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venerdì 30 dicembre 2016

In cima all'Ararat, con parole e storie


Metti una sopra l'altra le sillabe della parola Ararat e ottieni una montagna:

A
RA
RAT

Proprio così, una montagna può non essere solo rocce e dirupi e sentieri che portano in alto. Una montagna può essere fatta anche di parole, di idee, di immagini che prendono forma dai libri letti e a volte danzano per la testa.

Con Ararat (Iperborea) Frank Westerman, scrittore olandese di cui ho già avuto modo di apprezzare El Negro e io, ci prende per mano e ci porta in cima a un monte che non è solo un monte, che è più di un monte, è un monte di storie, miti, leggende.

Quante cose che è l'Ararat. A partire dalla Bibbia che con poche parole ne fa un luogo unico al mondo, lo spartiacque (letteralmente) tra la devastazione del diluvio universale e la rinascita della vita:  
 Nel settimo mese, il diciassette del mese, l'arca si posò sui monti dell'Ararat.

E' questa la montagna sacra che nessuno doveva scalare, nemmeno fosse l'undicesimo comandamento, poco importa che il divieto magari nascondesse solo la possibilità della delusione

(Sorgeva il sospetto che lo zelo con cui i sacerdoti impedivano di raggiungere i loro luoghi sacri fosse dovuto a un solo timore: che lì non ci fosse niente)

La montagna culla di civiltà, inizio della storia. La montagna promessa di terra promessa.

Ma anche la montagna frontiera, la montagna che è separazione, confine di eserciti contrapposti. Prima linea della guerra fredda. E da sempre i turchi da una parte e gli armeni dall'altra.

E tutto questo è anche il viaggio di Frank Westerman. Viaggio di letture e suggestioni, prima ancora che ricerca di altezze e aria rarefatta. Un viaggio che è bello fare anche noi, scivolando per queste pagine.

mercoledì 17 novembre 2010

Ararat, montagna di parole e miti




Metti una sopra l'altra le sillabe della parola Ararat e ottieni una montagna:

A
RA
RAT

Proprio così, una montagna può non essere solo rocce e dirupi e sentieri che portano in alto. Una montagna può essere fatta anche di parole, di idee, di immagini che prendono forma dai libri letti e a volte danzano per la testa. Con Ararat (Iperborea) Frank Westerman, scrittore olandese di cui ho già avuto modo di apprezzare El Negro e io, ci prende per mano e ci porta in cima a un monte che non è solo un monte, che è più di un monte, è un monte di storie, miti, leggende.

Quante cose che è l'Ararat. A partire dalla Bibbia che con poche parole ne fa un luogo unico al mondo, lo spartiacque (letteralmente) tra la devastazione del diluvio universale e la rinascita della vita: Nel settimo mese, il diciassette del mese, l'arca si posò sui monti dell'Ararat.

E'questa la montagna sacra che nessuno doveva scalare, nemmeno fosse l'undicesimo comandamento, poco importa che il divieto magari nascondesse solo la possibilità della delusione (Sorgeva il sospetto che lo zelo con cui i sacerdoti impedivano di raggiungere i loro luoghi sacri fosse dovuto a un solo timore: che lì non ci fosse niente)

La montagna culla di civiltà, inizio della storia. La montagna promessa di terra promessa.

Ma anche la montagna frontiera, la montagna che è separazione, confine di eserciti contrapposti. Prima linea della guerra fredda. E da sempre i turchi da una parte e gli armeni dall'altra.

E tutto questo è anche il viaggio di Frank Westerman. Viaggio di letture e suggestioni, prima ancora che ricerca di altezze e aria rarefatta. Un viaggio che è bello fare anche noi, scivolando per queste pagine.



giovedì 21 ottobre 2010

L'operaio inglese e la scoperta di Gilgamesh


Ci sono pagine nascoste in un libro che equivalgono a interi romanzi. Storie di vita che non si capisce perché ti arrivano solo così – per caso, mentre ti stai occupando di altro. La storia di George Smith – un nome che sembra falso da quanto è banale – è una di queste. Una storia eccezionale in cui mi sono imbattuto leggendo Ararat dell’olandese Frank Westerman (e/o edizioni).
E dunque se il nome era banale, anonimo era e doveva essere il destino di George Smith, figlio di operai inglesi nella Londra dell’Ottocento. Operaio lui stesso dopo aver abbandonato la scuola a 14 anni. Apprendista incisore di banconote, per la precisione.

Doveva vivere e morire così, solo che George Smith coltivava il suo tempo libero in una sala del British Museum, quello che custodiva le tavolette di argilla di Ninive. Come un appassionato di enigmistica scrutava quei testi scritti in un antico alfabeto cuneiforme che nessuno era riuscito ancora a decifrare. La Mesopotamia culla della civiltà e tanti misteri da svelare.
Ci riuscì lui, George Smith, grazie ai suoi studi sui codici che venivano impiegati per i biglietti di banca. E già questo sarebbe bastato: l’operaio era arrivato dove non erano arrivati i più grandi studiosi.

Ma a me piace soprattutto quello che viene dopo. Perché un giorno, lavorando su quelle tavolette, da quei segni emersero parole che componevano un verso. E poi un altro verso e un altro verso ancora. Parole che parlavano di un antico diluvio che aveva spazzato via il mondo e di una nave piena di animali che si era incagliata sulla cima di un mondo.

Era la storia del diluvio universale, secoli e secoli prima che questa storia trovasse posto nelle pagine della Genesi. Era il poema di Gilgamesh, il più antico capolavoro conosciuto, la storia del re di Uruk che cerca il segreto dell’eterna giovinezza.

Giusto che proprio questo fosse il tema delle prime parole letterarie strappate al buio dei tempi.

Racconta Westerman che scoprendo i primi versi George Smith si sia messo a gridare:
Sono il primo a leggere queste righe dopo oltre duemila anni di oblio

Pare anche che tra lo stupore di tutti i compassati studiosi del British Museum abbia cominciato a spogliarsi, pazzo di gioia.
Voi ve la riuscite a immaginare, quella voce?

martedì 19 ottobre 2010

Van Gogh e la morte per andare su una stella

Che la creatività sia una dote che si ha a prescindere dalla forma in cui si esprime - se cioè il buon pittore possa essere anche un buon scrittore e viceversa - e se tutto questo dipende più dallo sguardo o dalla tecnica, dal mondo interiore o dalla "scuola", è una bella questione, su cui mi è difficile pronunciarmi. Però che bellezza in queste parole di Vincent Van Gogh, tratta da una delle lettere al fratello Theo

Dichiaro di non saperne assolutamente nulla, ma la vista delle stelle mi fa sempre sognare, come pure mi fanno pensare i punti neri che rappresentano sulle carte geografiche città e villaggi. Perché, mi dico, i punti luminosi del firmamento ci dovrebbero essere meno accessibili dei punti neri della carta di Francia?

Se prendiamo il treno per andare a Tarascona o a Rouen, possiamo prendere la morte per andare su una stella... Comunque non mi sembra impossibile che colera, calcoli renali, tisi o cancro possano costituire dei mezzi di locomozione celeste, così come i battelli, gli omnibus e il treno sono mezzi di locomozione terrestri.

Morire tranquillamente di vecchiaia sarebbe come viaggiare a piedi


E leggendo righe così percepisco meglio il senso della bellezza in Van Gogh, intendo le pennellate di luce e perfino la leggerezza che nemmeno i peggiori tormenti riescono a soffocare. Un'idea che, quando potrò, mi porterò dietro a Roma, per la mostra del grande fiammingo.

ps: mi sono imbattuto in quetsa citazione leggendo Ararat di Frank Westerman, un libro di cui vi parlerò.

martedì 4 maggio 2010

El Negro e una domanda senza risposta


Ora è solo un corpo impagliato, così come i cacciatori fanno con una qualsiasi preda: un pezzo da esposizione conservato sotto una bacheca, senza nemmeno un nome. Tutti lo chiamano semplicemente El Negro.

Ma chi era veramente quest’africano rimasto senza un’identità, senza una storia, senza una sepoltura?

Frank Westerman – giornalista free lance e specialista della cooperazione internazionale – lo scopre tanti anni fa in un piccolo museo di scienze naturali della Catalogna. Era un ragazzo fresco di studi, ma da allora si è dato da fare.

Per anni e anni non si è fermato, nel tentativo di restituire a questo corpo tutto quanto gli è stato sottratto, ai tempi in cui l’uomo bianco era chiamato a portare il suo “fardello” di civiltà e l’uomo nero era considerato alla stregua di una scimmia o poco più.

Da tutto questo viene fuori un viaggio appassionante, da Parigi al Perù, dalla Sierra Leone al Sudafrica. Un viaggio - e un libro, El Negro e io (Iperborea) - in cui ancora più che su quel uomo senza nome si finirà per imparare qualcosa su di noi.

Su di noi attraverso lo sguardo che abbiamo riservato al resto del mondo. Perché il modo in cui l’abbiamo guardato e lo guardiamo tradisce il nostro pensiero su razza e identità.

Davvero bello e peccato per un titolo che non gli rende giustizia. Di questo autore aspetto la prossima uscita, Ararat, con molta curiosità.

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  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...