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sabato 27 agosto 2016

Dylan Thomas, il clown della luna che ancora ci parla

Che dire di lui? Che era pretenzioso, dissoluto, bugiardo, infedele, inaffidabile. Che si perdeva in fondo ai troppi bicchieri. Che per quanto riuscì a vivere fu sempre lacerato tra la tentazione di una vita normale e una vocazione a distruggersi che quasi sempre ebbe la meglio. Che assegnava un'eccessiva fiducia alle parole e alla loro capacità di giustificare più o meno tutto.


Certo, fu tutto questo, Dylan Thomas. In qualche modo lo diceva lui stesso: Dentro di me albergano una bestia, un angelo e un pazzo. Ma soprattutto fu un poeta. E fin da bambino, tra i vicoli di Swansea o i pascoli della campagna gallese, coltivò il sogno della poesia.

E si apra pure il dibattito sul potere salvifico della poesia, sulla sua possibilità di riscattare davvero una vita. Il fatto indiscutibile è che Dylan per noi sarà sempre il poeta capace di illuminarci con i suoi versi come lampi nell'oscurità e di restituirci l'intima e divina felicità vitale nascosta nel cuore di tutte le cose.

A distanza di tanti anni è ancora amato, letto, ricercato, citato, con una fedeltà che di solito non appartiene alla letteratura: e ci sarà pure un motivo. O forse più di un motivo, perché certo non può essere solo il fascino del poeta bohemièn, pronto a mandare in frantumi la sua vita.

La sua vita, appunto. Quella che ci racconta splendidamente il suo biografo Paul Ferris in Dylan Thomas. Essere un poeta e vivere di astuzia e birra (Mattioli 1885), libro che appassiona come un romanzo e va al cuore del mondo che Dylan popolò con le sue emozioni.

Il vero Thomas - spiega Ferris – si nasconde più in profondità: dietro alle capriole che improvvisava in pubblico. Mi sa che un libro così poteva scriverlo solo uno come Ferris, nato e vissuto a Swansea come Dylan, che ha camminato per le sue strade, bevuto nei suoi pub, consumato il suo tempo a guardare barche in partenza e basse maree. 

Mi è piaciuto leggerlo negli stessi giorni in cui girellavo per il Galles, in qualche modo inseguendo anch'io l'ombra di Dylan, nella sua Boat House a Laugharne, come nel museo che gli è stato dedicato a Swansea.

Clown della luna, lo definì Charlie Chaplin. Poeta, poeta comunque, come lui volle sempre essere, come confessò anche in quella riga che poi è divenuto lo splendido sottotitolo di questo libro:

Preferirei in qualunque momento essere un poeta e vivere di astuzia e birra.

A Swansea mi sono imbattutto in una parete con una scritta in lettere bianche su campo nero: More poetry is needed, c'è bisogno di più poesia. E' ancora Dylan, che qualunque cosa sia stata non smette di parlarci.



lunedì 22 agosto 2016

Tra fabbrica e pub, così era la vita in Inghilterra

Perché era sabato sera, il momento più felice e festoso della settimana, uno dei cinquantadue giorni di vacanza sulla lenta ruota panoramica dell'anno, un violento preambolo a una domenica di prostrazione.

Per Arthur, giovane operaio inglese, la febbre del sabato sera è un copione che si ripete: il giro dei pub, le sbronze, le risse, il sesso con donne sposate. Tutto quello che non c'è nel resto della settimana, perchè il resto è solo la routine del lavoro nella sua fabbrica di Nottingham.

L'adrenalina di questi fine settimana, il loro concentrato di pulsioni e trasgressioni, non cambieranno il mondo, anzi, non lasceranno niente se non un cerchio alla testa la domenica mattina. Eppure è tutto ciò che Arthur ha a disposizione per gridare il suo rifiuto contro una vita che per lui è già tutta scritta, faticare alla catena di montaggio e mettere su famiglia.

Prima di avventurarvi in queste pagine, osservate la data. Saturday Night e Sunday Morning  (ripubblicato in Italia da Minimun Fax) è del 1958: un'altra Inghilterra, un altro mondo, quello delle grandi fabbriche e del benessere che non esclude più gli operai. Anche loro possono cominciare a sperare in una casa di proprietà, nella televisione, nella settimana al mare.

Arthur, in fondo, beneficia di ciò che altri hanno conquistato sul terreno dei diritti. Ha soldi in tasca - poco importa se se li sputtana in birre - e un giorno avrà la sua pensione. Eppure, in una vita in cui mancano le speranze, in cui è già assente ogni soggetto collettivo (per dirne uno, il sindacato), Arthur è solo, Arthur non ha futuro.

Alan Sillitoe - lo stesso scrittore di La solitudine del maratoneta, uomo che viene dall'Inghilterra delle industrie e del lavoro proletario - ci ha regalato un romanzo di esordio folgorante, capace di rappresentare tutta un'epoca, ma anche con un personaggio destinato a rimanere.

Poco importa che Arthur non sia assolutamente simpatico. Che molte volte vorresti fermarlo, prenderlo per le spalle, portarlo via dal disastro incombente. Qui c'è tutta una generazione che non è stata raccontata. Con una frattura che la separa dai padri e che non è quella del giovane Holden e tantomeno quella del Sessantotto.

 Leggendolo ho pensato ad Arthur e poi ai ragazzi dei nostri anni con ancora meno futuro - dove è finito il lavoro? - e ancora meno capaci di intravedere una possibilità di protesta. Forse proprio questo libro del 1958 ci può aiutare a capire qualcosa in più. E magari a scorgere una qualche speranza all'orizzonte. Non fosse che per i lampi di tenerezza, improvvisi e disorientanti, che anche uno come Arthur sa manifestare.

lunedì 22 giugno 2015

Cara vecchia Londra, sul filo della memoria

Simonetta Agnello, non ancora signora Hornby, non ancora scrittrice affermata, atterra a Londra la prima volta nel settembre 1963. E' un altro pianeta - a tre ore di volo - rispetto alla sua Palermo. E forse anche quella Londra è un altro pianeta rispetto alla Londra di oggi: la Londra dei primi successi dei Beatles, la Londra che i tempi ancora non hanno scosso, in fondo facile da rappresentare anche con rassicuranti luoghi comuni, il tè delle cinque e le file ordinate al bus.

E' ancora una ragazza, Simonetta Agnello, che a Londra finirà per stabilirsi e fare carriera - in uno studio da avvocati. Una vita a Londra per una ragazza di buona famiglia siciliana. Ed è questa Londra che ora lei ci racconta, riannodando i fili della memoria, tra nostalgia e curiosità.

Per chi ama la cara vecchia Inghilterra, per chi ne è ancora tentato, è un libro da non perdere La mia Londra (Giunti). Lettura che restituisce il piacere del vagabondaggio per giardini pubblici e pub di tradizione. Lettura che non può che avere che un nume tutelare, quel Samuel Johnson, padre dell'illuminismo inglese, che a Londra arrivò giovane per sbarcare il lunario e che Londra non abbandonò mai più.

Il mondo non è ancora esaurito, affermava Johnson, fammi vedere domani qualcosa che non ho mai visto prima.

Così diceva, ma poi era Londra che gli si presentava come un libro pieno ancora di sorprese. 

sabato 11 aprile 2015

Ma com'è il localino tipico olandese?


Da anni coltivo una sana diffidenza per chiunque prometta un localino tipico, espressione che mi puzza come il pesce del giorno dopo. Purtroppo ho già fatto una discreta collezione di posti che di tipico avevano solo il consiglio interessato di qualche guida, magari con compartecipazione agli utili.

Col tempo ho sviluppato anche un discreto fiuto per le strategie acchiappaturisti e per le infinite
malizie in vetrina e sui menù. Tanto più che vivo in una città dove ogni poco ci si imbatte nelle insegne di antiche trattorie che non esistevano fino a due giorni prima.

Ci casco, ci casco ancora. Ma un po' meno, se è vero che basta che senta dire: localino tipico, perchè la spia rossa si accenda.

Però Chrstan l'ho già visto all'opera l'altra sera e mi fido. Gli occhi gli si sono illuminati all'idea di un bicchiere in compagnia. E io condivido. C'è qualcosa di storto in un giorno di bicicletta che non si conclude con una buona birra.

La mia personale versione del B&B: non Bed and Breakfast, ma Bike and Beer. Perciò saltiamo a terra e via tutti insieme, in coda al gruppo anche Ernesto, che con la camicia chiusa ai polsi e il golfino annodato alla vita pare uscito dal college. Ma come è il locale davvero olandese?

Chrstan mi dà la sua risposta: «Deve avere il camino da accendere quando è freddo».

Che mi piace come risposta, è giusto quanto mi aspetto da locali come i bruin cafè, a occhio i più tipici tra i tipici localini olandesi. Il nome rinvia al colore – bruno o marrone – ed è esattamente questo che intende richiamare: i pavimenti di legno, l'illuminazione soffusa, le pareti rese più scure dal tempo e dal fumo del tabacco.

 E qui si può aprire la discussione: che cosa distingue un bruin cafè da uno di quei vecchi pub inglesi o irlandesi, preferibilmente di campagna, con le insegne di ferro battuto fuori e i divanetti e le stampe dentro?

(da Paolo Ciampi, L'Olanda è un fiore, Ediciclo)

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...