quasi automatica, delle email e non quella di chi distilla le parole su uno schermo bianco o peggio ancora su un foglio di carta. Tempi in cui, peraltro, i libri entrano nelle librerie e ne escono con lo stesso ritmo dei turisti in un villaggio vacanze.
E dunque, pensandoci un po' di più questa idea mi piace ancora meno. Però se insisto a pensarci l'occhio mi casca anche sul titolo dell'articolo: Quei grandi romanzi scritti in pochi giorni.
E allora è giusto ricordarsi di Jack Kerouac e dei tanti altri che volarono sulle pagine. Stendhal che completa La Certosa di Parma in appena 52 giorni tenendo fuori di casa tutti gli scocciatori ("Il signore è a caccia" dice la servitù). Fedor Dostoevskij che impiega solo 26 giorni per Il giocatore. Graham Greene, William Faulkner, Luigi Pirandello che in una manciata di settimane sfornano capolavori.
E allora preferisco sospendere il giudizio. Perché mi sa che non conta quanto si è veloci, ma quanto si ha da dire. Quanto ci si sente a proprio agio in quello che si dice. E sarà banale, ma è proprio così.
sabato 9 ottobre 2010
Anche voi nel mare dove ci sono i coccodrilli
Come si fa a cambiare vita così, Enaiat? Una mattina, un saluto.
Viene da lontano, Enaiat. Viene da un paese che per noi è sinonimo solo di brutalità e violenza, di orrore concentrato in trenta secondi al telegiornale che ormai non fanno più né caldo nè freddo, sarà per questo che nemmeno immaginiamo che qualcuno possa arrivare da quel paese, è come sbucare fuori dallo schermo, chi é che davvero può arrivare?
E poi cosa c'entriamo noi? E' facile chiudere gli occhi, non pensarci, lasciare che Enaiat scivoli via, scompaia tra gli innumerevoli che migrano e non sanno dove andare e comunque costituiscono un problema: da evitare o da gestire, secondo le opzioni della politica.
E' facile, anzi, è scontato.
Perchè Eianat sia davvero Eianat bisogna restituirgli voce. Bisogna affidargli la possibilità e il diritto del racconto. La parola capace di costruire una storia e un'identità.
Ecco, è proprio questo che succede in Nel mare ci sono i coccodrilli di Fabio Geda.
Enaiat, il ragazzino afghano che è costretto a lasciare tutto, per una speranza di vita, semplicemente per una speranza. Fabio, lo scrittore, che ascolta e in questo modo ci permette di ascoltare.
Due vite che si incrociano per capire che su quei barconi alla deriva, su quelle navi della disperazione non ci sono numeri.
Banale, retorico? Leggetelo come si mangia un frutto appena colto dall'albero, magari una di quelle mele che per Eianat sono una stretta al cuore, perché gli rammentano il suo villaggio (Per fare luce usavamo le lampade a petrolio. Ma c'erano le mele. Io vedevo la frutta che nasceva). Divoratelo come si fa con una cosa buona e genuina.
E di pagina in pagina vi troverete voi su quel barcone, vi troverete voi in una città di cui non sapete leggere nemmeno i nomi delle strade, voi sotto gli occhi di tutti, nudi come può esserlo il peggiore destino.
E sarete voi a risvegliarvi ogni giorno con la paura di chi non ha niente e con la speranza di trovare finalmente il proprio posto al mondo.
Come si trova un posto per crescere, Enaiat? Come lo si distingue da un altro?
Lo riconosci perché non ti viene voglia di andare via. Certo non perché sia perfetto.
Lo si fa e basta, Fabio.
Una volta ho letto che la scelta di emigrare nasce dal bisogno di respirare.
E' così. E la speranza di una vita migliore è più forte di qualunque sentimento...
Una volta ho letto che la scelta di emigrare nasce dal bisogno di respirare.
E' così. E la speranza di una vita migliore è più forte di qualunque sentimento...
Viene da lontano, Enaiat. Viene da un paese che per noi è sinonimo solo di brutalità e violenza, di orrore concentrato in trenta secondi al telegiornale che ormai non fanno più né caldo nè freddo, sarà per questo che nemmeno immaginiamo che qualcuno possa arrivare da quel paese, è come sbucare fuori dallo schermo, chi é che davvero può arrivare?
E poi cosa c'entriamo noi? E' facile chiudere gli occhi, non pensarci, lasciare che Enaiat scivoli via, scompaia tra gli innumerevoli che migrano e non sanno dove andare e comunque costituiscono un problema: da evitare o da gestire, secondo le opzioni della politica.
E' facile, anzi, è scontato.
Perchè Eianat sia davvero Eianat bisogna restituirgli voce. Bisogna affidargli la possibilità e il diritto del racconto. La parola capace di costruire una storia e un'identità.
Ecco, è proprio questo che succede in Nel mare ci sono i coccodrilli di Fabio Geda.
Enaiat, il ragazzino afghano che è costretto a lasciare tutto, per una speranza di vita, semplicemente per una speranza. Fabio, lo scrittore, che ascolta e in questo modo ci permette di ascoltare.
Due vite che si incrociano per capire che su quei barconi alla deriva, su quelle navi della disperazione non ci sono numeri.
Banale, retorico? Leggetelo come si mangia un frutto appena colto dall'albero, magari una di quelle mele che per Eianat sono una stretta al cuore, perché gli rammentano il suo villaggio (Per fare luce usavamo le lampade a petrolio. Ma c'erano le mele. Io vedevo la frutta che nasceva). Divoratelo come si fa con una cosa buona e genuina.
E di pagina in pagina vi troverete voi su quel barcone, vi troverete voi in una città di cui non sapete leggere nemmeno i nomi delle strade, voi sotto gli occhi di tutti, nudi come può esserlo il peggiore destino.
E sarete voi a risvegliarvi ogni giorno con la paura di chi non ha niente e con la speranza di trovare finalmente il proprio posto al mondo.
Come si trova un posto per crescere, Enaiat? Come lo si distingue da un altro?
Lo riconosci perché non ti viene voglia di andare via. Certo non perché sia perfetto.
martedì 5 ottobre 2010
Quei libri che in America fanno paura
Se dico libri censurati, libri vietati, a che cosa pensate? A Cuba, all'Iran, a qualche singolare staterello subtropicale, dove la libertà ricosciuta è solo quella fiscale?
Esatto, è proprio questo che anche a me è venuto da pensare.
Per questo ho letto con un certo sconcerto - e diciamolo, pure con disappunto - che di libri censurati si può parlare nel paese che ci è facile considerare un faro di democrazia, gli Stati Uniti.
Con autentica sorpresa ho appreso che si è addirittuta tenuta una manifestazione quale la Settimana dei libri banditi, promossa non da qualche sospetto gruppuscolo estremista, ma nientemeno che dall'American Library Association.
E dopo aver capito che non di roghi e arresti si tratta, ma di libri comunque esclusi da scuole, biblioteche, circoli di lettura per i loro contenuti, ho anche provato una certa invidia per questo paese, dopo ci può essere tutto e il contrario di tutto, il massimo della libertà e il massimo del sospetto, la scienza più avanzata e quelli che hanno ancora paura di Darwin, il presidente nero e i rigurgiti del Ku Klux Klan.
Ma poi ho letto la classifica che l'associazione ha stilato per segnalare i titoli che più fanno paura, quelli che più destano la voglia di divieto, la smania del bando.
E diciamolo, posso capire che qualcuno non abbia ancora digerito Il Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald, posso capire che ci sia chi storce il naso al cospetto di Twilight e perfino di Harry Potter, ma che male avranno mai fatto l'Ulysses di James Joyce (a meno che non ci si preoccupi per la sua mole...), Il signore delle mosche di William Golding o anche Il buio oltre la siepe di Harper Lee (peraltro lettura scolastica quasi obbligatoria in questo paese delle contraddizioni)?
Poi ho visto che anche 1984 di George Orwell è tra i libri che fanno paura. E allora ho trovato la cosa perfino divertente. E mi sono detto: chissà, forse un giorno una risata li seppellirà,
Esatto, è proprio questo che anche a me è venuto da pensare.
Per questo ho letto con un certo sconcerto - e diciamolo, pure con disappunto - che di libri censurati si può parlare nel paese che ci è facile considerare un faro di democrazia, gli Stati Uniti.
Con autentica sorpresa ho appreso che si è addirittuta tenuta una manifestazione quale la Settimana dei libri banditi, promossa non da qualche sospetto gruppuscolo estremista, ma nientemeno che dall'American Library Association.
E dopo aver capito che non di roghi e arresti si tratta, ma di libri comunque esclusi da scuole, biblioteche, circoli di lettura per i loro contenuti, ho anche provato una certa invidia per questo paese, dopo ci può essere tutto e il contrario di tutto, il massimo della libertà e il massimo del sospetto, la scienza più avanzata e quelli che hanno ancora paura di Darwin, il presidente nero e i rigurgiti del Ku Klux Klan.
Ma poi ho letto la classifica che l'associazione ha stilato per segnalare i titoli che più fanno paura, quelli che più destano la voglia di divieto, la smania del bando.
E diciamolo, posso capire che qualcuno non abbia ancora digerito Il Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald, posso capire che ci sia chi storce il naso al cospetto di Twilight e perfino di Harry Potter, ma che male avranno mai fatto l'Ulysses di James Joyce (a meno che non ci si preoccupi per la sua mole...), Il signore delle mosche di William Golding o anche Il buio oltre la siepe di Harper Lee (peraltro lettura scolastica quasi obbligatoria in questo paese delle contraddizioni)?
Poi ho visto che anche 1984 di George Orwell è tra i libri che fanno paura. E allora ho trovato la cosa perfino divertente. E mi sono detto: chissà, forse un giorno una risata li seppellirà,
lunedì 4 ottobre 2010
Lo scrittore, la libertà e lo stuzzicadenti
Erano venticinque anni che scrivevo, avevo pubblicato qualcosa fra i venti e i venticinque libri, mi ero fatto un nome come uno degli scrittori americani più importanti del mio tempo, i miei libri erano stati tradotti in varie lingue: eppure, con tutto ciò, ero sempre senza soldi, sempre a un passo o quasi dalla rovina
Era destino che il paese che più di tutti gli altri ha trasformato la cultura in una gigantesca macchina per fare soldi fosse lo stesso paese che in maniera più realistica, direi anche più cruda, si è interrogata sui rapporti tra arte e mercato, tra creatività e successo. Ed è dagli Stati Uniti, non di oggi ma addirittura degli anni Trenta, che arriva un racconto perfetto per meditare su tutto questo.
Si chiama Le voci del torrente, porta la forma di Sherwood Anderson, autore che forse non è conosciuto come meriterebbe, non fosse altro che per i suoi Racconti dell'Ohio. A riproporlo oggi è l'editrice Il melangolo: e pare scritto solo ieri.
C'è molto della vita di Anderson in questo libriccino: e questo ce le rende ancora più intrigante. Ma c'è molto anche di quello che vorremmo leggere e che soprattutto vorremmo ritrovare nel nostro mondo.
Ecco lo scrittore che si fa i conti in tasca e i conti non gli tornano e allora si piega alle richieste degli editor e dei dirittori delle riviste che pagano profumatamente. Dovrà scrivere cose scorrevoli, gradevoli, accattivanti, cioé accomodanti. Cose che non disturbino, che vadano giù come acqua.
E lui inizia. Solo che poi si blocca. Si blocca e non va più avanti come un apparente buon senso gli imporrebbe. E sarà per quella notte insonne passata ad ascoltare i suoni del torrente vicino a casa. Sarà che tra quei suoni gli pare di scorgere anche i passi dei vecchi amici, le voci delle donne che ha amato. Ma con la luce del giorno, la nuova mattina, ha deciso:
Ero di nuovo deciso a non impormi, a lasciare che il racconto che stavo cercando di scrivere si scrivesse da sé, a essere ancora una volta ciò che ero senpre stato, uno schiavo degli abitanti del mio mondo immaginario
Racconto dentro il racconto, ma soprattutto racconto che profuma di libertà.
Racconto come un antidoto, buono non solo per gli scrittori, ma per chiunque sia pronto ad arrendersi alle sirene di un sì troppo comodo.
Ps: Nella vita di Anderson, poi, le cose non andarono propriamente così. Un giorno si imbarcò per la Colombia, dove avrebbe dovuto tenere una conferenza a pagamento. Mangiando un panino inghiottì uno stuzzicadenti e morì di peritonite. Morte assurda, certo. Morte che è insieme esclamazione e irrisione. E mi sa che è meglio finirla qui.
Era destino che il paese che più di tutti gli altri ha trasformato la cultura in una gigantesca macchina per fare soldi fosse lo stesso paese che in maniera più realistica, direi anche più cruda, si è interrogata sui rapporti tra arte e mercato, tra creatività e successo. Ed è dagli Stati Uniti, non di oggi ma addirittura degli anni Trenta, che arriva un racconto perfetto per meditare su tutto questo.
Si chiama Le voci del torrente, porta la forma di Sherwood Anderson, autore che forse non è conosciuto come meriterebbe, non fosse altro che per i suoi Racconti dell'Ohio. A riproporlo oggi è l'editrice Il melangolo: e pare scritto solo ieri.
C'è molto della vita di Anderson in questo libriccino: e questo ce le rende ancora più intrigante. Ma c'è molto anche di quello che vorremmo leggere e che soprattutto vorremmo ritrovare nel nostro mondo.
Ecco lo scrittore che si fa i conti in tasca e i conti non gli tornano e allora si piega alle richieste degli editor e dei dirittori delle riviste che pagano profumatamente. Dovrà scrivere cose scorrevoli, gradevoli, accattivanti, cioé accomodanti. Cose che non disturbino, che vadano giù come acqua.
E lui inizia. Solo che poi si blocca. Si blocca e non va più avanti come un apparente buon senso gli imporrebbe. E sarà per quella notte insonne passata ad ascoltare i suoni del torrente vicino a casa. Sarà che tra quei suoni gli pare di scorgere anche i passi dei vecchi amici, le voci delle donne che ha amato. Ma con la luce del giorno, la nuova mattina, ha deciso:
Ero di nuovo deciso a non impormi, a lasciare che il racconto che stavo cercando di scrivere si scrivesse da sé, a essere ancora una volta ciò che ero senpre stato, uno schiavo degli abitanti del mio mondo immaginario
Racconto dentro il racconto, ma soprattutto racconto che profuma di libertà.
Racconto come un antidoto, buono non solo per gli scrittori, ma per chiunque sia pronto ad arrendersi alle sirene di un sì troppo comodo.
Ps: Nella vita di Anderson, poi, le cose non andarono propriamente così. Un giorno si imbarcò per la Colombia, dove avrebbe dovuto tenere una conferenza a pagamento. Mangiando un panino inghiottì uno stuzzicadenti e morì di peritonite. Morte assurda, certo. Morte che è insieme esclamazione e irrisione. E mi sa che è meglio finirla qui.
martedì 28 settembre 2010
Quanto è depressa l'America di Franzen
In Italia uscirà solo a febbraio, eppure se ne parla di già molto, con quel senso di attesa che spetta solo ai capolavori annunciati. Quasi sempre la delusione è appena dietro l'angolo. Però se l'autore si chiama Jonathan Franzen è doveroso concedere il massimo del credito. Per quanto mi riguarda mi porto ancora dietro le emozioni che questa estate mi ha regalato la lettura de Le correzioni. E dunque non posso non aspettarmi molto anche da Freedom (a proposito, come si tradurrà questo titolo in Italia, se si tradurrà?)
E dunque, ho letto la riflessione che David Brooks fa su questo libro che sta appassionando e dividendo. Pare che ancora una volta venga fuori un'America popolata da gente infelice e spiritualmente immatura. Pare che la storia sia piena di personaggi che hanno vite lasciate a metà (e in effetti non c'è niente di nuovo in questo, bisogna davvero essere bravi per usare questi ingredienti: ma Franzen senz'altro lo è)
Ed ecco la riflessione di David Brooks: Freedom è più rivelatore della cultura letteraria americana che dell'America in sè.
Il ragionamento dovrebbe essere questo: ormai è scontato che l'America raccontata nei libri debba essere un'America depressa, cinica, infelice. Fatta di periferie e sobborghi dove la vita è desolazione, di posti di lavoro dominati da una competizione assassina, di uomini pubblici falsi come i trucchi dei maghi televisivi.
Questo è quello che da un bel po' di tempo passa la letteratura americana, da così tanto che non possiamo immaginarci altro. Per esempio lo sport: c'è sempre un ambiente marcio e casomai un eroe solitario - giocatore o allenatore - che vince contro tutto e tutti. Provate a trovare un libro (o un film) che si limita a esaltare i valori dello sport in America (nel caso, forse, non ci sarebbe nemmeno la storia, ma questo è un altro discorso).
Conclude David Brooks: Freedom è un libro brillante ma nonostante ciò intrappolato in un cul de sac intellettuale, il suo sguardo sulla vita americana è troppo feroce.
La pulce nell'orecchio è servita.
giovedì 9 settembre 2010
Com'era buono il pane di Enzo Bianchi
Ai tempi in cui la vendemmia era una festa e non ci si sedeva intorno a un tavolo, ma si stava a tavola per condividere un pasto e le parole di un pasto.
Ai tempi in cui non c'erano nè televisione nè Internet ma non mancava la possibilità di una chiacchiera per strada.
Ai tempi in cui c'era anche più silenzio, magari ritmato dal rintocco di una campana...
Sì, è vero, il pane di ieri può essere buono anche il giorno dopo, anzi, se è ben fatto lo è senz'altro. E Enzo Bianchi ce lo spiega, con Il pane di ieri (Einaudi), un libro che forse non sarà un capolavoro, ma che si fa forte della semplicità che ho colto nelle pagine di Rigoni Stern.
Nessuna dissertazione teologica, nessuna avventura intellettuale nei territori dei sensi ultimi delle cose.
Tanto le cose il loro senso ce l'hanno di già: e non lo nascondono, se solo ci si sappia abbandonare a esse...
Ai tempi in cui non c'erano nè televisione nè Internet ma non mancava la possibilità di una chiacchiera per strada.
Ai tempi in cui c'era anche più silenzio, magari ritmato dal rintocco di una campana...
Sì, è vero, il pane di ieri può essere buono anche il giorno dopo, anzi, se è ben fatto lo è senz'altro. E Enzo Bianchi ce lo spiega, con Il pane di ieri (Einaudi), un libro che forse non sarà un capolavoro, ma che si fa forte della semplicità che ho colto nelle pagine di Rigoni Stern.
Nessuna dissertazione teologica, nessuna avventura intellettuale nei territori dei sensi ultimi delle cose.
Tanto le cose il loro senso ce l'hanno di già: e non lo nascondono, se solo ci si sappia abbandonare a esse...
giovedì 19 agosto 2010
Guardando con umiltà ai nostri antenati
Risalire di generazione in generazione, dare un nome, un volto, un qualsiasi aggettivo a coloro da cui discendiamo. I nostri antenati. Coloro con cui condividiamo geni e molecole, ma forse anche parole e qualcosa di ancora più profondo. Oltre i nostri nonni e bisnonni, più lontano, dove le linee si confondono, i numeri crescono, l'idea di una parentela diventa quasi un arbitrio. Ci penso spesso, come credo tutti voi, e pensandoci poche volte sfuggo a un senso di vertigine. Ma c'è una persona che tutto questo lo ha scritto e scritto bene: Marguerite Yourcenar, che tutto questo ha messo al centro di libri come Archivi del Nord (Einaudi)
E' lei che una volta ha detto:
Naturalmente, sia pure nel breve scorcio di alcuni secoli, è impossibile ritrovare tutti quei nomi, o dare un volto a tutti quegli esseri. Essi sono irrimediabilmente perduti, tranne che in noi. Ma si può cercare di spingersi il più lontano possibile in quei mondi...
Quest'avventura l'ho tentata all'età di circa sessant'anni. Se la vita ce ne concede il tempo credo che arrivi sempre il momento in cui si tenti di tirare le somme, di fare un po' il punto; in cui ci si chieda che cosa si debba a certi antenati sconosciuti, o quasi, a certi casi o vicende da tempo dimenticate, forse perfino (ed è in fondo lo stesso) ad altre vite
Una dimostrazione di vanità? Non credo: in un bisogno come questo non intravedo la smania dell'albero genealogico, la presunzione del quarto di nobiltà. Piuttosto faccio mia un'altra grandissima frase che ci regala la Yourcenar:
In questo ritorno ai milioni di esseri di cui siamo fatti, vedo, al contrario, l'origine di una grandissima umiltà
E credo che proprio in questa umiltà risieda uno dei più importanti segreti di una buona vita.
E' lei che una volta ha detto:
Naturalmente, sia pure nel breve scorcio di alcuni secoli, è impossibile ritrovare tutti quei nomi, o dare un volto a tutti quegli esseri. Essi sono irrimediabilmente perduti, tranne che in noi. Ma si può cercare di spingersi il più lontano possibile in quei mondi...
Quest'avventura l'ho tentata all'età di circa sessant'anni. Se la vita ce ne concede il tempo credo che arrivi sempre il momento in cui si tenti di tirare le somme, di fare un po' il punto; in cui ci si chieda che cosa si debba a certi antenati sconosciuti, o quasi, a certi casi o vicende da tempo dimenticate, forse perfino (ed è in fondo lo stesso) ad altre vite
Una dimostrazione di vanità? Non credo: in un bisogno come questo non intravedo la smania dell'albero genealogico, la presunzione del quarto di nobiltà. Piuttosto faccio mia un'altra grandissima frase che ci regala la Yourcenar:
In questo ritorno ai milioni di esseri di cui siamo fatti, vedo, al contrario, l'origine di una grandissima umiltà
E credo che proprio in questa umiltà risieda uno dei più importanti segreti di una buona vita.
sabato 7 agosto 2010
Hiroshima e lo scrittore nato dalla bomba
Alcuni attimi prima dell'esplosione l'amica di mia madre aveva cercato riparo dai raggi roventi del sole estivo dietro un massiccio muro di mattoni. Da lì aveva visto due bambini che stavano giocando all'aperto disintegrarsi in un batter di ciglia....
Benché allora non fossi in grado di cogliere pienamente la portata di tutto ciò, sento che è stato quel racconto terrificante a suscitare in me il bisogno impellente di diventare scrittore.
Nel sessantacinquesimo anniversario della bomba su Hiroshima, mentre ancora il mondo non è riuscito a liberarsi degli arsenali atomici, è bello, intenso, importante l'intervento del grande scrittore giapponese Kenzaburo Oe che la Repubblica ospita oggi.
Mi ha colpito pensare che tra le infinite e imponderabili conseguenze di quell'atto criminale che fu l'atomica sul Giappone ci sia stata anche la scelta di un uomo di vivere di parole. Mi ha colpito, qualche riga più tardi, il suo rimpianto:
Mi ossessiona il pensiero di non essere mai stato in grado di scrivere un "grande romanzo" su chi ha subito quel bombardamento e sui successivi cinquanta e più anni dell'era atomica che ho vissuto. Oggi penso che scrivere quel romanzo fosse l'unica cosa che veramente volevo fare.
Quel romanzo lo attendo anch'io. E chissà che le parole nate dalla bomba non possano aiutare davvero a cancellare la possibilità di altre bombe nel nostro futuro. Ci credo perché credo nell'immensa potenza delle parole.
Benché allora non fossi in grado di cogliere pienamente la portata di tutto ciò, sento che è stato quel racconto terrificante a suscitare in me il bisogno impellente di diventare scrittore.
Nel sessantacinquesimo anniversario della bomba su Hiroshima, mentre ancora il mondo non è riuscito a liberarsi degli arsenali atomici, è bello, intenso, importante l'intervento del grande scrittore giapponese Kenzaburo Oe che la Repubblica ospita oggi.
Mi ha colpito pensare che tra le infinite e imponderabili conseguenze di quell'atto criminale che fu l'atomica sul Giappone ci sia stata anche la scelta di un uomo di vivere di parole. Mi ha colpito, qualche riga più tardi, il suo rimpianto:
Mi ossessiona il pensiero di non essere mai stato in grado di scrivere un "grande romanzo" su chi ha subito quel bombardamento e sui successivi cinquanta e più anni dell'era atomica che ho vissuto. Oggi penso che scrivere quel romanzo fosse l'unica cosa che veramente volevo fare.
Quel romanzo lo attendo anch'io. E chissà che le parole nate dalla bomba non possano aiutare davvero a cancellare la possibilità di altre bombe nel nostro futuro. Ci credo perché credo nell'immensa potenza delle parole.
giovedì 20 maggio 2010
Le ombre di Margaret Atwood
Ti avvicini a queste pagine con circospezione, anzi, diciamolo pure, con la diffidenza di chi teme un libro per addetti ai lavori - roba da chi esercita il mestiere o la passione della critica: e in fondo si tratta sempre di lezioni, pronunciate da un podio importante.
Magari temi anche l'operazione commerciale, l'occasione colta al volto dall'editore che intende sfruttare la notorietà di un'autrice fortunata.
Poi entri in quelle pagine e fai presto a esserne catturato. Perchè in Negoziando con le ombre di Margaret Atwood (Ponte alle Grazie)c'è grande, raffinata cultura, senza pedanteria.
C'è un discorso che si fa alto e coinvolgente, capace di dirti molto sul dono della parola e su quelle ombre che accompagnano sempre l'avventura di chi si sfida con la scrittura...
Perché dice, la Atwood: Forse, allora, scrivere ha a che fare con il buio, e un desiderio o forse una compulsione a entrare nel buio e, con un po' di fortuna, illuminarlo, e riportare qualcosa alla luce. Questo libro riguarda quel genere di buio, e quel genere di desiderio.
Ps: e per dire, ci sarebbe da fondere le meningi, ripensando alla convinzione che è anche ragione del titolo di questo libro: Non solo alcuni, ma tutti gli scritti di narrativa, e forse tutti gli scritti in generale, sotto sotto trovano la loro motivazione nella paura e nella suggestione che la mortalità suscita in noi
venerdì 2 aprile 2010
In viaggio nella memoria con Eraldo Affinati

Credo che si faccia una gran cosa, quando si riesce a portare la memoria fuori dal terreno della rievocazione, dell'omaggio più o meno formale, più o meno doveroso, per far sì che sia qualcosa che riguarda davvero la vita di tutti noi; qualcosa che non registra solo cosa è successo, ma che piuttosto è in grado di tenere insieme, come diceva Italo Calvino, l'impronta del passato e il progetto del futuro. É andata proprio così l'altra sera, al Teatro Dante di Campi Bisenzio, con Eraldo Affinati ospite della rassegna Un mercoledì da scrittori. É andata così, e sono contento di averci partecipato e di avere potuto dare il mio piccolo contributo.
Eraldo ha scritto molti libri importanti, ma la conversazione a Campi Bisenzio non poteva non prendere spunto da Campo del sangue, il racconto di un viaggio da Venezia e Auschwitz, con un bagaglio per niente leggero di ricordi, testimonianze, riflessioni, pagine che contano. Un viaggio della memoria, se si vuole, come quello che tra qualche settimana faranno una trentina di ragazzi di Campi (senza curarsi troppo, per fortuna, di una Giornata della Memoria che sempre più pare confinare le iniziative a gennaio e dintorni, riducendo la memoria a un obbligo di calendario)
Viaggio della memoria, ma anche viaggio e memoria: due tipi di esperienze che direi sono anche due modi di alimentare la vita, di accogliere il cambiamento. Non è che ce ne siano tanti altri di migliori.
E così parlare del Campo del sangue è stata l'occasione per affrontare i temi da cui non si può prescindere. La libertà, la responsabilità, il coraggio della scelta.... solo per dirne alcuni.
Partire per un viaggio così, ne sono sicuro, significa davvero provare a scoprire le notizie sulla specie a cui appartengo, per usare le parole di Eraldo.
Per quanto mi riguarda, sono tornato a casa con qualcosa in più.
Per esempio con una bellissima frase di Dostoevskij: Siamo sempre responsabili di tutto e di tutti, davanti a tutti, e io più di tutti gli altri.
Per esempio, con uno straordinario ricordo di Eraldo, che nella vita fa anche l'insegnante. Quando ha ricordato di aver avuto tra i suoi studenti un ragazzo che ostentava svastiche e altri simboli nazisti, e lui non si è indignato, non gli ha scaraventato addosso chissà quali rimproveri, ma ha affidato tutto a un libro di Heinrich Böll: e quel ragazzo ha letto, ha capito, si è appassionato, ha condiviso.
Ma qui si entra in un altro discorso, sul potere dei libri. O almeno di quei libri come carne viva che per una sera sono stati anche un ponte con Eraldo.
Non sottovalutiamoli i libri, in tempi come questi.
giovedì 18 marzo 2010
Tiziano Terzani e la voglia di viaggio in Italia

Tiziano è morto nel 2004 e l'anno prima diceva ancora: “Se avessi tempo ora farei un viaggio per l'Italia”. Voleva prendere uno zainetto e andare a naso per l'Italia. In fondo quello che voleva era capire il proprio paese
Solo uno spunto tra i tanti che Angela Staude, moglie di Terzani, grande viaggiatrice e grande scrittrice lei stessa (cosa di cui spesso ci si dimentica), ieri sera ci ha regalato a Campi Bisenzio, ospite della bellissima rassegna Un mercoledì da scrittori. Solo uno spunto tra i tanti, appunto, e certo nemmeno il più importante, in due ore fitte fitte di domande e risposte che hanno toccato tanti e tanti temi, dallo spirito del viaggio al destino dell'Asia, dal significato del giornalismo oggi alle atrocità che l'uomo è sempre straordinariamente capace di commettere.
Però sono proprio queste le parole che mi hanno colpito di più e che mi hanno fatto riflettere tornando a casa. Proprio lui: Tiziano Terzani, l'uomo che con le sue parole ci ha scaraventato addosso l'orrore del genocidio di Pol Pot e l'irresistibile bellezza dei templi di Angkor (dimenticavo, Angela ieri era chiamata a presentare Fantasmi, il libro che raccoglie i reportage di Tiziano dalla Cambogia). Il reporter, l'inviato di guerra, l'uomo che viveva di distanze e cercava altri mondi: lui voleva raccontare il suo paese, l'Italia che non conosceva.
Sarebbe stato un grandissimo viaggio anche questo, ne sono convinto. Un viaggio animato dallo stesso spirito con cui Angela e Tiziano un giorno decisero di abbandonare l'Italia e di partire per l'Asia, sospinti dalla curiosità, da una bella domanda (“Possibile che ci sia un solo mondo?”), dalla voglia di vedere, trovare alternative, condividerle. Partire per un continente che i giornali occidentali sostanzialmente ignoravano, con due figli piccolissimi e senza un vero contratto in tasca. Partire in anni che ancora non conoscevano cellulari ed email, ma senza esitare, come fosse la più naturale delle decisioni.
Questi sono tempi che stimolano a visioni piuttosto deprimenti del mondo, ma ieri Angela ci ha procurato alcune iniezioni di fiducia.
Prima notizia: Ai tempi non era più facile prendere e partire, ancora oggi chi vuole può andare. Magari ci vuole un po' di fortuna, ma c'è sempre un mondo da esplorare
Seconda notizia: Ovunque troverete gli stessi alberghi, ma in genere è solo uno strato superficiale che è cambiato, nel profondo i paesi antichi cambiano molto più lentamente
Terza notizia, che dico a modo mio: per tutto questo non c'è bisogno di un volo intercontinentale, a volte bastano anche un treno regionale e uno sguardo diverso.
venerdì 26 febbraio 2010
L'educazione siberiana di Nicolai Lilin

Nei miei momenti di relax o pulisco i miei fucili o leggo la Divina Commedia
Mi sa che in una frase come questa c'è tutto Nicolai Lilin, l'autore di Educazione siberiana, uno degli esordi più folgoranti degli ultimi anni, un libro duro, intenso, sconvolgente, un'opera che come un razzo vi deposita su un altro pianeta fin dalle prime righe. L'altra sera ho avuto la fortuna di presentare questo scrittore e questo libro, al Teatro Dante di Campi Bisenzio, nell'ambito della straordinaria rassegna Un mercoledì da scrittori (seguite i prossimi appuntamenti, mi raccomando). Sono passati due giorni e ancora mi è rimasta l'emozione di un incontro con una persona e prima di tutto con una storia di vita che non vi può lasciare indifferenti. Qualsiasi poi sia il giudizio etico e perfino politico che vogliate dare.
Di fucili e di Divina Commedia Lilin ha parlato l'altra sera, raccontando la sua storia di scrittore che sulle sue pagine riversa tutta la forza della vita vissuta, giocando fin dall'inizio a carte scoperte, senza tentativi di edulcorare, appianare, rendere le cose più gradevoli e accettabili.
Qualcuno ha paragonato Nicolai Lilin a Roberto Saviano (che per altro dell'opera di Lilin è un grande estimatore)e Educazione siberiana a Gomorra. Non so e forse non è il caso di tentare paragoni, anche perché Nicolai Lilin fa suo, o per lo meno ha fatto suo, il sistema di valori e di regole del mondo criminale che racconta.
E forse per noi è proprio questo il fatto più sorprendente e illuminante. Che ci siano regole, in questa realtà di assoluta violenza. Che ci possano essere criminali onesti e leggi criminali. Spiazza questo rovesciamento del buon senso etico. Ma spiazza soprattutto scoprire che da quel mondo di armi e risse, di regolamenti di conti e vite buttate via, possa lievitare tanta bellezza.
I fucili e la Divina commedia, appunto.
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La terapia sì, mai titolo poteva essere più appropriato, perché di malattia si trattava. Dolorosa che non ti dava scampo, intrigante come...
So solo che l'ho fatto praticamente a scatola chiusa, senza essermi mai imbattuto prima in Angelo Morino (consapevolmente intendo, volete che non mi sia mai capitata tra le mani una sua traduzione?), chissà perché, forse perché con le copertine blu della Sellerio vado sul sicuro o quasi, o forse perché il titolo mi ha fatto scattare qualcosa.
Sì, sarà per il titolo, anche se il titolo c'entra fino a un certo punto, vale per contrasto o meglio ancora per contesto, giusto per capire che oggi è tutto così semplice con Internet, hai un dubbio, una curiosità, un nome che ti suona in un certo modo, e non devi impazzire tra enciclopedie e bibliografie, te ne stai comodo a casa e vai dove ti pare, altro che tonnellate di carta in polverosi archivi...
Eh sì, c'è anche questo, nella storia che Angelo Morvino ci racconta, la sua storia di grande ispanista, di docente universitario, di traduttore dei grandi sudamericani (da Gabriel Garcìa Marquez a Osvaldo Soriano, da Mario Vargas Llosa all'amico Manuel Puig), raffinato intellettuale che ci aspetteremmo in cattedra e che invece ci sorprende al nostro fianco, lettore per il piacere di leggere, lettore che semmai, a differenza di tanti di noi, ha avuto la fortuna di vivere del suo piacere.
Ma c'è di più in queste pagine, un di più che va oltre l'autobiografia di un intellettuale e ci regala uno di quei libri strani e curiosi, curiosi perché vivono di curiosità, perché si alimentano consapevolmente di quel bisogno di porsi domande e andare avanti così.
Il giovane Morino inizia la sua carriera di studioso con molte certezze e la voglia di tradurre la letteratura nei ragionamenti della scienza - non voleva questo lo strutturalismo? Finisce per inseguire per tutta la vita il fantasma di una scrittrice cilena minore, che in Italia non si era ancora conquistata nemmeno una nota a fondo pagina.
Marìa Luisa Bombal: chi era costei?
Fantasma da inseguire, ma anche fantasma che per una vita insegue Morino, rispuntando fuori nei modi più singolari e inattesi.
Ma perchè volerne sapere di più? Non c'è risposta a questa domanda, non ci deve essere, finché entrare in una libreria sarà un'operazione diversa dal rifornimento di benzina a un distributore.
E meno male che non c'era Internet. Una ricerca su Google e Marìa Luisa Bombal sarebbe stata abbandonata nel giro di pochi minuti.
Altro che il fantasma di una vita.