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giovedì 16 febbraio 2017

Per il fiocco di neve è di conforto il rigagnolo di acqua sporca

Sono solo un giornalista, e per giunta dei più comuni, nel vero senso della parola. Con una moglie, due bambini e un cocker. 

Così dice di sé Hervé Clerc. E benché non sia propriamente un giornalista comune non è per questo che merita farne la conoscenza, piuttosto per quello che di lui scrive il suo grande amico Emmanuel Carrère: "Hervé appartiene a quella categoria di persone per le quali essere non è un fatto ovvio".

Di Hervé sostiene anche che sia l'uomo meno fanatico del mondo e il più libero dai pregiudizi. E già questo basterebbe. Ma la questione è che un giorno ormai lontano, svanito l'entusiasmo del Maggio francese ma non ancora conclusa la giovinezza che invita alla ricerca, Hervè si trovò a incrociare il buddismo.

 Lo scoprì nudo, immobile, vuoto. Nemmeno seppe dargli un nome e del resto tutto accadeva al di fuori delle parole. Ma senza diventare buddista da allora ha continuato a inoltrarsi in quell'oceano di saggezza, sospinto dal vento delle domande più che dalla fame di risposte.

Tutto questo ora potete leggere in Le cose come sono (Adelphi), libro scritto avendo per la testa il lettore più lontano dal buddismo: un lettore francese radicato nella propria cultura, con il basco e la baguette sotto braccio, un lettore che ha tanta voglia di convertirsi al buddismo quanto di barattare il proprio bicchiere di Beaujolais con una tazza di sakè.

E così potrete scoprire che per un fiocco di neve è confortante pensare di non aver concluso la corsa, quando si confonde con l'acqua sporca del rigagnolo. Che siamo chiamati a percorrere una strada, non a raggiungere una meta, perché la fine del mondo, il luogo senza nascita né vecchiaia né morte, è in realtà il nostro corpo. Che bisogna abbattere gli alberi che nascondono la foresta. Che a volte la follia è la cosa più ragionevole che ci sia al mondo. E molto altro ancora.

No, non è la solita storia del naufrago del Sessantotto che si aggrappa al relitto di una fede purchessia. Buddismo, dice Hervé, è la religione dell'attenzione. Queste pagine sono una buona palestra di attenzione.

giovedì 17 novembre 2016

Carrère e l'uomo che non vuole essere d'accordo con se stesso

No, non credo che Gesù sia risorto. Non credo che un uomo sia tornato dal mondo dei morti. Ma il fatto che lo si possa credere, e che io stesso l'abbia creduto, mi intriga, mi affascina, mi turba, mi sconvolge - non so quale sia il verbo più adatto. Scrivo questo libro per non pensare, ora che non ci credo più, di saperne più di quelli che ci credono e di me stesso quando ci credevo. Scrivo questo libro per cercare di non essere troppo d'accordo con me stesso.

Mi sa che bastano queste parole per farsi catturare da questo libro così ricco, complesso, provocante. Così diverso da altri del grande Emmanuele Carrère - ce ne corre tra Limonov e i primi evangelisti - eppure così coerente col percorso di uno scrittore che si misura con la verità dei fatti, che non inventa perché la realtà richiede più immaginazione di ogni immaginazione, che racconta storie lontane raccontando in fondo sempre anche di se stesso.

Ecco qui, Il regno (Adelphi), l'opera con cui Carrère si spinge a indagare sul Cristianesimo degli albori, sui primi cristiani sospesi tra il miracolo del Messia e le persecuzioni de
i romani, modesta setta ebraica che presto avrebbe cambiato il mondo. Però non è il saggio di un teologo o di uno studioso delle religioni. Piuttosto è l'opera di un uomo che credeva e ora non crede più, ma che non ha smesso di stupirsi e interrogarsi. E in questo cammino ecco l'incontro con personaggi vivi, ecco storie dentro la storia, ecco domande che scavano nel profondo, inquietudini che si dissipano come nebbia al mattino. E dubbi, tormenti, tentazioni, sconvolgimenti.

Quante cose che ci sono qui dentro: narrazione ed erudizione, inchiesta e sense of humour. I misteri della fede, le grandi questioni dell'esistenza, ma anche la vita di Carrère, filo che si srotola nel farsi dell'opera: così che insieme a Paolo l'apostolo, a Luca l'evangelista, a Filippo di Cesarea e Flavio Giuseppe, non ci crederete, ma sbucano anche le vicende di una bay-sitter squinternata, le fantasie inquiete di Philip K. Dick, perfino un video porno che gira sulla Rete.

Questo e tant'altro. Un gran libro, per abbandonarsi all'uomo che non intende essere troppo d'accordo con se stesso. Mica poco, davvero.

sabato 22 agosto 2015

Limonov, che ha toccato il fondo diverse volte

Ho l'impressione di aver già scritto questa scena.

In una storia inventata, bisogna scegliere: il protagonista può toccare il fondo una volta, anzi è consigliabile, ma due è troppo, si rischia di ripetersi. 

Nella realtà penso che Eduard il fondo l'abbia toccato parecchie volte. Parecchie volte si è ritrovato a terra, veramente disperato, veramente privo di appoggi e, cosa che ammiro in lui, si è sempre rialzato, si è sempre rimesso in cammino, si è sempre fatto coraggio pensando che, quando hai scelto la vita dell'avventuriero, sentirsi così perduti e soli, senza vie di scampo, non è altro che il prezzo da pagare.

Quando Tanja l'ha mollato, per sopravvivere ha adottato la tattica di lasciarsi andare a fondo: la miseria, la strada, il sesso selvaggio, ai suoi occhi sono state altrettante esperienze. 

Stavolta gli viene un'altra idea.

(Emmanuel Carrère, Limonov, Adelphi)

lunedì 17 agosto 2015

Limonov, poeta e teppista nella Russia di Putin

E' stato poeta e teppista, maggiordomo e delinquente. E' passato dalle peggiori periferie dell'Unione Sovietica alla scena underground di New York, dai salotti francesi alle prigioni russe. Negli anni ha goduto di effimere fortune che ha fatto di tutto per rovinare. Nelle guerre dei Balcani si è schierato con il peggio, con quale consapevolezza non si sa. In Russia ha provato in ogni modo a sovvertire il nuovo che avanzava, inventandosi un partito nazionalbolscevico da far rabbrividire.

Ma si può raccontare davvero un uomo così? Risposta affermativa: sì, se sei Emmanuel Carrère, scrittore che sa cibarsi della verità della vita per tradurla in romanzi che non riesci a mollare.

E si può addirittura innamorarci, di un uomo così? Domanda più complessa, ma risposta ancora affermativa: sì, si può, e non solo grazie alla penna di Emmanuel Carrère, capace di donarci un personaggio da romanzo di altri tempi. Il fatto è che Limonov - questo il suo nome e allo stesso tempo il titolo del romanzo - è così vero che sembra fatto apposta per un romanzo. O al contrario così romanzesco che fa bene scoprire che abbia fatto irruzione nella vita vera e ci sia rimasto. 

 Limonov, concentrato di pensieri sbagliati, azioni deprecabili, eccessi di ogni tipo. Ma anche uomo che si è messo in gioco, con coraggio, pagando sulla sua pelle. Uomo di passioni e, bene o male, di visioni. E' caduto, si è alzato, è caduto di nuovo: grande soprattutto nelle sconfitte. Concentrato di vita, anzi, di vitalità. E anche di possibilità, quasi sempre sprecate.

Ha incrociato la storia, ha provato a non farsi trascinare. Nostalgico di un'Unione Sovietica a cui è sopravvissuto contro ogni pronostico: senza l'aura del dissidente, ma piuttosto con i segni del deliquentello di provincia. Hooligan ai tempi di Breznev, scrittore da scandalo in altri tempi - un suo titolo: Il poeta russo preferisce i grandi negri. Punk - o qualcosa del genere - nella Russia di Vladimir Putin - non a caso ha eletto a suo eroe uno come Johnny Rotten. Mistico - o qualcosa del genere - nelle steppe dell'Asia centrale o negli spazi angusti di una prigione.

Anna Politovskaja di lui aveva capito più degli altri. In fondo se lo era trovato a fianco, prima di essere fatta fuori, nelle battaglie dei pochi per dare diritto di pensiero e di opinione a tutti in una Russia ubriaca di facili ricchezze.

E noi, noi possiamo immergerci nella singolare grandezza di Limonov. Perdonargli ciò che possiamo perdonargli, come faremmo con un poeta di avangua
rdia o con un cantante punk che troppe volte ha camminato rasente alla morte.

Forse farselo addirittura amico.





mercoledì 3 settembre 2014

Carrère: preferisco ciò che mi rende simile agli altri

Da sei mesi a questa parte, ogni giorno, di mia spontanea volontà, ho trascorso qualche ora davanti al computer a scrivere di ciò che mi fa più paura al mondo: la morte di un figlio per i suoi genitori, quella di una giovane donna per i suoi figli e suo marito.

La vita mi ha reso testimone di queste due disgrazie, una dopo l'altra, e incaricato, o almeno così ho capito, di renderne conto. 

A me le ha risparmiate, e prego perché continui a farlo.

Mi è capitato di sentir dire che la felicità si apprezza a posteriori. Che pensiamo: non me ne rendevo conto, ma a quel tempo ero molto felice.

Per me non è così. Sono stato a lungo infelice, e molto cosciente di esserlo; oggi amo quello che è il mio destino, e della sua amabilità non ho un grande merito, la mia filosofia si riassume nella frase che, la sera dell'incoronazione, avrebbe mormorato Madame Letizia, la madre di Napoleone: "Speriamo che duri".

Ah, e poi: preferisco ciò che mi rende simile agli altri a ciò che me ne distingue. Anche questa è una cosa nuova.

(Emmanuel Carrère, Vite che non sono la mia, Einaudi)

giovedì 7 novembre 2013

La storia dell'uomo che uccise per le sue menzogne

Ho pensato che scrivere questa storia non poteva essere altro che un crimine o una preghiera.

Ed è vero, cos'altro può essere raccontare la storia di Jean-Claude Romand, l'uomo che un giorno del 1993 massacrò moglie, figli, genitori perché non fossero testimoni della sua vita di menzogna? Già, forse può essere anche verità, semplicemente verità, quella verità che peraltro può avere molto a che fare sia con il crimine che con la preghiera.

Una verità da maneggiare con cautela, ma anche senza alibi. E senza gli effetti speciali che troppo spesso si accompagnano alle storie criminali che fanno audience televisiva e sollecitano reazioni viscerali.

Emmanuel Carrère, nel suo L'Avversario (Adelphi), non ha bisogno di nient'altro che del suo bisogno di verità, per raccontare la storia di un uomo che è arrivato a fare quello che ha fatto per essersi sempre sottratto alla verità. Lui che a tutti - anche ai famigliari - si era spacciato come un medico di successo, mentre in realtà trascorreva le sue giornate nei boschi o in un parcheggio dell'autostrada.

E' proprio la verità, credo, il tema centrale di questo libro capace di provocare terribili inquietudini. La verità, prima ancora del male capace di fare strage.

La verità che persegue Carrère, cercando di raccontare con precisione, giorno dopo giorno, quella vita di solitudine, nello sforzo di entrare addirittura nella testa di uomo senza giustificazioni. La verità che insegue Jean-Claude Romand, come il cameriere che riacciuffa il cliente che non ha pagato il conto.

Ed è incredibile, ma spaventosamente vero, che a volte la vergogna di una vita senza verità si traduca in gesti estremi peggiori di qualsiasi menzogna.

giovedì 3 ottobre 2013

Credevo di essermi liberato delle storie di follia...

Credevo di essermi liberato delle storie di follia, reclusione e gelo.

Non che mi aspettassi di mettermi a comporre lodi alla bellezza del mondo e al canto dell'usignolo, con francescana meraviglia, ma almeno pensavo di essermi lasciato alle spalle quelle ossessioni.

E invece ero stato scelto (è enfatico, lo so, però non saprei dirlo in altro modo) da quella storia atroce, senza volerlo mi ero messo sulla stessa lunghezza d'onda dell'uomo che ne era responsabile.

Avevo paura. Paura e vergogna. Mi vergognavo davanti ai miei figli di occuparmi di questa storia.

Ero ancora in tempo per fuggire? O la mia peculiare vocazione era proprio cercare di capirla, di guardarla in faccia?

                                             (Emmanuel Carrère, L'Avversario, Adelphi)

venerdì 19 ottobre 2012

Che fine fece la donnina malvagia di Dickens

E' bella la storia che qualche giorno fa, sulle pagine della cultura di Repubblica, ci ha raccontato Emmanuel Carrère a proposito di Charles Dickens. La sintetizzo così.

E dunque Charles Dickens era ormai un autore di successo, che pubblicava i suoi romanzi sui giornali, suscitando un'attesa via via crescente. Stava succedendo anche per il David Copperfield, con lettori frementi per ogni nuova puntata.

Nel romanzo aveva fatto la sua comparsa una donnina - Miss Mowcher - che era tutt'altro che piacevole. Personaggio scaltro e viscido, la sua bassezza morale sembrava rispecchiarsi anche in quella fisica, visto che l'autore l'aveva ritratta come una nana.

Un giorno però a Charles Dickens arrivò una lettera. La firmava una donna che si lamentava perché, per le comuni caratteristiche fisiche, tutti gli abitanti del suo paese avevano preso a identificarla con Miss Mowcher. La sua vita era diventata un inferno.

E dunque, Charles Dickens non ci pensò due volte. Poco importa che Miss Mowcher ormai fosse entrata nella storia e che in un certo modo vivesse già di vita propria. Poco importa che il romanzo avesse in qualche modo bisogno della sua cattiveria. Dalla puntata successiva Miss Mowcher divenne tutt'altro: un angelo che abitava un corpo sgraziato. E così rimase, per sempre.

Riflessione di Emmanuel Carrère:

Penso che cambiare la trama di un libro per non ferire una donnina di uno sperduto paesino di provincia significhi, da parte di uno scrittore, dar prova non solo di una generosità senza limiti, ma di una libertà senza limiti.
Non è la stessa cosa in fondo?

E assai di più si potrebbe e dovrebbe dire sul rapporto tra vita e romanzi e sulla responsabilità dello scrittore nei confronti della vita. Ma già questo, basta e avanza.


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  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...