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mercoledì 2 settembre 2020

Oltre il Danubio e i Carpazi, ciò che ci si lascia dietro


Ecco, pensò, basta andar via da un luogo ed è come se tutto quello che ci si lascia dietro non fosse mai esistito. E fissò i monti lontani dietro i quali spuntava il sole.


Questo è un libro potente, un libro che non finisce più, che fa girare la testa per tutte le vicende che racconta, i personaggi che mette in gioco, i passaggi da una visione di insieme al dettaglio più minuto e viceversa, un libro che è bello portare a termine, dopo essersi immersi in esso giorno dopo giorno, non senza una certa dose di coraggio.

E' storia, è  epica, è destino di un popolo raccontato attraverso le parabole di tanti destini individuali. Migrazioni, così si chiama. Più difficile pronunciare il nome dell'autore, Milos Crnjanski. Quasi scontato l'editore, Adelphi, con la sua storica attenzione alle voci della Mitteleuropa e dei Balcani.

Oltre mille pagine fitte fitte per narrare la storia dei soldati serbi che dopo aver perso la loro terra conquistata dagli ottomani, dopo aver combattuto con l'esercito degli Asburgo, guardarono alla Russia degli zar e dell'ortodossia per ricreare una nuova patria. 

Storia, insomma, di una terra promessa, ricercata, sognata, agognata, inseguita attraverso la valle del Danubio e i Carpazi, da conquistare con interminabili stenti e fatiche, da guadagnare malgrado le miserie umane di ogni genere.

Terra promessa che poi forse non accoglierà a braccia aperte e che forse sarà fonte di delusione, ma questa è già un'altra storia. Intanto bisogna partire da quella primavera del 1744, l'alba in cui Vuk Isakovic partì per la guerra, sentendosi dentro qualcosa di più di una premonizione:

Gli erano venute a noia quelle continue migrazioni e quell'inquietudine che né in lui né negli uomini che conduceva mai si placava. 

venerdì 3 luglio 2020

Le poesie in prosa di Goffredo Parise

Dodici anni fai giurai a me stesso, preso dalla mano della poesia, di scrivere tanti racconti sui sentimenti umani, così labili, partendo dalla A e arrivando alla Z. Sono poesie in prosa. 

Così scriveva Goffredo Parise nel 1982, spiegando la genesi dei suoi Sillabari. In realtà si racconta anche un'altra storia, di lui che un giorno scorse nella piazza sotto casa un bambino con in mano un sillabario. Gli si accostò e lesse: L'erba è verde. Erano tempi di furori ideologici, ragionamenti astratti, pulsioni complesse. Parise fu spiazzato dall'essenzialità di quella frase, qualcosa del genere volle tentare in una prosa che si faceva poesia. Gli uomini d'oggi - spiegò - secondo me hanno pù bisogno di sentimenti che di ideologie

Fatto sta che solo ora, a distanza di tanti anni, ho finalmente letto i suoi racconti di sentimenti (non so se chiamarli così), riuniti nell'edizione Adelphi, dopo averli tanto tenuti a distanza. 

Come ci si sbaglia, temevo una scrittura cerebrale e spocchiosa, un eccesso di letterarietà. Del resto mi ero immaginato lo stesso anche per la poesia della Szymborska (non a caso stessa collana, stesso celeste in copertina).

Folgoranti, soprattutto gli incipit, che piombano come fulmini a ciel sereno, sentimenti subito in scena, situazioni che si illuminano, nonostante l'assenza di riferimenti abituali. Un giorno, un uomo, una donna, in genere è così che si inizia. Per esempio: 

Un giorno un uomo che amava la sua vita e quella degli altri comunque fosse ma non si guardava mai allo specchio, uscendo dal bagno si vide un attimo e gli bastò quell'attimo per capire tutto. 

Ecco, poi come si fa a non continuare?

Peccato che alla fine sia stato Goffredo Parise a smettere di sillabare i nostri sentimenti in pagine che di per sè sono microromanzi di raro nitore e capacità evocativa. 

Si arenò alla lettera S. La poesia - si giustificò - va e viene, vive e muore quando vuole lei, non quando vogliamo noi e non ha discendenti. Mi dispiace ma è così. Un poco come la vita, soprattutto come l'amore.

Tanto basta per il nostro piacere di lettori. Grazie ai Sillabari persuasi che sia raccontabile - chi l'avrebbe detto - anche ciò che è più vago e sfuggente.


sabato 20 giugno 2020

Dare ordine ai libri, una questione metafisica

Come ordinare la propria biblioteca è un tema altamente metafisico. Mi ha sempre meravigliato  che Kant non gli abbia dedicato un trattatello. Di fatto potrebbe offrire una buona occasione per indagare una questione capitale: che cos'è l'ordine.

E sì, l'incipit è folgorante - e capace di scatenare un turbine di pensieri fino all'imbarazzo. Il resto è al livello delle tante pagine a cui Roberto Calasso ci ha ormai abituato, nella sua erudizione che non è mai polvere e spocchia. 

Come ordinare una biblioteca (Adelphi) prende il titolo dal primo dei quattro testi che  qui compaiono. E non è che gli altri - sulle riviste della prima metà del Novecento, sulla nascita della recensione, sulla qualità delle librerie - non  siano di interesse. Ma la questione che si pone fin dall'incipit sopra è di quelle che afferrano e non mollano di più. 

E' la questione che hanno ben presente tutti coloro che, benché di mestiere non facciano i bibliotecari, in casa dispongono di un discreto numero di libri. Come sistemarli, come fare sì che, all'occorrenza, quel titolo salti fuori? Oppure: come lasciar spazio alla sorpresa? 

Sì, perché anche quest'ultimo aspetto è importante. Vale come per le carte geografiche che non possono rappresentare tutto e comunque non devono sacrificare l'immaginazione, altrimenti tanto vale il Gps. 

E allora, come ordinare i libri? Per autore, per collana, per casa editrice, per tema, per colore? Questione che - con Roberto Calasso - acquista dignità e riserva spunti a ripetizione: per esempio sulle novità che sono una fonte di disturbo per il buon lettore e sul bisogno di comprare libri che non si leggeranno subito. 

C'è tanto divagare in queste pagine, ma in realtà è proprio questo il sale della lettura - e anche dell'ordine che si tenterà di assicurare a una libreria. Regole poche, se non forse quella del "buon vicino" formulata da Aby Warburg, secondo cui nella biblioteca perfetta cercando un libro si finirà per prendere quello che gli sta accanto e che ci tornerà persino più utile. 

Questa regola - se è tale - e una certezza che da parte mia ha trovato sempre conferma: l'impossibilità di trovare il libro di cui riteniamo di avere bisogno.



giovedì 4 giugno 2020

In spiaggia e al pub insieme a Montaigne

Parlare di Montaigne alla radio, ogni giorno per tutta un'estate, all'ora in cui la gente si sta rosolando sulla spiaggia o sta sorseggiando un aperitivo?

Quando gliel'avevano buttata lì, Antoine Compagnon, illustre professore del Collège de France, l'aveva trovata un'idea piuttosto stravagante. E allo stesso tempo così azzardata da non avere il cuore di tirarsi indietro. E così aveva iniziato. Sotto il solleone di luglio e agosto, a mezzogiorno: una frase del grande Michel e alcuni minuti di riflessione pacata, intelligente, niente affatto spocchiosa.

Un successo: come temo possa succedere solo in Francia (con un pensiero sconfortato alla programmazione radiofonica delle emittenti italiane nello stesso periodo).

E ignoro in virtù di quali singolari meccanismi certe cose possano funzionare e altre invece siano destinate al naufragio. Ma ora che quelle divagazioni di Compagnon sono state pubblicate da Sellerio - con il titolo, appunto, di Un'estate con Montaigne - so di avere messo le mani su un piccolo grande libro.

Quante cose che ci insegnano, le pagine di Montaigne. Il dubbio che fa bene, la tolleranza, lo sguardo dell'altro, la giusta cautela nei confronti di ogni ambizione... 


Da procurarselo, questo libretto. E da tenerselo a portata di mano, non importa se su una sdraio, un'amaca o al tavolo di un pub.

lunedì 9 marzo 2020

Riflettori accesi sui perdenti di talento

Vi hanno detto che è bene vincere le battaglie?
Io vi assicuro che è anche bene soccombere, 
che le battaglie sono perdute nello stesso spirito in cui vengono vinte....

Sono versi di Walt Whitman, tratti da Il canto di me stesso, e sono perfetti come epigrafe di questo libro affascinante e strampalato, buono per tutti i curiosi e gli affamati di storie. Paul Collins lo avevo già incontrato in un altro libro, in cui raccontava la sua esperienza da Hay-on-Wye, la città dei libri del Galles: e avevo capito già da quelle pagine che era un collezionista di singolari traiettorie umane oltre che un ottimo affabulatore.

Lo ritrovo ora con La follia di Banvard (uscito sempre per Adelphi), libro di qualche anno fa ma che aveva destato la mia diffidenza di lettore, per un titolo che un po' ostico è senz'altro. 

Non avevo capito che era un libro sulla sconfitta, anzi sugli sconfitti. Meglio sugli sconfitti di genio e talento: gente che meritava, gente che a volte ce l'ha anche fatta, o quasi fatta, solo che è mancato quell'istante, quel dettaglio, quell'ultima tessera del mosaico. Gente che per un momento ha assaporato il successo prima di una caduta ancora più rovinosa. Gente, a volte, che è arrivata troppo presto all'appuntamento con gli eventi e le circostanze.

Non l'avevo capito ma appena ci sono arrivato in queste pagine mi nsono immerso. E fino alla fine non l'ho mollato più.

giovedì 23 gennaio 2020

Se si sopravvive alla guerra grazie a Proust

Inverno 1940-1941: i tempi più cupi per l'Europa, un inverno che non è solo il gelo fuori, la neve in cui affondano i piedi, il vento di bufera. E' anche l'inverno della speranza, spazzata via nei campi di battaglia e soffocata nei campi di prigionia. 

Hitler imperversa con la sua guerra e può ancora coltivare sogni di vittoria. Le sue armate per ora glielo consentono. Dall'altra parte i polacchi piangono un paese che di nuovo non c'è più, cancellato dallo scellerato patto russo-tedesco. E chi, tra gli ufficiali dell'esercito, è sopravvissuto alle fosse di Katyn, ora è prigioniero. 

Questo il contesto, perchè ci sono libri in cui il contesto è importante, addirittura più importante di ciò che c'è dentro. Per esempio Proust a Grjazovec di Josef Czapski (Adelphi).

Il contesto: nel campo di prigionia sovietico di Grjazovec sono ammassati migliaia di ufficiali polacchi. C'è gelo, non speranza, ma per far fronte a tutto questo viene l'idea di coltivare l'intelligenza. E se manca il cibo da mettere sotto i denti perché non provare a sfamare lo spirito?

Viene organizzata una serie di conferenze. E Czapski propone ai suoi compagni di prigionia una lezione su Proust e sulla Recherche. Per prepararla non ha nemmeno una pagina da consultare, solo la memoria che lo riporta alle letture di un tempo. Tanto non potrà essere solo una questione di memoria, ma di cuore. 

Parlerà nel refettorio, davanti a compagni smagriti, a guardie che magari bolleranno l'iniziativa come controrivoluzionaria - per questo altri conferenzieri sono stati già deportasti verso ignota destinazione. Ma lo farà, perché questo è l'unico modo per combattere lo sconforto, tenere a bada l'angoscia, appartenere a un tempo che non è quello della detenzione, sentirsi pienamente uomo.

Proust - ricorderà un giorno Czapski - si sarebbe meravigliato e commosso se qualcuno gli avesse detto che, a vent'anni di distanza dalla sua morte, un manipolo di prigionieri polacchi, dopo un'intera giornata trascorsa sulla neve, in un freddo che arrivava spesso a quaranta gradi sotto lo zero, avrebbe ascoltato col il massimo interesse la storia della duchessa di Guermantes... La gioia di poter condividere uno sforzo intellettuale ci dimostrava come fossimo ancora capaci di pensare.

Solo quattrocento dei quindicimila prigionieri polacchi .- tra ufficiali e soldati - sarebbero sopravvissuti. Come in una lotteria in cui esce il numero giusto e non c'è ragione. 

Eppure io credo che anche Proust abbia contato. E' servito regalare cultura, condividere bellezza, anche in quella situazione. Non fosse che per queste parole che un giorno Czapski potrà mettere nero su bianco:

Su questo sfondo sinistro, le ore trascorse in compagnia dei miei ricordi su Proust e Delacroix mi sembrano oggi le più felici della mia vita.

E' importante il contesto e io lo dedico a quanto oggi sembrano poter prescindere dai libri.   





lunedì 30 settembre 2019

Gilgamesh e il viaggio per trovare una risposta

Fece un lungo viaggio, fu esausto, consunto dalla fatica: e quando ritornò si riposò, su una pietra l'intera storia incise.

Ecco, questa è la storia di Gilgamesh, che ci arriva da un passato tanto lontano che i poemi di Omero sembrano dell'altro ieri. Abisso di tempo da vertigine, parole che però riescono ancora incredibilmente ad arrivare al nostro cuore.

Gilgamesh, l'uomo a cui erano note tutte le cose, il re che conobbe i paesi del mondo. La sua epopea è stata custodita da tavolette d'argilla, i segni cuneiformi dei sumeri incisi su di essi. Mesopotamia, culla di civiltà e anche della storia che precede tutte le altre storie. 

Dentro c'è il Diluvio Universale, prima del racconto della Genesi. Dentro c'è la storia di un grande viaggio, prima dell'Odissea. Dentro c'è il bisogno di raccontare che fa sì che un ritorno sia davvero un ritorno. Dentro soprattutto c'è l'eterna questione che è dell'uomo, la domanda che getta ombra su tutte le altre. 

Perchè questa è la storia di Gilgamesh, creatura divina per due terzi e umana per un terzo, che dell'uomo ha preso la condizione di mortalità. La storia di un viaggio che non è l'inquietudine o la fame di conquista a spingere. Gilgamesh si spinge attraverso lande selvagge per raggiungere la Fonte dell'Eterna Giovinezza, là dove cercherà di sottrarsi al destino che è di tutti: e che sarà anche il suo destino, perchè persino lui, Gilgamesh, perderà la sfida delle sfide.

O Gilgamesh, era questo il significato del tuo sogno. Ti venne data la sovranità, questo era il tuo destino; una vita che duri in eterno non era il tuo destino. Non essere triste in cuor tuo per questo, non essere afflitto né oppresso.

Mortale tra i mortali anche lui. Ma capace di strappare quel tanto di immortalità che ci è concessa tramite le parole delle tavolette d'argilla. 

Perchè, appunto, quando ritornò su una pietra l'intera storia incise.





 

martedì 31 luglio 2018

L'impresa del professore e del pazzo

Ci vogliono libri così, che raccontano storie secondarie, apparentemente buone solo per una rivista molto specialistica o per una nota da archivio storico, solo che dentro di esse batte forte la vita. Certo poi ci vuole qualità di scrittura e con essa la capacità di non girare a vuoto, grazie alla spinta della curiosità, al desiderio di scoprire e di raccontare, ma ecco, contro ogni previsione può succedere: il libro su cui non avresti scommesso ti appassiona come un grande romanzo. 

Questo è quanto mi è capitato con Il professore e il pazzo di Simon Winchester (Adelphi), autore che peraltro mi aveva già accompagnato con grande piacere per i misteri della Cina o per le distese dell'Atlantico. Questa volta l'impresa sembrava meno agevole e più discutibile, benché in effetti porti dentro quella che un'impresa è stata davvero: la redazione del mitico Oxford English Dictionary, monumento inarrivabile della lingua inglese, di cui ambisce a racchiudere l'intero universo di parole. 

Impresa, certo, a cui raramente mi è stato dato di pensare. Quale lavoro enorme c'è dietro un dizionario o un'enciclopedia? Quanta frustrazione riserva l'accumulo di una conoscenza che non finisce mai? 

E tuttavia dentro questa impresa si nasconde anche una storia meravigliosa. Buona per un grande romanzo, appunto. La storia della relazione tra James Murray, curatore del dizionario, e il suo principale collaboratore. Detta così non suona particolarmente accattivante, fatto sta che questo collaboratore è solo una firma - W.C. Minor - con un passato ingombrante di cui Murray non ha il minimo sospetto: è un americano impazzito durante la Guerra di Secessione, a Londra ha ammazzato un passante, ora è rinchiuso in un manicomio criminale ed è da lì che invia migliaia e migliaia di voci alla redazione del dizionario. 

Solo dopo molto tempo, quando deciderà di incontrare il suo prezioso collaboratore, Murray scoprirà la verità: e invece di ritrarsi scandalizzato si aprirà a un'amicizia contro tutti i pronostici, nell'Inghilterra dei pregiudizi vittoriani. 

Murray, certo, anche lui un tipo particolare: scozzese di origine modeste, autodidatta, sin da bambino dominato da una fame di conoscenza come una malattia cronica. Però non fino al punto di smarrire se stesso.

Che storia, che è questa, di umanità che si riconosce. E di imprese che vanno avanti solo grazie a chi non ti aspetti, uomini ai margini dei luoghi comuni. 

giovedì 8 marzo 2018

Parole per i momenti che decidono la storia

C'è la lucida follia di Balboa, avventuriero di pochi scrupoli ed enormi ambizioni, che dopo  essersi fatto largo nella giungla a colpi di machete arriva a contemplare il Pacifico - primo europeo in un mondo che d'ora avanti non sarà più lo stesso. C'è l'incrollabile determinazione di Maometto, il sultano non il profeta, che non arretrerà di fronte a niente per conquistare Costantinopoli, genio e crudeltà per abbattere quelle mura e cambiare una storia millenaria. E c'è la musica che prima ancora che in uno spartito è dentro il cuore di un uomo morto e rinato, perché un giorno, dopo tanta pena, si componga un capolavoro che sarà riscatto e ringraziamento, quel capolavoro che è il Messiah di Händel.

Momenti fatali di Stefan Zweig (Adelphi) - non sono sicuro che questo titolo mi piaccia -  più che un libro sui grandi della storia è un libro sui grandi momenti che hanno segnato la storia. Momenti segnati da una scoperta, una rivelazione, un'impresa - e che come tali si staccano da tutti gli altri. Momenti che hanno rotto un equilibrio, cambiato un destino, chiamato a un bivio decisivo.

Gli uomini no, non è detto che siano stati altrettanto grandi. Come quel momento fatale che ha deciso Waterloo, senza avere come protagonista né Napoleone nè Wellington, ma un mediocre generale che decidendo di non decidere decise le sorti del conflitto.

Bello questo libro, che squaderna la storia per fissarne gli attimi di svolta. Bello perché ci sono gli uomini, protagonisti e allo stesso tempo vittime degli eventi. Bello perchè mescola volontà e destino e all'una e all'altro presta la forza della parola.

La parola quale quella di un grande scrittore come Zweig: di cui è facile raccomandare tutto.

lunedì 15 gennaio 2018

Fra i boschi e l'acqua, il tempo dell'incanto

Un libro e molti chilometri dopo, è ancora lui, Patrick Leigh Fermor, il ragazzo nemmeno ventenne che ha abbandonato l'Inghilterra e i suoi disastri scolastici per raggiungere a piedi quella che ancora chiama Costantinopoli. Lo avevo lasciato con le pagine di Tempo di regali, ecco ora Fra i boschi e l'acqua: seconda parte di una trilogia, proposta da Adelphi, che è uno dei vertici della letteratura di viaggio del Novecento. E anche questa volta Fermor non tradisce le aspettative, tutt'altro.

Casomai cambia il passo e con il passo il sentimento predominante.  Prima c'era l'urgenza del distacco, il tumulto della partenza, la fame di distanza, i chilometri da macinare, quanti più possibili. Ora tutto si rallenta, per incanto non per pigrizia. Più che la meta conta la deviazione. Più che la strada percorsa la pausa a cui affidarsi. Come un grande fiume che si è lasciato dietro i tumulti dei monti, che procede lento, maestoso, gonfio d'acqua. Come il Danubio, che senz'altro è uno dei protagonisti di questo viaggio.

Altri mille chilometri. Davanti si distende la pianura ungherese: l'immensa puszta che è premessa della steppa asiatica, i boschi della Transilvania, le Porte di Ferro dove Carpazi e Balcani sembrano darsi appuntamento.

Avanti, avanti ancora. Ma cedendo alle tentazioni, che volta volta sono la notte sotto le stelle, l'indolenza richiamata da un prato, una cena tra aristocratici in un maniero o un bevuta con gli zingari intorno a un fuoco.

Incredibile, è il 1934: e l'irrequietezza sembra appartenere ad altri anni, più vicini a noi. O forse è quella di sempre, quella dei giovani chierici vaganti che da sempre si mettono in movimento, per cercare se stessi prima che un altro mondo, o forse per scappare prima ancora che per cercare.

Incredibile, è il 1934: Hitler è da poco al potere - e certe avvisaglie Fermor le coglie, come no - presto questa Europa non ci sarà più. Quel remoto mondo rurale fu spazzato via nel decennio successivo - ricorderà - e adesso mi rendo conto della fortuna che ho avuto a poterne cogliere squarci prolungati, addirittura a esserne stato un poco partecipe. Discorso che ci offre profondità storica, non tutto è sparito solo dopo, ai tempi delle autostrade, del web 2.0, dei voli low cost.

Ma intanto con la sua andatura senza fretta, con la sua splendida  capacità di divagazione, c'è ancora tempo: fra i boschi e l'acqua.



domenica 7 gennaio 2018

Alan Bennett e la sua famiglia come le altre

Che smacco, passare il confine della ragione e scoprirsi tanto banali nella follia quanto nella normalità.

E dunque, la prima cosa che viene in mente a chi di Alan Bennett ha già letto e amato altre cose - per esempio Nudi e crudiSignore e signori, oppure l'incantevole La sovrana lettrice - è  questo: non è possibile che Una vita come le altre (Adelphi) sia uscita dalla stessa penna, non è possibile che ci siano dietro la stessa vita e la stessa intenzione di scrittura.

Pensare che è inconfondibile lo stile raffinato e garbato, impastato di tante buone letture e del distacco dell'ironia. Solo che per me Bennett era scrittore tipicamente inglese anche per la capacità di sottrarre se stesso al racconto. Come se parlare di se stessi, confessare le proprie emozioni, mettersi insomma a nudo, fosse non solo imbarazzante, ma addirittura disdicevole.

Magari questo libro è stata una scelta sofferta. Oppure uno di quegli stacchi improvvisi che l'età e i fatti della vita a volte impongono. In ogni caso qui c'è tutto ciò che Bennett non ha mai raccontato: la storia della sua famiglia, che poi non è una storia straordinaria, è una storia "come le altre" appunto, eppure unica, irrepetibile. Storia dolce e dolorosa, storia di una famiglia normale in un'Inghilterra normale, il lavoro fatto con scrupolo, i sogni su misura, le aspettative mai troppo azzardate.

La storia di un padre e di una madre, di una coppia che non ha mai alzato la testa e nemmeno la voce, timida e discreta,  defilata anzi confinata in un mondo chiuso di gesti ripetuti, abitudini, diversivi nessuno.Forse oggi si direbbe che non ha mai vissuto, tanto poco si è concessa.

("Io e tuo padre inizieremo a far conoscenze" mi scrisse mamma. " Pensa: abbiamo lo sherry, e anche delle noccioline salate")

E poi la malattia mentale della madre, una lunga difficile storia che cambia tutto, o forse no, non una malattia che taglia e separa, piuttosto un fardello con cui convivere, nell'imprevedibile alternarsi di momenti sereni e di ricoveri.
  
(e ora mi si accende una lampadina pensando al Bennett autore, tra l'altro, di La pazzia di Re Giorgio: scrivendo di altro quasi sempre si scrive di se stessi)

Eppure non un libro sulla malattia e sulle penose trafile che esige dai famigliari del malato. Bennett non denuncia, non chiede compassione.

Perché nella malattia questa famiglia "come le altre" rimane se stessa, con le sue piccole grandi cose, i gesti di sempre, gli affetti tenaci ancorché tenuti a bada dalle esigenze della rispettabilità.

Come le altre, ma rimanendo se stessi, nonostante tutto. Un libro come un canto di gratitudine a quanto vale davvero la pena.

giovedì 14 dicembre 2017

In Transilvania un mondo antico che è già elegia

Avevo trovato l'Europa orientale fantasticata da bambino leggendo le favole russe: quella dei capanni di legno ai margini di foreste popolate da lupi e orsi, con la neve, le slitte, le giacche di pecora, le bluse ricamate, le donne col fazzoletto in testa. Pensavo di essere nato troppo tardi per poter incontrare da qualche parte la vita contadina descritta da Tolstoi e Hardy, ma mi ero sbagliato. Ecco i resti di un mondo antico....

La citazione è lunga, ma racchiude tutto il fascino che sprigiona Lungo la via incantata di William Blacker (Adelphi), libro potente, libro che prende e cattura come pochi altri tra i tanti che ci accompagnano nell'esperienza del viaggio. Libro sorprendente, addirittura spiazzante, perché portandoci in un altrove da fiaba, in realtà ci racconta il tempo e ciò che il tempo fa dei luoghi.

Romania, ultimi giorni 1989: il regime socialista di Ceasescu crolla di schianto, la rivoluzione ha vinto e non c'è un momento da perdere. La frontiera è aperta, ma vai a sapere cosa succederà ora che non c'è più un muro a chiudere quel mondo e in qualche modo anche a preservarlo.

William Blacker appartiene a quel tipo di inglese che - come Bruce Chatwin e Patrick Leigh Fermor - si porta dentro l'istinto del nomade e la curiosità dell'intellettuale che il mondo intende constatarlo di persona. Finisce in Maramureș, la parte più remota e immutata della Transilvania. Si ferma, viene adottato da una famiglia contadina che davvero appartiene a un altro tempo, solo che questo tempo è ancora il presente in Maramureș. Comincia a sperimentare una vita che da secoli è la stessa: il lavoro nei campi, le feste e i funerali, le bevute e i canti.Ci resterà per anni.

E' entrato a far parte di un mondo che sembra inconcepibile abbia convissuto con il regime di Ceasescu e con ciò che esso ha rappresentato anche come trionfo della bruttezza e dello sradicamento.  Un mondo che ha saputo resistere, ma che proprio ora è segnato: ciò che non ha fatto la storia, ciò che non ha combinato la dittatura, potranno portare a compimento ora, con implacabile velocità, le strade asfaltate e le tentazioni del supermercato.

Il tempo appunto, il tempo in cui è rimasto sospeso l'ultimo lembo di un'Europa antica, di un'Europa qual era, presente che è già elegia, bellezza già intrisa di nostalgia. Questo il Maramureș, una foglia di autunno che sta per staccarsi. Dopo, una volta a terra, sarà facile calpestarla. 

giovedì 16 febbraio 2017

Per il fiocco di neve è di conforto il rigagnolo di acqua sporca

Sono solo un giornalista, e per giunta dei più comuni, nel vero senso della parola. Con una moglie, due bambini e un cocker. 

Così dice di sé Hervé Clerc. E benché non sia propriamente un giornalista comune non è per questo che merita farne la conoscenza, piuttosto per quello che di lui scrive il suo grande amico Emmanuel Carrère: "Hervé appartiene a quella categoria di persone per le quali essere non è un fatto ovvio".

Di Hervé sostiene anche che sia l'uomo meno fanatico del mondo e il più libero dai pregiudizi. E già questo basterebbe. Ma la questione è che un giorno ormai lontano, svanito l'entusiasmo del Maggio francese ma non ancora conclusa la giovinezza che invita alla ricerca, Hervè si trovò a incrociare il buddismo.

 Lo scoprì nudo, immobile, vuoto. Nemmeno seppe dargli un nome e del resto tutto accadeva al di fuori delle parole. Ma senza diventare buddista da allora ha continuato a inoltrarsi in quell'oceano di saggezza, sospinto dal vento delle domande più che dalla fame di risposte.

Tutto questo ora potete leggere in Le cose come sono (Adelphi), libro scritto avendo per la testa il lettore più lontano dal buddismo: un lettore francese radicato nella propria cultura, con il basco e la baguette sotto braccio, un lettore che ha tanta voglia di convertirsi al buddismo quanto di barattare il proprio bicchiere di Beaujolais con una tazza di sakè.

E così potrete scoprire che per un fiocco di neve è confortante pensare di non aver concluso la corsa, quando si confonde con l'acqua sporca del rigagnolo. Che siamo chiamati a percorrere una strada, non a raggiungere una meta, perché la fine del mondo, il luogo senza nascita né vecchiaia né morte, è in realtà il nostro corpo. Che bisogna abbattere gli alberi che nascondono la foresta. Che a volte la follia è la cosa più ragionevole che ci sia al mondo. E molto altro ancora.

No, non è la solita storia del naufrago del Sessantotto che si aggrappa al relitto di una fede purchessia. Buddismo, dice Hervé, è la religione dell'attenzione. Queste pagine sono una buona palestra di attenzione.

giovedì 17 novembre 2016

Carrère e l'uomo che non vuole essere d'accordo con se stesso

No, non credo che Gesù sia risorto. Non credo che un uomo sia tornato dal mondo dei morti. Ma il fatto che lo si possa credere, e che io stesso l'abbia creduto, mi intriga, mi affascina, mi turba, mi sconvolge - non so quale sia il verbo più adatto. Scrivo questo libro per non pensare, ora che non ci credo più, di saperne più di quelli che ci credono e di me stesso quando ci credevo. Scrivo questo libro per cercare di non essere troppo d'accordo con me stesso.

Mi sa che bastano queste parole per farsi catturare da questo libro così ricco, complesso, provocante. Così diverso da altri del grande Emmanuele Carrère - ce ne corre tra Limonov e i primi evangelisti - eppure così coerente col percorso di uno scrittore che si misura con la verità dei fatti, che non inventa perché la realtà richiede più immaginazione di ogni immaginazione, che racconta storie lontane raccontando in fondo sempre anche di se stesso.

Ecco qui, Il regno (Adelphi), l'opera con cui Carrère si spinge a indagare sul Cristianesimo degli albori, sui primi cristiani sospesi tra il miracolo del Messia e le persecuzioni de
i romani, modesta setta ebraica che presto avrebbe cambiato il mondo. Però non è il saggio di un teologo o di uno studioso delle religioni. Piuttosto è l'opera di un uomo che credeva e ora non crede più, ma che non ha smesso di stupirsi e interrogarsi. E in questo cammino ecco l'incontro con personaggi vivi, ecco storie dentro la storia, ecco domande che scavano nel profondo, inquietudini che si dissipano come nebbia al mattino. E dubbi, tormenti, tentazioni, sconvolgimenti.

Quante cose che ci sono qui dentro: narrazione ed erudizione, inchiesta e sense of humour. I misteri della fede, le grandi questioni dell'esistenza, ma anche la vita di Carrère, filo che si srotola nel farsi dell'opera: così che insieme a Paolo l'apostolo, a Luca l'evangelista, a Filippo di Cesarea e Flavio Giuseppe, non ci crederete, ma sbucano anche le vicende di una bay-sitter squinternata, le fantasie inquiete di Philip K. Dick, perfino un video porno che gira sulla Rete.

Questo e tant'altro. Un gran libro, per abbandonarsi all'uomo che non intende essere troppo d'accordo con se stesso. Mica poco, davvero.

venerdì 11 novembre 2016

Mordecai, politicamente scorretto e così tenero per Jacob

E c'è anche Jacob Due Due, anzi Jacob Two Two, cioè il bambino costretto a ripetere ogni cosa due volte, perché la prima non lo capisce nessuno. Non lo conoscevo, anche se credo sia piuttosto famoso tra i suoi coetanei, non fosse altro che per il cartone animato.

Il fatto è che è uscito dalla penna di uno degli scrittori che più mi sono cari, Mordecai Richler, l'autore de La versione di Barney, cioè uno di quei libri che se qualcuno mi facesse la domanda "che cosa ti porteresti dietro in un'isola deserta?", ecco, sarebbe proprio uno di quei libri.

Ma La versione di Barney non è solo un libro per adulti, è un libro che va letto con alle spalle il tempo della vita, un libro che ha bisogno delle lenti dell'esperienza. Come una cena da consumare dopo che all'aperitivo ci siamo serviti di tutti gli assaggi delle delusioni, delle infatuazioni, delle separazioni.

E invece ecco  Jacob Due Due, le cui storie in Italia sono pubblicate per Adelphi allo stesso modo degli altri titoli. Leggo in un bel libro di Christian Rocca, Sulle strade di Barney (più che una biografia un atto di amore nei confronti del grande Mordecai) che Jacob è in realtà il più piccolo dei figli della famiglia Richler, Jacob, appunto, detto Jake.

Era lui che doveva ripetersi sempre, perché la prima volta che apriva bocca nessuno gli dava ascolto. Da grande Jacob lo spiegò in un'intervista, che fu trasmessa nel teatro di Montréal dove si ricordava il padre defunto. Solo che saltò tutto. Gli organizzatori dovettero penare per sistemare le cose e fecero ripartire l'intervista dall'inizio. Jacob Due Due, appunto.

La cosa sarebbe senz'altro piaciuto a Mordecai. E a me piace che questo scrittore che tutti ricordano come uno dei più politicamente scorretti dei nostri tempi, poi potesse scrivere pagine così tenere per tutti i bambini.

lunedì 10 ottobre 2016

Tra Merlino e il Santo Graal, il romanzo all'inizio dei romanzi

Pensare che è il primo romanzo in prosa nella storia della lingua francese: roba, pare, a uso e consumo di appassionati di filologia, comunque di studiosi seri. Pensare che il titolo basta a destare un ovvio timore reverenziale. Il Libro del Graal: roba, è evidente, da malati di strani esoterismi.

Diciamolo pure, se non fosse stato per il mio viaggio di quest'estate in Galles e Cornovaglia, sulle orme di Re Artù e dei suoi cavalieri, da questo libro mi sarei tenuto ben alla larga. Diffidandone con tutto il cuore.

Però è così: sono tornato e ho deciso di dedicare questo autunno, forse anche l'inverno alle storie del Re dei Britanni, con tutto quello che ne discende: compresa l'estenuante ricerca del Santo Graal. Per questo mi sono imbattuto anche in questa opera di Robert de Boron, scrittore di Francia, anzi, di Borgogna, dell'epoca della cavalleria e delle crociate.

E alle sue pagine mi sono avvicinato come chi se ne sta al bordo della piscina e sfiora l'acqua con le dita del piede, perché non sia mai, magari è troppo fredda. Per poi trovarmi di colpo in acqua e nuotare,  a nuotare con il freddo che se c'è stato ora se n'è andato via.

E ho letto di Giuseppe di Arimatea, primo custode del calice che raccolse il sangue di Cristo. Ho letto di Merlino, nato dall'unione di una donna e del diavolo, dotato del dono della profezia e della metamorfosi, profeta del Graal e guida di Artù. Ho letto dei cavalieri della Tavola Rotonda, delle loro peripezie, dei loro duelli, dei loro viaggi per mare e per terra. Ho letto infine di Perceval, il più indomito ma soprattutto il più puro di tutti, che arrivato al Graal una prima volta se ne dovrà tornare indietro perché non ha posto la domanda che doveva porre. Ma che in seguito - dopo aver ancora tanto cercato e penato - del Graal potrà diventare l'ultimo custode.

Sorprendente, coinvolgente, enigmatico, anche a prescindere dal misticismo che lo pervade: un romanzo, un vero romanzo. Alla fine da quella piscina non avrei voluto uscire.

lunedì 8 agosto 2016

Lo scrittore in cammino nell'Inghilterra che non ti aspetti

Nell'agosto del 1992, quando la canicola cominciò ad allentarsi, intrapresi un viaggio a piedi attraverso la contea di Suffolk in East Anglia con la speranza di sfuggire al vuoto che si stava diffondendo in me dopo la conclusione di un lavoro piuttosto impegnativo. Una speranza che sino a un certo punto si è anche realizzata, perché di rado mi sono sentito così libero come in quel periodo, durante le ore e i giorni passati a vagabondare.

Comincia così Gli anelli di Saturno (Adelphi), libro scritto in cammino attraverso il Suffolk - un posto che in effetti non verrebbe mai in mente di scegliere per un viaggio, almeno "prima" di questo libro - ma in realtà attraverso tutto il tempo e lo spazio che può abbracciare un viaggio, un viaggio che sa farsi spessore, profondità, squarcio, lampo di luce.

Chilometri lenti, chilometri a piedi, chilometri in paesaggi dai contorni sfumati dalla bruma, chilometri con i piedi gonfi e l'umidità che entra nella ossa. Altri avrebbero la sensazione di non arrivare mai da nessuna parte, ma W. G. Sebald, uno di cui chissà perché non viene di scrivere il nome per intero, fa venire il capogiro da quanto riesce ad arrivare lontano.

E dunque qui c'è perfino l'Africa nera di Joseph Conrad, c'è perfino la Cina al tramonto del Celeste Impero.

E tutto regge, tutto si tiene, tutto rimanda a tutto, nel passo leggero che si fa parola sommessa, ipnotica, coinvolgente, parola che sostiene a sua volta il cammino.

E l'ultima cosa che viene in mente, o forse la prima, non è che Sebald ci ha lasciato troppo presto, privandoci di vai a sapere quali altri libri. Ma che uno scrittore in cammino come lui non poteva che morire così, spazzato via in un incidente automobilistico, estrema beffa di una storia che  lui avrebbe saputo raccontare perfino troppo bene.

lunedì 9 maggio 2016

Malgrado il defunto odiasse i pettegolezzi

Mosca, 14 aprile 1930, poco dopo le 11 del mattino: un colpo di pistola uccide il poeta e scuote la capitale del socialismo mondiale. Rimane un corpo, rimangono domande senza risposta e su tutte una: perché si è ucciso Vladimir Majakovskij?

E' da questo sparo, è da ciò che succede in quella minuscola stanza ricolma di libri, che prende le mosse Il defunto odiava i pettegolezzi di Serena Vitale (Adelphi), straordinario romanzo inchiesta che assembla documenti, articoli, testimonianze intorno a una morte che ha fatto fragore e scandalo.

Già, perché si è ucciso Majakovskij? Perché è venuto meno il sogno del socialismo o perché il socialismo è un abito che ormai gli stava troppo stretto? Perché il canotto dell'amore si è infranto contro gli scogli della vita circostante? O perché come poeta ha già dato il meglio e ormai poteva solo plagiare se stesso?

Vai a sapere, perché. Ma certamente non è una morte come le altre. Provoca parole a non finire, grandine di parole, valanga di parole. A partire dalla nomenklatura sovietica, irritata e imbarazzata da una morte così poco confacente al poeta della rivoluzione, eppure ben attenta a sgombrare il campo da ogni motivazione politica del suicidio. Per non dire di ciò che passa dalle labbra dei critici, dei giornalisti, dei letterati, dei rivali e delle amanti, dei cittadini che accorrono al funerale, diventato funerale di stato, celebrazione di massa, emozione collettiva. Ipotesi, ricordi, illazioni, naturalmente pettegolezzi, tanti pettegolezzi....

Non c'è verità in questa storia. Non c'è come non c'è davvero Vladimir. E' il posto vuoto, il convitato di pietra, mentre tutti parlano, mentre le parole si aggiungono alle parole e occupano ogni spazio, fin quasi a togliere il respiro.

Quello sparo è la pietra tombale per un'intera generazione di poeti della rivoluzione. Oltre  quel corpo, oltre le domande senza risposta, dopo rimangono solo una quantità di versi meravigliosi e forse un brivido di libertà. 

mercoledì 24 febbraio 2016

L'altro poeta che scriveva come Pessoa


Mi volevate sposato, quotidiano e tassabile?
Mi volevate il contrario di questo, il contrario di qualcosa?
Se fossi un altro vi asseconderei.
Così come sono, abbiate pazienza!

Firmato Fernando Pessoa, anzi, per la verità Alvaro de Campos. O forse meglio dire al contrario: firmato Alvaro de Campos, al secolo Fernando Pessoa. 

Si sa, c'è da ubriacarsi nel gioco delle identità, delle maschere, degli specchi, quando ci troviamo al cospetto dell'immenso poeta portoghese. Non era lui che diceva di essere una moltitudine, di sentirsi tutti i molti io che era stato? 

 Mica solo un'affermazione filosofica o un modo di dire, magari per darsi un tono: ma verità tenacemente praticata, attraverso i molti eteronimi adoperati. Molto più di semplici pseudonimi per questa o quella poesia. Perché ciascuno di questi eteronimi diventa personaggio credibile, autentico, con una sua vita, una sua storia.

Prendete per esempio Alvaro de Campos, di cui Adelphi raccoglie in questo volume le sue poesie. Uno legge i suoi versi e scopre un Pessoa alternativo e possibile. Perfino con un passato. Poeta futurista, imbevuto di avanguardia europea benché appartenga a quella Lisbona che è periferia del continente. Dandy tediato dalla vita, fumatore d'oppio, fisico e animo segnato da vaghezze e mollezze. Irriverente, sovversivo, solitario. Fuma una sigaretta dietro l'altra e ironizza sulla vita. Indugia spesso sui moli per accompagnare con lo sguardo le navi che partono.

E scrive cose così:

Ho viaggiato per più terre di quelle che ho toccato…

Firmato con orgoglio: Alvaro de Campos, ingegnere. L'altro Pessoa. Uno dei Pessoa. Vero come Pessoa.

mercoledì 20 gennaio 2016

Con Puck il folletto nell'Inghilterra che fu

Lasciate da parte Il libro della giungla, le lontananze esotiche, i tempi dell'impero inglese, té in veranda e battute di caccia alla tigre, partite di cricket sotto il sole tropicale e divinità dai nomi impronunciabili. Ruyard Kipling non è solo l'India, le colonie, un mondo inghiottito dalla storia.

Prendete per esempio Puck il folletto, un libro per tutte le età. Un libro con cui Kipling ritorna a casa, sempre che l'Inghilterra possa davvero essere la sua casa, e non piuttosto il più meraviglioso di tutti i paesi stranieri dove sia mai stato, come diceva.

Racconta Ottavio Fatica nella nota all'edizione Adelphi che per Kipling la macchina era una sorta di macchina del tempo. Sulla quattro ruote prendeva e partiva come gli altri, solo che riusciva a vedere ciò che gli altri non riescono a vedere, perché bene che vada è solo roba da ragazzi.


Andava scorrazzando per l'isola che non c'è, per quell'Inghilterra piena per lui di meraviglie e di misteri stupefacenti. Un giorno in macchina nella campagna inglese era un giorno in un museo fatato dove tutti i pezzi sono vividi e reali e, al tempo stesso, deliziosamente mescolati con i libri

Ed ecco dunque il Colle Fatato che non è solo un luogo di una mappa fantastica, è una torre di avvistamento per scrutare la storia e le storie, per far emergere dal buio dei tempi i personaggi, le leggende, ciò a cui è bello restituire la parola. Ecco Puck, fauno di shakespeariana memoria, che racconta ai bambini di cavalieri normanni, di pirati vichinghi e di centurioni romani del Vallo di Adriano.

Raccontando ai bambini, ma restituendo a tutti gli occhi con cui i bambini sanno ancora alimentare la meraviglia.

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...