Una piccola isola di parole nel grande oceano della rete per condividere libri e mondi
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mercoledì 15 luglio 2020
Tre uomini lungo il fiume (per non parlar di Molly)
lunedì 17 febbraio 2020
Nei paesi vuoti con Mauro Daltin, non solo per nostalgia
Non è un esercizio di nostalgia. Tutt'altro. Possiamo partire dai Paesi Vuoti per dare vita a una teoria utile a tempi presenti così sfilacciati.
Così comincia Mauro Daltin prima di accompagnarci in un viaggio nella geografia dell'abbandono, dove ciò che era non c'è più e rischia di non rimanere nemmeno come ricordo. Perché il passato a volte non ha nemmeno la forza di reclamare attenzione, eppure questa è una storia che ci riguarda.
La teoria dei paesi vuoti (Ediciclo editore) è molte cose insieme, dentro c'è storia e memoir, antropologia e riflessione sulla contemporaneità, narrativa di viaggio e poesia, sì, anche poesia, perchè c'è un sentimento poetico che certi luoghi che non sono più riescono ancora a destare.
Quanto alla tassonomia dell'abbandono, è certo più vasta di quanto ci venga solitamente da considerare: paesi in cui l'orologio si è fermato nell'istante di un terremoto o di una frana; paesi svuotati da una scelleratezza speculativa o da una follia urbanistica; paesi sommersi dai bacini artificiali, costruiti magari per portare altrove energia elettrica; paesi che semplicemente non hanno più avuto una ragione di esistere, dopo che le miniere si sono esaurite o la corsa all'oro per cui erano nate si è rivelata una pia illusione.
Non solo sulla nostra montagna, poi, perchè ci sono anche le storie di altri continenti, dal Quebec all'Argentina, fino al Giappone dello tsunami. E quante storie in ognuna di queste comunità svanite. Quante voci che ancora si possono percepire - parlano ancora le case abbandonate, parlano sempre - se solo si è capaci di tendere l'orecchio.
E Mauro Daltin, che del terremoto è figlio (era nella pancia della mamma la terribile notte del Friuli), l'orecchio lo sa tendere bene. Per assicurare ancora diritto di parola a quelle voci.
Così comincia Mauro Daltin prima di accompagnarci in un viaggio nella geografia dell'abbandono, dove ciò che era non c'è più e rischia di non rimanere nemmeno come ricordo. Perché il passato a volte non ha nemmeno la forza di reclamare attenzione, eppure questa è una storia che ci riguarda.
La teoria dei paesi vuoti (Ediciclo editore) è molte cose insieme, dentro c'è storia e memoir, antropologia e riflessione sulla contemporaneità, narrativa di viaggio e poesia, sì, anche poesia, perchè c'è un sentimento poetico che certi luoghi che non sono più riescono ancora a destare.
Quanto alla tassonomia dell'abbandono, è certo più vasta di quanto ci venga solitamente da considerare: paesi in cui l'orologio si è fermato nell'istante di un terremoto o di una frana; paesi svuotati da una scelleratezza speculativa o da una follia urbanistica; paesi sommersi dai bacini artificiali, costruiti magari per portare altrove energia elettrica; paesi che semplicemente non hanno più avuto una ragione di esistere, dopo che le miniere si sono esaurite o la corsa all'oro per cui erano nate si è rivelata una pia illusione.
Non solo sulla nostra montagna, poi, perchè ci sono anche le storie di altri continenti, dal Quebec all'Argentina, fino al Giappone dello tsunami. E quante storie in ognuna di queste comunità svanite. Quante voci che ancora si possono percepire - parlano ancora le case abbandonate, parlano sempre - se solo si è capaci di tendere l'orecchio.
E Mauro Daltin, che del terremoto è figlio (era nella pancia della mamma la terribile notte del Friuli), l'orecchio lo sa tendere bene. Per assicurare ancora diritto di parola a quelle voci.
domenica 27 maggio 2018
Quattro montagne per una vita intera
Quella pausa, quella crostata e quella sigaretta, la valle tutta di fronte a noi e il Dolada alle spalle, ne sono certo anche ora, rappresentarono per entrambi, nel nostro intimo, un punto alto di felicità.
Quante cose ci possono essere in cima a una montagna, quante cose che rimanendo in basso non si riusciranno mai a cogliere. Non basta nemmeno contemplarla da giù la montagna, perché reclama il ritmo del passo, il respiro affannato, la parola che si dirada. Allora sì che può diventare ponte con noi stessi, farsi scoperta, meraviglia, riconciliazione. A volte, incredibile, persino brivido di felicità.
Se non ci credete, tuffatevi nelle pagine de Il punto alto della felicità, ultimo libro di Mauro Daltin (Ediciclo editore), autore friulano di cui negli anni scorsi ho già avuto modo di leggere Officina Bolivar, ritrovandomi a meraviglia nelle sue pagine di ottimo scrittore di viaggio.
Tuffatevi, perché in un periodo in cui la montagna pare andare di moda e suggerire diverse buone letture, questo non è il solito libro di montagna. Non un saggio o un'esperienza più o meno autobiografica, ma un romanzo, un romanzo vero, un romanzo che riassume una vita attraverso quattro montagne e quattro spartiacque nelle vicende di un uomo, Pietro, colto nelle diverse età.
Vicende che stanno più che dentro che fuori, a partire dalla prima ascesa, con Pietro bambino che, in compagnia dello zio, comincia a cogliere il significato della morte e dell'amore. Che è come varcare quella linea invisibile che separa l'infanzia dall'adolescenza. Ragazzo, adulto, vecchio: una vita legata alla montagna. Scandita dalla montagna, fino all'ultimo.
E quante cose Daltin riesce a mettere dentro questo libro, non senza un debito dichiarato a autori come Dino Buzzati, il grande bellunese, oppure al Paolo Cognetti de Le otto montagne.
Storie da cui si vorrebbe discendessero altri romanzi, quali quelle del battaglione fantasma della Grande Guerra oppure dell'alpinista che per tutta la vita ha cercato un fiore che non esisteva.
Il sentimento del tempo e la fragilità dei nostri affetti e delle nostre certezze. Anche per questo la montagna ci è necessaria, per come ci offre quel poco di stabilità che ci ha dato. Fino a farsi legame tenace, promessa che forse riusciremo a mantenere: come spero faccia Mauro con il borgo di Givigiana, quasi un paese fantasma, oppure no, una speranza di nuova vita nella nostra montagna.
Quante cose ci possono essere in cima a una montagna, quante cose che rimanendo in basso non si riusciranno mai a cogliere. Non basta nemmeno contemplarla da giù la montagna, perché reclama il ritmo del passo, il respiro affannato, la parola che si dirada. Allora sì che può diventare ponte con noi stessi, farsi scoperta, meraviglia, riconciliazione. A volte, incredibile, persino brivido di felicità.
Se non ci credete, tuffatevi nelle pagine de Il punto alto della felicità, ultimo libro di Mauro Daltin (Ediciclo editore), autore friulano di cui negli anni scorsi ho già avuto modo di leggere Officina Bolivar, ritrovandomi a meraviglia nelle sue pagine di ottimo scrittore di viaggio.
Tuffatevi, perché in un periodo in cui la montagna pare andare di moda e suggerire diverse buone letture, questo non è il solito libro di montagna. Non un saggio o un'esperienza più o meno autobiografica, ma un romanzo, un romanzo vero, un romanzo che riassume una vita attraverso quattro montagne e quattro spartiacque nelle vicende di un uomo, Pietro, colto nelle diverse età.
Vicende che stanno più che dentro che fuori, a partire dalla prima ascesa, con Pietro bambino che, in compagnia dello zio, comincia a cogliere il significato della morte e dell'amore. Che è come varcare quella linea invisibile che separa l'infanzia dall'adolescenza. Ragazzo, adulto, vecchio: una vita legata alla montagna. Scandita dalla montagna, fino all'ultimo.
E quante cose Daltin riesce a mettere dentro questo libro, non senza un debito dichiarato a autori come Dino Buzzati, il grande bellunese, oppure al Paolo Cognetti de Le otto montagne.
Storie da cui si vorrebbe discendessero altri romanzi, quali quelle del battaglione fantasma della Grande Guerra oppure dell'alpinista che per tutta la vita ha cercato un fiore che non esisteva.
Il sentimento del tempo e la fragilità dei nostri affetti e delle nostre certezze. Anche per questo la montagna ci è necessaria, per come ci offre quel poco di stabilità che ci ha dato. Fino a farsi legame tenace, promessa che forse riusciremo a mantenere: come spero faccia Mauro con il borgo di Givigiana, quasi un paese fantasma, oppure no, una speranza di nuova vita nella nostra montagna.
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