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lunedì 3 febbraio 2020

Sulle rive del Baltico, le due città che sono una città

E anche a me, che vorrei tener distinte nella memoria le due città, non resta che parlarti dell'una, perché il ricordo dell'altra, mancando di parole per fissarlo, s'è disperso.

Sono parole di Italo Calvino, dalle Città invisibili, capolavoro a cui è utile ritornare sempre, come nave al suo approdo. E tornare soprattutto mentre si attraversa le pagine di questo libro, dedicato appunto a una città che in realtà è due città, separate dal tempo e dalla storia più che da un muro. Senza che nemmeno il nome sia rimasto a unire le sponde del passato e del presente.

Prima c'era Königsberg, la capitale della Prussia orientale, potente porto baltico e tedesco, la città di Immanuel Kant, sulle cui passeggiate quotidiane si poteva accordare l'ora. Poi c'è stata Kaliningrad, città sovietica, tanto da portare il nome del primo capo di Stato dell'Urss, e quindi russa, capoluogo di un'enclave che è Europa e allo stesso tempo è altro. In mezzo la cesura della guerra, la cancellazione di una presenza e di una storia, la ricostruzione di un'altra città dopo che della precedente erano rimaste solo le macerie.

 Ed è in questa città che sono due città che ci accompagna Valentina Parisi nel suo Una mappa per Kaliningrad. La città bifronte, altro bel libro proposto da Exòrma. Ci prende per mano, con la sua narrazione avvolgente e non ci molla mai, perché molte sono le vicende, molti sono i fili di una trama insospettata.

E c'è la grande storia che si accanisce su quella che Curzio Malaparte definiva piccola città dell'Occidente, in riva allo sterminato oceano della pianura slava, storia che fa della città bifronte il frangiflutti in cui si abbattono e si mescolano popoli e culture diverse. Ma c'è anche la memoria famigliare, che fa di questo viaggio - e di questo libro - una promessa mantenuta. 

Perché a Kaliningrad, che era  Königsberg, c'erano i prigionieri italiani dei tedeschi. Perché tra di essi, a patire di fame sotto i bombardamenti, c'era anche un nonno che a ogni Natale saltava fuori coi suoi racconti, che nei ricordi di una bambina si mescolavano al vitello tonnato e ad altre abitudini delle feste comandate. 

Che fine fanno le città che hanno perso il loro nome? Esistono ancora, per lo meno nelle geografie immaginarie? Possono rivendicare qualcosa, benché invisibili?

Quante domande mentre queste pagine mi sospingono verso un molo proteso sulla distesa grigia del Baltico, a soppesare ciò che c'è e ciò che non c'è più.






domenica 15 settembre 2019

In viaggio con le anime baltiche

E' bello scegliere un libro come compagno di viaggio e scoprire che sì, è stata la scelta giusta, quel libro non ha fatto solo il suo dovere -  la sera prima di dormire o su una panchina prima di ripartire - ha fatto molto più, ha dato senso, profondità, anima ai luoghi del tuo viaggio. Questo mi è successo con Anime baltiche di Jan Brokken (Iperborea): il mio compagno di viaggio in queste mie settimane in Estonia, Lettonia e Lituania. 

Erano anni che lo avevo in casa, sistemato nelle pile dei libri in attesa, quelli per cui mi sono impegnato con me stesso: sì, un giorno, prima o poi. Da anni, perché per l'appunto attendevo di portarmelo con me, nelle repubbliche baltiche. Da libro su cui scommettere, confidando su altre cose che di Brokken ho letto - raccomando Nella casa del pianista, sulla vita di Youri Egorov - e anche sui giudizi di alcuni amici, che prima di me hanno fatto ciò che io solo ora sono riuscito a fare. 

E' venuto con me e non ha tradito le aspettative, che erano alte. A Riga, nella via dei palazzi Jugendstill immaginati e disegnati dal padre di Sergei Eisenstein, come a Vilnius, nei luoghi che furono di un bambino ebreo che si chiamava Roman Kacev e aveva una madre che gli aveva chiesto di diventare ambasciatore di Francia: io un giorno l'avrei letto e amato con il nome di Romain Gary. Ma anche sotto le mura di Tallinn, tra le strade sovietiche di Daugavpills, per i castelli di Curlandia. E quante splendide storie ci racconta Jan Brokken, si tratti di uno straordinario pittore come Mark Rothko, di una filosofa come Annah Arendt, di un musicista come Arvo Part, oppure di una ragazza come Loreta, che nella vita voleva solo danzare ma finì sotto i carri armati russi all'alba dell'indipendenza lituana. Senza dimenticare Tomasi di Lampedusa - incredibile, anche lui - che sposò un'aristocratica di queste terre e cominciò a scrivere il suo capolavoro guardando al declino dell'aristocrazia tedesca del Baltico. 

C'è qualcosa nel Baltico che lo fa mare di storie, non meno dell'Egeo. Storie che forse gli uomini si raccontano di generazione in generazione e che in qualche modo entrano nella cultura, nello spirito dei luoghi. Solo di tanto in tanto trovano un grande scrittore: questo è uno dei rari casi. 


venerdì 17 luglio 2015

In Estonia, per scoprire ciò che abbiamo alle spalle

Un piccolo paese lontano, affacciato sul Baltico, uno di quei paesi di cui sa poco e che verrebbe da pensare tagliati fuori dalla Storia. E invece la Storia qui è passata e ripassata più volte, non ha fatto sconti, ha inflitto cara armati e campi di concentramento, ha presentato il conto con invasioni e dittature.

Estonia, un estremo lembo di Europa, un'identità di confine, una possibilità di libertà che si è dovuta fare largo nell'eterna contesa tra Russia e Germania. I tre racconti di Jaan Kross raccolti de La congiura (Iperborea) fotografano altrettanti momenti del secolo delle tragedie, il Novecento.

Tallinn, 1939: i sovietici si apprestano a occupare porti e basi militari, mentre gli estoni di lingua tedesca salgono sulle navi di Hitler. Pochi anni più tardi, l'Estonia è annessa alla Germania nazista. Ma la Liberazione significa solo 6 giorni di indipendenza: Stalin invade e annette. Cambiano i padroni delle carceri, ma nelle carceri finiscono sempre i dissidenti, gli oppositori, quelli che hanno anche solo inconsapevolmente intralciato il cammino.

Jaan Kross, grandissimo scrittore che ci spalanca una finestra su un mondo pressoché sconosciuto, tutto questo lo ha ben appreso sulle sue spalle, visto che è stato arrestato dai nazisti e poi, nel 1946, anche dai sovietici.

Ma questo libro non è solo autobiografia, assolutamente no. E' anche penna felice, che inventa, racconta, insegue i destini individuali, tenta di riacciuffarli nei buchi neri della storia. 

sabato 27 giugno 2015

Il maledetto terzo giorno in bici e il paradosso di Zenone

Dicono che il terzo giorno sia il peggiore, per i viaggi su due ruote. Dicono e in realtà talvolta l'ho sperimentato. Il primo giorno anche i muscoli meno allenati raccolgono la sfida dell'entusiasmo e giocano sulla freschezza; il secondo non va affatto bene, ma uno lo sa, lo mette in conto, e sulle sue aspettative calibra la tappa e misura il rendimento; ma il terzo, perché il terzo proprio non si va, perché il nostro corpo è così molle e sfiatato?

L'ho sperimentato sulla mia pelle, il maledetto terzo giorno. Di volta in volta ho imprecato contro l'acido lattico, ho rimpianto la mia allergia agli allenamenti, ho studiato percorsi alternativi e soprattutto mezzi alternativi, hai visto mai che nei dintorni non ci sia una stazioncina. 

Ho tirato avanti così, con il miraggio di un comodo treno che per il popolo della bicicletta è l'equivalente del carro attrezzi per l'autista in panne. Macerandomi sui chilometri che non passano mai, sulla strada davanti che è sempre la stessa. Con contorno di deprimenti considerazioni sulla vischiosità dello spazio. E per pietanza qualche crudele disanima filosofica.

Al liceo, mi ricordo, scoprii Zenone, una di quelle teste che ai tempi la Grecia produceva in quantità industriale. 

Ricordate? Zenone e i suoi paradossi. La storia di Achille e la tartaruga che si sfidano alla corsa. Il piè veloce che accorda un vantaggio al suo risibile avversario, serenamente convinto che se la mangerà in un sol boccone. Solo che ogni volta che Achille raggiunge una posizione in precedenza occupata dalla tartaruga, quest'ultima è già avanzata, di poco ma è avanzata. E lo stesso quando arriva in quella nuova posizione. Il vantaggio diminuisce, tende verso l'infinitamente piccolo, però la tartaruga rimane sempre avanti. 

Dubito che la gazzella che il leone è sul punto di sbranare trovi motivo di conforto nella filosofia e in particolare in Zenone. Nemmeno io ne trarrei giovamento, nei panni dell'inseguito. Però il paradosso può acquistare una sua stupefacente parvenza di verità.

Avete presente quando i traguardi non si avvicinano mai? Quando semmai danno l'idea di allontanarsi?

(da Paolo Ciampi, Le nuvole del Baltico, Mauro Paglia editore)

domenica 8 giugno 2014

In questo mare che pare una lastra di marmo

Ancora una volta, in questo viaggio, ho il mare davanti. Il mare che non appartiene all’uomo ma che è ricco di storie dell’uomo. Storie che come navi vanno alla deriva o si incagliano. Che arrivano felicemente a destinazione o che arrivano dove non dovevano arrivare, complice un vento che cambia, una corrente inattesa, un guasto a bordo.

Lo dico io che ho più confidenza con la montagna e non sono mai salito su una barca a vela: il mare è il miglior elemento per un uomo che voglia accogliere sogni. Non dico realizzare sogni, dico accoglierli.

E ho Ernesto accanto a me. Ernesto che ora mi sembra grande e piccolo insieme, come se diverse età convivessero insieme. Cosa che in fondo vale anche per me e forse per per tutti. Quante volte mi succederà ancora di sentirmi ragazzino e poi magari di scontarla con i crampi allo stomaco?

Ernesto. Mi sembra impossibile aver generato questo bambino, così cresciuto, così bambino e così cresciuto. Vorrei poter ascoltare la risacca, giù in fondo, cullarmi nel ritmo dell’acqua aI fenomeni s’intersecano; vederne solo uno equivale a non vedere nulla. Strano, sembra più di un monaco buddista che di uno scrittore dell'Ottocento francese
vanti e indietro. Mi approprio almeno di una frase di Victor Hugo:
E acchiappo la sensazione che tutto è come davvero deve essere.

I gabbiani non si sono zittiti. In qualche modo io sono quella nave che mezz’oretta fa si è staccata e ora non si vede più. Sono quella nave ghermita da un nord più al nord, in questo mare che pare una lastra di marmo.

(da Paolo Ciampi, Le nuvole del Baltico, Mauro Pagliai edizioni)




giovedì 30 gennaio 2014

Il Porto delle storie e il viaggio di Ulisse

C'è chi sostiene che il lungo viaggio di Ulisse verso casa e prima ancora la guerra di Troia non c'entrino con i nostri mari caldi, con i profumi della macchia mediterranea, con i pomeriggi riarsi dal sole e i campi a olivo e vite. Piuttosto con le acque gelide del Baltico, con le terre abitate dagli antenati dei vichinghi, su a nord. Come succede alle storie che si raccontano intorno a un fuoco, quelle vicende si sarebbero incamminate verso il sud, per poi trovare un poeta, o più poeti, in grado di donare loro la bellezza del verso. E non mi importa che sia un'ipotesi fondata piuttosto che l'ennesima idea strampalata. Mi piace questa idea delle storie che si muovono assieme agli uomini, passando di bocca in bocca. 

L'ho presa alla larga, molto alla larga, ma era esattamente a questa storia di storie in viaggio che pensavo l'altra sera, mentre insieme ad Angela Terzani ed Alen Loreti partecipavo all'inaugurazione del Porto delle Storie. Una realtà che non so bene come definire - bar condiviso, spazio di approdo, luogo di scambio di parole e idee - ma che senz'altro è un'altra prova provata di un paese che dà il meglio di sé dove forse meno ci si aspetta. E il meglio si può trovare anche in un ex circolino dell'Arci, fino a ieri malmesso e abbandonato a se stesso, nascosto in un reticolo di strade alla periferia di Campi Bisenzio.

Certo, ci sarebbero molte altre cose da dire: i prodotti del commercio equo e solidale, il rapporto con Libera, il lavoro prezioso di una cooperativa che già in passato ho avuto modo di conoscere, le gambe che una nuova amministrazione comunale sta dando a diverse buone idee.... Però a me piace soprattutto questa idea delle storie, questo stesso nome che evoca le storie.... Il Porto delle Storie....

E mentre i miei pensieri vagavano tra il Baltico e il Mediterraneo, inseguendo parole di viaggi e su viaggi, ecco, mi è venuto in mente che è esattamente questo ciò di cui abbiamo bisogno: porti a cui approdare, porti in cui cercare riposo e mescolare le nostre parole, in cui lasciare il bagaglio dei nostri racconti e prepare altre partenze.  Bello, come no. Necessario, anche. 

Più tardi una persona amica mi ha risvegliato dalle mie elucubrazioni. Bisogna levare l'articolo, per capire il senso: così mi ha detto. E il sostantivo si è fatto anche verbo. Non solo un porto per ormeggiare le storie. Ma un luogo dove io porto le storie.

E la cosa mi è piaciuta ancora di più. E mi è venuta in mente che in questa storia di storie c'è un'altra storia, bella, che merita di essere raccontata. Quella di un porto, quella di uomini e donne che, come Ulisse, tornano e poi ripartono.

giovedì 7 febbraio 2013

Come una farfalla la bici rende il mondo migliore

Effetto farfalla: ne avete mai sentito parlare? È un concetto che mi piace molto, benché da qualche tempo mi richiami la tipica insofferenza per le espressioni adoperate fino all'abuso, come il prezzemolo di una cucina povera di altri sapori. Reazione che credo abbia qualcosa a che vedere con l'idea che sia moda recente, trovata di successo di qualche produttore di best-sellers dei nostri anni o anche di un qualche santone pronto a schiudervi il segreto di insospettate energie della mente – e le due categorie in effetti spesso coincidono. 

Solo l'altro giorno ho scoperto che questo concetto ha dalla sua anche la solidità del tempo e l'autorevolezza dei natali. Anche se non lo chiamava così, il concetto c'era già tutto nelle riflessioni del matematico inglese Alan Turing, uno degli uomini che dobbiamo ringraziare se oggi il computer è uno strumento di uso domestico come la moka per il caffè.
 
Lo spostamento di un singolo elettrone per un miliardesimo di centimetro, a un momento dato, potrebbe significare la differenza tra due avvenimenti molto diversi, come l'uccisione di un uomo un anno dopo, a causa di una valanga o la sua salvezza.

E certo se lo spostamento di un elettrone può combinare tutto questo c'è da chiedersi che cosa abbiano potuto produrre tutti i comportamenti persecutori, oggi classificati come omofobia, che portarono il povero Turing a suicidarsi a 42 anni. Ma questo è un altro discorso.

sabato 20 ottobre 2012

Quanti pirati nella Tortuga del Baltico

Vedi, Ernesto, solcando questo mare, tutto a dritto, si arriva a Gotland. Antica terra di spavaldi uomini di mare che con i loro traffici si spingevano fino in Russia e avevano rapporti perfino con i mercanti arabi. Gotland, anzi, l'isola di Gotland, la più grande del Baltico. Per dare un'idea, come la Guadalupa e la Martinica messe insieme.

Crocevia di rotte e di traffici, Gotland in effetti è conosciuta anche per la sua lana. Ed è decisamente fiera delle sue pecore, quasi le garantissero uno speciale appeal. Non solo perché vanta più pecore che esseri umani. È che qui le pecore nere vanno per la maggiore, ponendo qualche problema a chi è solito considerarle come l'eccezione nel gregge, l'anomalia.

Gotland è in primo luogo il suo porto, Visby, città anseatica dove per secoli hanno saputo convivere tedeschi, danesi, russi, lituani, estoni. Città potente, città che si è fatta forte dei suoi traffici. E quante merci che sono transitate per quelle banchine. Tessuti fiamminghi, pellicce siberiane, caterve di pesce salato. Più le ricchezze accumulate da altri personaggi per cui il commercio non era occupazione, ma ragione di appetito e quindi di guadagno illecito.

lunedì 27 agosto 2012

Il diversivo dei tre uomini a zonzo

Quel che ci occorre – disse Harris – è un diversivo.

L'avete riconosciuto? Trattasi dell'immarcescibile attacco di Tre uomini a zonzo, uno dei miei libri cult da ragazzino. Quello con il trio di amici, già protagonista della più nota vacanza in barca giù per il Tamigi, che ritiene di meritarsi un altro periodo di licenza dal lavoro e dalla famiglia. E che in questo modo comincia a mettere a fuoco l'opportunità, anzi, l'urgenza di un viaggetto in bici per la Germania.

Ogni volta che parto per un viaggetto - soprattutto un viaggetto in bicicletta - ne rileggo qualche pagina.  Anche a distanza di anni le pagine di Jerome Klapka Jerome mantengono intatta la forza del suo inglesissimo umorismo. L'ho ampiamente citato - non potevo fare altrimenti - anche nel mio Le nuvole del Baltico - sempre di un viaggio in bicicletta si tratta e per di più in Germania.

Meno travolgente forse di Tre uomini in barca (per non parlare del cane, che qui manca) Tre uomini a zonzo forse è più pungente e cattivello nella sua satira di costume, che prende sistematicamente a bersaglio i poveri tedeschi.

Del resto dopo che in tante altre pagine aveva conciato per le feste i suoi connazionali, Jerome se lo poteva permettere.

Quanto alle disavventure su due ruote valga una per tutte. Chi è il cicloturista che non si è ritrovato così?

Dalle informazioni assunte nel paese, doveva essere una di quelle strade su cui è impossibile smarrirsi. Credo che tutti conoscano questo genere di strade. In generale, riconducono al punto dal quale si è partiti; quando non è così, lo si rimpiange amaramente. Per lo meno, ritrovandosi al punto di partenza, si sa dove si è.

sabato 25 agosto 2012

Ma quanti discorsi sul tempo, in questo viaggio

Ma quanti discorsi sul tempo, in questo viaggio…

Sul mio tempo, sul tempo di Ernesto. Quanto ci penso. Temo di aver irrimediabilmente smarrito nel labirinto della memoria Ernesto a due anni, Ernesto a tre anni, Ernesto a quattro anni...

Come quando gli si sono spalancate le porte della prima elementare, un passaggio che presumo doloroso come un rito di iniziazione in una tribù dell’Amazzonia. Da allora in diversi si sono messi di buzzo buono per fare di quel frugoletto gioioso e caparbiamente indisciplinato un piccolo adulto, con quale scempio di fantasie e sogni, non so.

Il tempo corre, maledizione, un battito di ciglia e la nostra presunzione di eternità si dissolve.

Vorrei essere uno di quei giapponesi mezzo monaci e mezzo poeti per spiegarmi meglio.

Però il tempo non è solo tempo, è anche qualità del tempo. Capacità di assegnare priorità al tempo.

Rifletterci sopra mentre Ernesto è tutto assorbito dal suo diario è naturale come bere un bicchiere d’acqua. Naturale proprio ora che la luce filtra ancora dalla finestra senza persiane, come usa da queste parti, perché la luce non è da tenere fuori e sprecare.

Da sempre sono alle prese con la sensazione che il tempo sia agli sgoccioli, che il rubinetto possa chiudersi. Però stasera mi abbandono al verso del grande poeta libanese Khalil Gibran:

Tu sei l’arco che lancia i figli verso il domani.
 

E meraviglia, ora c’è anche Ernesto che si volta verso di me, nemmeno mi avesse letto nel pensiero. Che si volta e mi dice:

Sai babbo, ho scritto che oggi è stata una bella giornata.

(da Paolo Ciampi, Le nuvole del Baltico, Mauro Pagliai editore)

martedì 14 agosto 2012

Quel suono di flauto che è quanto rimane

Per Olov Enquist, svedese, non è uno scrittore molto noto in Italia, eppure nelle sue pagine c'è tutto il fascino, la profondità, che ci si attende dalla letteratura del grande Nord.

Ma soprattutto Il medico di corte (Iperborea): un libro tra i più belli tra quanti ho letto in questi ultimi anni. Un viaggio nelle atmosfere delle terre affacciate sul Baltico, ma anche nella storia, perché ci sono molti modi con cui i libri riescono a farci viaggiare.

Enquist racconta una storia vera: l'ascesa e la caduta del medico di corte che nel Settecento provò a cambiare il sonnolento regno di Danimarca realizzando un pezzo di utopia su questa nostra terra.

Pare impossibile che una storia come questa - ripeto, autentica - ti possa prendere e invece quando hai voltato l'ultima pagina è come se ti avessero strizzato lo stomaco.

Sarà che qui c'è tutta la grandezza e la miseria dell'uomo. Sarà che nel dottor Friedrich Struensee c'è tutta la tragedia dei grandi sinceri rivoluzionari che alla fine soccombono travolti dalle loro idee, incapaci di convincersi che la loro società è troppo perfetta per il cuore imperfetto degli uomini....

Però alla fine cos'è quel suono del flauto, quasi sospeso nell'aria, quel suono che quasi ci ammonisce sulla splendida perserveranza di certe idee... idee che non si lasceranno mai decapitare?

Che bellezza.

martedì 17 luglio 2012

Sono quella nave ghermita da un nord più a nord


Ora siamo qui, seduti al ristorante dell'albergo, una bellissima terrazza coperta con vista sul mare. Il giorno sta scivolando via. Dalla veranda si scorgono i due fari del porto che hanno cominciato a lampeggiare, il primo con una lucina rossa, l’altro, più distante, con un verdolino che va e viene. Vai a sapere se questi colori e queste intermittenze significano qualcosa.
Mi sono sempre interrogato sul linguaggio dei fari, sul modo con cui comunicano quello che devono comunicare ai naviganti che li scorgono a distanza. Attenti, non lì che ci sono gli scogli. Nemmeno di là, con quel banco di sabbia che non aspetta altro che fregarvi. Passate di qua. Già, davvero, vai a sapere come fanno.
Insomma, ci sono i fari che compiono il loro lavoro, c’è il silenzio rotto dalle grida dei gabbiani, c’è una nave che proprio ora ha sciolto gli ormeggi e ha preso a dirigersi al nord di questo nord, lenta e inesorabile come una pellicola che scorre fotogramma per fotogramma. C’è anche una candela accesa al nostro tavolo perché da queste parti funziona così, trovatelo voi un ristorante in cui per prima cosa non vi accendono una candela, siate o non siate una coppia di sposini novelli, prima di chiedervi cosa volete da bere e quindi di porgervi la Speisekarten, cioè il menù.

venerdì 15 giugno 2012

Tre buoni propositi per questo viaggio


Rügen, finalmente: la nostra isola al termine di questo ponte che non finiva più, chissà come sarà con il vento contro. Ernesto, tanto per fare il buffone, si distende e bacia la terra. Io mi sento meglio.
Ora che siamo dall'altra parte, ora che il mare è distanza che separa e rassicura, è già più semplice rispondere a certe domande. Per esempio quella dell'altro giorno, vigilia di partenza: ma chi me l'ha fatto fare? Che, tra l'altro, è quanto si domandava pure Bruce Chatwin, con la sua domandina usata e abusata: che ci faccio qui?
Potrei rispondere che ritrovarmi qui con Ernesto già basta e avanza.

Però visto che ci sono aggiungo altri tre alibi. O se volete, altri tre propositi.
Proposito numero uno: dimostrare che non è vero che per i grandi viaggi sia sempre necessario il trampolino della solitudine. C'è un mio amico, Tito Barbini, che dopo una vita di impegno politico e di incarichi pubblici a un certo punto ha deciso di mollare tutto. Zaino in spalla si è messo a girare per il mondo raccontando le sue esperienze in libri bellissimi, come Le nuvole non chiedono permesso, Antartide, I giorni del riso e dell'oblio.
Tito sostiene che viaggiare da soli è una condizione necessaria per incontrare gli altri sulla strada. Capisco cosa vuol dire, ma io non sono lui. Mi piacerebbe partire per rimanermene solo, potendo contare, tra l'altro, su un decente livello di convivenza con me stesso. Però mi vedo ancora meglio a tuffarmi nell'altro che è al mio fianco semplicemente perché è venuto via con me. Anche se è un bambino: è un intero universo, un bambino.
Proposito numero due: dimostrare che ci sono grandi viaggi che non hanno bisogno di voli transoceanici, di drastici mutamenti di civiltà, di giornate a dorso di cammello. Che insomma posso rimanere nel mio continente senza passare per il forzato del villaggio turistico, escursione con guida, grazie. Viaggiatore vero anche a un'ora di volo da casa, se non a un'ora di cammino.
Proposito numero tre, peraltro strettamente collegato al proposito numero due: provare che se non è necessario finire in Birmania o in Namibia, non lo è nemmeno macinare chilometri e chilometri ogni giorno. Ci sono viaggi importanti che non si nutrono di grandi spazi, ma di movimenti lenti. Ci sono terre che per accogliervi esigono solo la capacità di scavare nelle loro profondità.
Rügen è una di queste terre, lo so. Sono qui per questo. Anche per questo. E crepi la pigrizia.

(da Paolo Ciampi, Le nuvole del Baltico, Mauro Pagliai editore)

mercoledì 30 maggio 2012

Inseguendo in bicicletta le nuvole del Baltico


Mettete un viaggiatore generalmente immaginario, più abituato a esplorare il mondo sui libri che con i suoi piedi, e con lui un figlio che sta crescendo alla svelta ma che ancora conserva intatti i suoi sogni di bambino.

Aggiungete due biciclette in libertà,  un’isola del Nord, la storia e la natura di un pezzo di Europa che sembra più lontana di una destinazione tropicale.

Allora sì che viene fuori un viaggio come si deve.

Tra storie di vichinghi e panini all’aringa, impossibili conversazioni in tedesco e nuvole che corrono lontano, un adulto e un bambino alternano pedalate e pensieri. Un viaggio di movimenti lenti e di irrinunciabili sorprese.

(dalla presentazione di Paolo Ciampi, Le nuvole del Baltico. In bicicletta con mio figlio cercando il Nord, Mauro Pagliai editore)

giovedì 8 luglio 2010

Le vacanze nel Baltico della signora Elizabeth

Su una splendida isola del Baltico un giorno arriva Elizabeth, per un viaggio lento a piedi e in carrozza, in compagnia solo del cocchiere e della cameriera. Un viaggio che ai tempi - siamo all'inizio del Novecento - solo poche donne, e notevolmente emancipate, avrebbero messo in programma.

Non mancano davvero i motivi di fascino, in questo Elizabeth a Rugen, pubblicato da Bollati Boringheri: le attrazioni di terre e mari del Nord che aiutano a ritrovare una dimensione più genuina, le descrizioni di un turismo di altri tempi ma già decisamente petulante e aggressivo, lo spaccato di un certo tipo di società colta, mondana, elegante...

Comincia come un diario di viaggio, ma poi il libro diventa ben altro, dopo il colpo di scena dell'incontro con una cugina persa da diversi anni e poi con il marito di quest'ultima. Crisi coniugali, passioni intellettuali, disavventure varie segnano un itinerario dove non manca mai l'arguzia tipica di certe signore di cultura britannica di altri tempi.

La Von Arnim, ricordiamolo, è la stessa che ha scritto Un incantevole aprile, libro da cui anni fa venne tratto un film gioiellino.Le sue qualità emergono anche da queste pagine: una lettura non imprescindibile, ma piacevole, curiosa.

mercoledì 12 agosto 2009

La Patagonia di Chatwin e quella di Tito

L'altra sera io e Tito Barbini siamo tornati insieme da una presentazione di Caduti dal muro a Pietrasanta. Sarà stato per ingannare il tempo in autostrada, sarà stato per l'ora e il giorno in qualche modo ideali per alimentare l'idea di partenze e distanze: ci siamo avventurati in uno dei più spinosi argomenti che può sollevare la letteratura di viaggio.
Quanto dei paesi reali c'è nelle pagine di uno scrittore? Intendendo: anche dello scrittore più autentico, più sincero con se stesso...
Discussione difficile. Tito a un certo punto mi ha spiegato che la letteratura di viaggio è appunto letteratura, qualcosa di più e di diverso dai diari. Io mi sono avventurato in qualche spericolata affermazione sul senso della realtà: perché il problema non è l'invenzione dello scrittore, la sua possibilità di immaginare e creare; il problema è capire se esiste un paese reale, o se in effetti ogni paese non vada declinato al plurale: tanti paesi quanti gli sguardi delle persone che lo attraversano.
Ogni viaggiatore parte e arriva con il bagaglio delle sue esperienze, delle sue letture, delle sue conversazioni. Anch'io qualche settimana fa ho scrutato gli orizzonti del Baltico aspettandomi le navi vichinghe di mille sogni di ragazzo...
Poi Tito mi ha raccontato della sua Patagonia, che non è affatto la Patagonia dell'uomo che la Patagonia ce l'ha piantata nel nostro immaginario, Bruce Chatwin. Più tardi, tornato a casa, mi ha spedito la pagina di un nuovo libro a cui sta lavorando. Eccola.


Ho sempre presente una foto di Bruce Chatwin, una foto di quelle che descrivono cose che hai già saputo: giovane, single, omosessuale, con le scarpe intorno al collo. Un sorriso dolce ma uno sguardo irraggiungibile, perso verso orizzonti che non ti comprendono.
Bisogna leggere “Anatomia dell’irrequietezza” per viaggiare con Chatwin alla scoperta di Chatwin. Forse in nessun altro libro o articolo è stato cosi vicino a rivelare che cosa stava al fondo del suo essere e della sua inquietudine di camminatore instancabile. Forse, come un uccello migratore, è passato volando sopra le terre immense della Patagonia, forse si è fermato a guardare e descrivere la gente e i posti. I suoi racconti, le sue storie o i suoi schizzi di viaggio sono belli e avvincenti. Eppure io sento, ho dentro di me un’altra Patagonia.
Sono anch’io convinto che “In Patagonia” cambiò radicalmente la concezione del racconto di viaggi. Dopo di lui i viaggi in America del sud, in Africa o in Australia sono stati compiuti dagli scrittori di viaggi con lo stesso orrore del domicilio, la stessa irrequieta erranza e la sua disperata volontà di rompere gli schemi dell’incontro con l’altro, il diverso da te.
Tutto vero e non mi passa nemmeno lontanamente per la testa di muovere un rimprovero a Chatwin, sarebbe da parte mia una presunzione smisurata. Voglio solo dire che la Patagonia che si è incollata al mio animo è diversa da quella descritta da Chatwin. D’altronde Bruce prima di essere un viaggiatore è uno scrittore.
Uno scrittore che in un’intervista azzardò questa dichiarazione: “nessuna pretesa onestà descrittiva vale al punto da sacrificare un dettaglio inventato che migliori la storia”.


 

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