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lunedì 13 gennaio 2020

Nella guerra d'Algeria come il macchinista ferroviere di Guccini

Come il bombarolo di De Andrè, o meglio ancora come il macchinista ferroviere di Guccini con la sua locomotiva scagliata a bomba. Sogni ed esplosivi, aneliti di giustizia e destini crudeli. 

Non ha bisogno di artifici ed effetti speciali un libro come Dei nostri fratelli feriti di Joseph Andras (Fazi), potente romanzo di esordio che ci porta nell'Algeria francese e negli anni della guerra di indipendenza. C'è già una storia che parla da sè, una storia autentica e triste, che ha bisogno solo di una voce misurata, allergica agli artefici. 

E' la storia di Fernard Iveton, operaio francese comunista, che sceglie consapevolmente di stare con gli algerini, la parte sbagliata che è anche la parte giusta. Sarà solo, sempre più solo, in ciò che farà discendere da questa scelta. E come un anarchico dell'Ottocento cercherà la strada dell'azione solitaria, del gesto esemplare. Un giorno del 1956 proverà a piazzare un ordigno nella fabbrica dove lavora. Non farà in tempo ad allontanarsi che lo cattureranno e lo porteranno via.

Un attentato sventato, soprattutto un attentato che difficilmente avrebbe potuto mettere a repentaglio la vita di qualcuno. Ma con lui - il traditore, il senzapatria - la giustizia francese sarà implacabile. Contro ogni aspettativa e previsione e malgrado le prese di posizione di gente come Albert Camus, Fernard Iveton sarà condannato a morte e la sentenza sarà eseguita: l'unico europeo ghigliottinato durante la guerra d'Algeria.

Di quest'uomo - che appare nell'immagine di copertina al momento del suo arresto, non si sa se più incredulo per quello che ha fatto o quello che non ha fatto - Andras sa raccontare splendidamente la breve parabola. E' la storia di un cuore puro, di un sognatore e di un colpevole meno colpevole di tanti che lo hanno giudicato. La storia di una follia politica e di un delitto per cui è stato pagato troppo. 

Dentro c'è anche una storia d'amore, perché poi è questo che sfugge alle cronache giudiziarie. Soprattutto c'è il silenzio, c'è la mancanza di pietà, che certo è dote che quasi sempre difetta alle istituzioni: in Francia, incredibile, la ghigliottina è stata cancellata solo nel 1981.

Ps: non ha necessariamente un indizio sulla qualità dell'opera, ma sull'autore sì. Con questo libro Joseph Andras ha vinto il Goncourt Opera Prima, premio da lui rifiutato con questa motivazione: la competizione, la concorrenza e la rivalità per me sono nozioni estranee alla scrittura e alla creazione. Applausi.

 

giovedì 17 ottobre 2019

Il maratoneta giapponese che impiegò 54 anni per il traguardo

Quando sarai in gara non fissarti sui tuoi avversari. Riporta alla mente le tue corse sotto la neve, tra i boschi della tua isola, gli allenamenti mattutini nel parco dell'università e il piacere che ne hai provato, la sensazione di libertà.

Shizo vive in Giappone, all'inizio del Novecento, quando il Giappone è davvero un mondo a parte. Un giorno ha scoperto la corsa e non si è più fermato, non  perché deve arrivare da qualche parte, ma perché la corsa può essere come un haiku, come una calligrafia: scava dentro, prende il cuore, allarga la vita. 

Solo che a forza di allenarsi diventa il più bravo: potrà correre la maratona alle Olimpiadi di Stoccolma del 1912, la prima a cui il Giappone partecipa. Su di lui si ripongono grandi speranze, lo stesso imperatore lo accompagna con i suoi saluti e i suoi auspici. Ma il giorno della gara Shizo non arriverà mai a tagliare il traguardo: si fermerà sette chilometri prima e per avere una seconda chance dovrà passare quasi una vita intera, passando attraverso la vergogna e il riscatto. Nessuna maratona sarà lunga come la sua, perchè per arrivare al traguardo, finalmente, impiegherà 54 anni, 8 mesi, 6 giorni, 5 ore, 32 minuti, 20 secondi. 

In mezzo una vita appartata, per cercare pace e riconciliazione con se stessi nel ritmo delle stagioni. Una vita da guardiano della collina dei ciliegi, che è anche il titolo di questo bel libro di Franco Faggiani (Fazi editore). Un romanzo che prende spunto da una storia vera e cerca l'incanto della vita, meravigliosa e fragile come i fiori di ciliegi. 


lunedì 24 ottobre 2016

Stoner, la vita più piatta diventa grande romanzo

Può capitare che qualche studente, imbattendosi nel suo nome, si chieda indolente chi fosse, ma di rado la curiosità si spinge oltre la semplice domanda occasionale. I colleghi di Stoner, che da vivo non l'avevano mai stimato gran che,  oggi ne parlano raramente; per i più vecchi il suo nome è il monito della fine che li attende tutti, per i più giovani è soltanto un suono....

Arrivo buon ultimo a questo libro di cui tanti hanno parlato, senza risparmiare parole di cui largheggiamo anche con meno merito: rivelazione, capolavoro, caso editoriale. Arrivo buon ultimo, diffidente come sempre dei libri troppo acclamati, arrivo dopo aver confuso a lungo il titolo con il nome dell'autore e dopo essere passato per un altro suo libro, una vita dell'imperatore Augusto che è comunque grande letteratura.

Arrivo buon ultimo, ma non mi dispiace, perché è più facile sottrarsi al dovere della parola, della spiegazione, del giudizio. E godersi per intero Stoner di John Williams (Fazi editore) un libro che non delude ma che più di altri ha bisogno di silenzio.

La maggior parte degli scrittori, buttato giù il primo paragrafo del romanzo, avrebbero rinunciato - sottolinea Peter Cameron nella postfazione - A che scopo continuare?

Già, com'è che diventa romanzo la vita di William Stoner, docente universitario senza gloria e senza scandali, con la sua parabola priva di colpi di scena? E com'è che questo romanzo dove succede molto poco diventa un miracolo letterario?

Non ci sono fatti di sangue, riti satanici, battaglie politiche, anche il sesso è sotto la soglia del minimo garantito: siamo sempre in attesa di qualcosa, che però si traduce in altra attesa, mentre la vita scivola via, il tempo si accumula.

Stoner, come stone, pietra: e come pietra su cui non cresce niente pare la vita del protagonista. Eppure finiamo per amarlo, Stoner. Finiamo per riconoscerne l'umanità, per riconoscervi la stessa nostra umanità.

E in lui ritroviamo il nostro stesso destino, qualunque sia la la storia della nostra vita. In lui ritroviamo una vita che merita di essere vissuta, una vita più grande di tutte le apparenze, una vita che sa comunque nobilitarsi: sia per l'amore portato a una figlia, sia per gli occhi che si accendono nella passione dell'insegnamento.

venerdì 4 marzo 2016

Complicazioni e maldicenze in una piccola cittadina del Maine

Aveva sposato una ragazza dell'estate. E, come vi direbbero, in molti, non era quasi mai una buona idea. Aveva sposato una ragazza dell'estate che veniva dal Massachusetts, e già solo questo presentava complicazioni.

West Annett, cittadina del Maine, terra di antichi pionieri e protestanti particolarmente rigidi. America rurale, un altro pianeta rispetto a New York e San Francisco, ma stesso pianeta rispetto alla Guerra Fredda e alla paura dell'atomica. Tyler Caskey è un giovane pastore di anime, brillante nei suoi sermoni, forte nei sentimenti per la comunità che è chiamato a guidare. Solo che ha una moglie che non ti aspetti per un uomo di religione e che certo non si aspettano i suoi fedeli: una donna bella, giovane, sensuale, annoiata.

Cosa può succedere con una moglie così in un piccolo mondo antico come quello? E soprattutto cosa può succedere dopo che la morte piomba sulla famiglia di Tyler e  Tyler sembra aver smarrito le parole giuste per rivolgersi ai suoi fedeli?

 Grande romanzo Resta con me di Elizabeth Strout (Fazi editore), scrittrice che come poche altre sa disegnare con tratti essenziali e precisi  movimenti dell'animo, relazioni complesse, storie di vita ordinaria. 

Romanzo di solitudini e incomprensioni, Resta con me. Ma anche romanzo corale, del pregiudizio che fa presto a mettere radici, della maldicenza che è l'altro verso di una vita insoddisfatta e insicura.

Difficile trovare un varco quando tutto questo assedia una vita già colpita duro. A meno che non si spazzi via il tavolo delle carte, con il più clamoroso dei gesti. Il più autentico, quello di un cuore che non si preoccupa delle conseguenze. Quale sia, spetta a voi scoprirlo. 

sabato 30 gennaio 2016

Nel cuore dell'America, dove si inventa la storia

Come argomento lo attraeva soprattutto la storia, perché nella storia c'è sempre qualcosa di sbagliato.

E' solo una frase, tra le tante in cui mi sono soffermato in questo libro che è come un fiume in piena di dialoghi incalzanti e frasi taglienti come se fossero state incise con un bisturi nel corpo vivo degli eventi. Solo una frase, ma dice già molto dell'atmosfera che si respira accettando la sfida che Gore Vidal lancia con L'Età dell'oro (Fazi editore).

Romanzo sulla storia degli Stati Uniti tra il 1939 e il 1954, dalla seconda guerra mondiale alla guerra di Corea. Ma soprattutto romanzo sul potere, sulla verità del potere, sulle falsificazioni del potere.

Proprio in questi anni gli Stati Uniti si affermano come assoluta potenza mondiale e lo fanno non solo con gli eserciti, anche con la loro economia, con il loro stile di vita. Ma questo non è un romanzo su una nazione, non mette in scena un popolo. Gore Vidal va al cuore dell'America, entra dentro la Casa Bianca, sembra abbia piazzato microfoni ovunque per registrare e svelare.

Questi sono anche gli anni in cui i mass media diventano decisivi, in cui i grandi eventi della politica rispondono a una attenta regia. La politica è sempre più non ciò che si fa o si pensa ma ciò che si riesce a far credere. Ed è in questo contesto che Gore Vidal si muove a suo agio come un pesce in acqua, per raccontare ciò che si vede e soprattutto il modo con cui si fa vedere. I suoi microfoni nelle stanze del potere fanno il resto: e svelano intrighi, ambizioni, debolezze.

Come un entomologo, alle prese con i suoi insetti, Vidal studia, analizza, classifica. Eppure senza il distacco che attribuiamo all'entomologo. Lui la pensa come Tolstoi: La storia sarebbe una gran bella cosa, se solo fosse vera. Solo che ci si può appassionare, al gioco della verità. E non smettere più.

mercoledì 21 ottobre 2015

Nel Main con la grande Elizabeth Strout

Arrivato all'ultima pagina mi sono voltato indietro: e ho capito che c'ero stato anch'io a Crosby, in questo pugno di case nello Stato del Maine, piccolo dimenticato angolo di America bagnato dall'Atlantico. C'ero stato anch'io e avevo camminato per le sue strade, passeggiato lungo il fiume, fatto la spesa al supermercato, conosciuto il farmacista e tutti gli altri.

C'ero stato anch'io in questo territorio dell'anima, in questa scacchiera di esistenze, in questa radura di sentimenti ed emozioni illuminati dallo straordinario sguardo di Elizabeth Strout, scrittrice che con Olive Kitteridge  (Fazi) mi ha incantanto e commosso.

Uno dice l'America, i gialli e i noir, il pulp e il fantasy, i libri buoni per diventare film, grande saper fare al servizio di sicuri best seller. Ma l'America sempre di più per me sono scrittori come Raymond Carver, Jonathan Franzen, e ora, necessariamente, Elizabeth Strout.

Scrittori che da un microcosmo raccontano un mondo più ampio. Che entrano dentro di noi senza forzature, senza eccessi, senza vendere passioni di carta un tanto a rigo. Scrittori straordinari nell'illuminarci dall'interno quell'universo che è la famiglia, misurando i distacchi, i silenzi, le possibilità che segnano il cammino di ognuno (Le correzioni, di Jonathan Franzen, ma ora anche Olive Kitteridge); scrittori straordinari anche nel rianimare quella scrittura per racconti che fino a non troppo tempo fa pareva morta e sepolta, magari proponendoli come tasselli di un mosaico. Dall'uno all'altro, lo stesso respiro, lo stesso pulsare del sangue.

Ed è questo che ci regala qui Elizabeth Strout. Crosby, Maine, ovvero il mondo. Olive Kitteridge, professoressa di matematica in pensione, ovvero ognuno di noi: con le sue reticenze, le sue idiosincrasie, le sue occasioni perse, la sua voglia di dare un senso alle cose ricercato con ostinazione, malgrado tutto.

venerdì 16 ottobre 2015

Con John Williams, a caccia del Bisonte (di Arnaldo Melloni)

Un libro meraviglioso,  Butcher's Crossing di John Williams (Fazi), con una scrittura cinematografica che consente al lettore di immergersi nella realtà di un piccolo villaggio sperduto del Kansas nel 1873. L’epopea del West vista attraverso gli occhi di un gruppo di personaggi che poco hanno dell’eroe romantico a cui ci ha abituato la vulgata hollywoodiana.  

La cosa sorprendente di questo romanzo è la capacità di attrazione senza effetti speciali; è una lettura che ti avviluppa con descrizioni minuziose e scarni dialoghi senza nessuna caduta di tensione.

Azzeccatissimi i personaggi, a cominciare dal giovane Andrews, in fuga dalla borghese Boston alla ricerca di avventure, che sbarca nel villaggio di Butcher’s Crossing. Si lascia convincere a finanziare e partecipare ad una caccia al bisonte in una valle tra le montagne del Colorado che durerà molti mesi. Con lui partono l’esperto cacciatore Miller, che assume anche la guida della spedizione, lo scuoiatore Schneider e il loquace vecchietto Charley Hoge, amante del whisky e assiduo lettore della Bibbia.

La rappresentazione che ne esce è magnifica e rende perfettamente l’idea della strage di questi animali in un contesto ambientale tanto bello quanto inospitale. Descrizioni che nulla lasciano all’immaginazione, trasportano il lettore in un mondo di sangue, budella e odori nauseabondi dove l’uomo uccide senza criterio e per pura avidità.
Incuriosisce la totale assenza dei nativi e di qualsiasi riferimento alle conseguenze che hanno subito a seguito della strage di bisonti.
La storia di John Williams, scrittore scoperto e apprezzato solo dopo la sua morte, è veramente particolare. Scrisse solo quattro romanzi assai diversi tra loro ed un quinto rimase incompiuto per la sua scomparsa causata dai problemi di alcolismo che lo attanagliarono negli ultimi anni di vita.
“Butchers’s Crossing” è il suo secondo romanzo. Cronologicamente viene prima di Stoner, libro considerato il suo vero capolavoro ed artefice della sua fama postuma. 

Arnaldo Melloni 

lunedì 27 luglio 2015

Leggendo Lamaitre e l'uomo che ha perso il lavoro (di Arnaldo Melloni)

E’ la storia di Alain Delambre un uomo di cinquantasette anni, una moglie e due figlie ormai adulte. Ha sempre lavorato come responsabile delle risorse umane, ma poi arriva la crisi e con essa il licenziamento, la disoccupazione. E’ quindi una storia emblematica, drammatica come tante simili in questi tempi dove essere intorno ai cinquant’anni e perdere il lavoro significa la morte civile.

E’ quindi un libro di denuncia, molto forte ma è anche un giallo che lascia intravedere una possibilità di riscossa attraverso un percorso paradossale e surreale.

Arriva una nuova proposta di lavoro, adatto alle sue esperienze professionali e Alain ci crede, vuole crederci e si infila, sottovalutandole, in una serie di situazioni poco chiare. Il desiderio di riscatto è fortissimo e passa sopra a tutto, ai sentimenti, perfino a quello forte per la moglie.

Il  test da superare per essere assunto consiste nel partecipare ad un finto sequestro di persona, organizzato per mettere alla prova i quadri di una grande azienda.  La disperazione e la voglia di ritornare una persona socialmente accettabile lo porteranno a tentare di tutto, perfino di riprendersi il “lavoro a mano armata”.

Si legge piacevolmente essendo strutturato come un noir ma è soprattutto un atto d’accusa alla società contemporanea e ai suoi meccanismi di esclusione. 

Ispirato da un fatto di cronaca, è un pugno nello stomaco, senza giudizi morali, una rappresentazione cruda di una realtà disperante.

 Arnaldo Melloni

(Pierre Lamaitre, Lavoro a mano armata, Fazi, pag. 447, 2013)

martedì 16 settembre 2014

Il noir sul lavoro che non c'è

Alain Delambre pareva avere tutto quello che si può pretendere dalla vita: un lavoro da manager, con relativo stipendio; la confortante idea di potersi permettere tutto o quasi tutto; perfino una bella famiglia, tenuta ancora insieme da sentimenti non inariditi. Ma cosa succede se a un certo punto la tua azienda si ristruttura (ovvero taglia) e ti manda a casa?

E' quello che succede ad Alain: e a quasi 60 anni, con le porte di altre società irrimediabilmente sprangate, niente è più come prima. Dovrà contentarsi di lavoretti che nemmeno uno studente fuori sede. Dovrà rinunciare a cene e vacanze, rattoppare gli abiti, ragionare sulla vendita della casa. Parabola triste, devastante, solo che a un certo punto pare schiudersi un'altra occasione.... Potrà essere suo quel posto, però prima ci sarà un finto sequestro, al servizio di una folle selezione del personale...

Mi fermo qui, tanto sono solo all'inizio e dopo se ne vedranno delle belle. Perché Lavoro a mano armata (Fazi editore) è prima di tutto un noir, firmato da uno dei maestri del genere, Pierre Lemaitre. O forse no, è  prima di tutto un romanzo che racconta la crudeltà del lavoro (e della sua assenza) nei nostri giorni.

Eh sì, un libro che non sai se leggere tutto di un fiato, provando a reggere il ritmo incalzante dei colpi di scena. Oppure se indugiare con qualche sconsolata considerazione sulle nostre insopportabili incertezze.


mercoledì 13 febbraio 2013

Nel lager, tra i turisti di oggi e le ferite di ieri

Lo ammetto, non riesco ad accettare fino in fondo l'idea che questo posto di montagna, cardine del mio mondo interiore, sia visitabile da chiunque; e soffro anche un po' di gelosia: non soltanto perché oggi occhi estranei percorrono uno scenario che fu testimone della nostra anonima prigionia, ma anche perché questi sguardi curiosi (ne sono assolutamente certo) non potranno mai penetrare nell'abisso di abiezione in cui fu gettata la nostra fiducia nella dignità umana e nella libertà personale.

E' una domenica pomeriggio, molto tempo che tutto è successo: lo stesso attacco di un altro grandissimo libro della memoria, Il giardino dei Finzi Contini di Giorgio Bassani: sarà che abbiamo bisogno di questo tipo di sguardo, dalla quiete del dopo, per provare a capire cosa significa ricordare.

Boris Pahor, sloveno di Trieste, ripercorre la strada che lo porta al luogo che un tempo fu il suo lager; si mescola, lui sopravvissuto, ai turisti della memoria che scendono dai pullmann e scattano foto; comincia ad avvertire strane sensazioni, al cospetto di quegli estranei, come se di nuovo indossasse la giubba a strisce e gli zoccoli del campo di concentramento; e forse nemmeno lui saprà raccontare fino in fondo l'orrore - lui che la sorte ha voluto tra i "salvati" e non tra i "sommersi", per dirla con Primo Levi - ma intanto ricorda e racconta.

Libro di enorme dolore, libro non facile, Necropoli di Boris Pahor (Fazi editore). Libro sospeso tra diversi tempi, il presente dei turisti e il passato dei deportati. Libro che per noi italiani è quasi doveroso, per non archiviare le responsabilità del fascismo anche nella persecuzione della minoranza slovena.

Racconta Luigi Magris nell'introduzione che anche lui ha scoperto relativamente tardi Pahor, questo critico e appassionato cantore della mia e della sua Trieste. Distrazione e rimozione di uomini e donne che, con un'altra lingua, hanno reso ricca e vitale questa città che è la quintessenza della Mitteleuropa.

Da leggere due volte, Necropoli, non fosse che a dispetto di tutto quanto racconta è un regalo al domani. E nelle parole di Magris:

Perfino in quella necropoli tale resistenza umana è una speranza.

venerdì 25 gennaio 2013

Incontrando i turisti in quello che fu il mio lager

Sarò strambo ma mi pare che i visitatori, mentre tornano alle loro automobili, mi osservino come se di colpo fosse riapparsa sulle mie spalle la giubba a strisce e io stessi camminando sulla ghiaia con gli zoccoli. 

Si tratta certo di un'idea bislacca: però è vero che a volte, in momenti particolari, si è capaci di emettere un fluido invisibile ma potente, che gli altri percepiscono come la vicinanza di un'atmosfera insolita, eccezionale, e ne vengono colpiti come un'imbarcazione da un'onda anomala.

E chissà, forse sulla mia persona è rimasto davvero un qualcosa di com'ero in quel tempo.

Perciò tento di camminare tutto raccolto in me stesso, e quasi mi disturbano i sandali leggeri che ho ai piedi, che mi consentono un passo molto più elastico di quello che potrei permettermi se le mie calzature fossero ancora di tela e le suole di legno spesso.

(da Boris Pahor, Necropoli, Fazi editore)

mercoledì 29 febbraio 2012

Se lo scrittore è un ghost writer

Ebbene, era deciso, sarei stata la sua ombra, il suo doppio, il suo fantasma, mi sarei insinuata nei meandri della sua anima. "Ghost writer!".

Non mi ci sarei persa, né avrei perso la mia anima, e sarebbe stato il più bel romanzo del mondo, tragico e forte - non la leggenda insipida concepita dagli agenti pubblicitari, ma un romanzo vero, e un vero romanzo.


Dopotutto, tentavo di convincermi, tra ghost writer e scrittore, dove si situava la differenza? 


Un romanziere inventa i suoi personaggi, gli dà vita, li immagina differenti da lui, e differenti gli uni dagli altri, cerca le loro voci, il loro respiro, si lascia possedere da loro fino a scoprirli, a conti fatti, nelle loro stesse differenze, ed è il miracolo della letteratura, tanti volti di se stesso.


Non era quello che ogni "negro" doveva tentare, cioé cancellarsi, lasciare passare l'altro attraverso se stesso, dargli vita, trovare la sua voce?


In fondo, ogni scrittore era un ghost writer a modo suo...

(Michel Le Bris, La bellezza del mondo, Fazi editore)

lunedì 27 febbraio 2012

Quanta Africa nella bellezza dell'America

In verità, si viaggia per viaggiare, o per aver viaggiato - e quanti mondi nascono, al ritorno, nelle parole pronunciate, nelle immagini mostrate?

Che libro, La bellezza del mondo dello scrittore bretone Michel Le Bris (Fazi editore), un libro per viaggiare lontano e per perdersi, un libro che è un continente di carta e anche più, un libro che davvero riesce a trasmettere quel brivido che forse davvero può donare solo la bellezza del mondo.

Quella bellezza che dà il titolo a questa storia (molto) romanzata di due straordinari personaggi che hanno segnato l'immaginario americano del primo Novecento.

Lui, Martin Johnson, da ragazzo compagno d'avventure di Jack London, l'uomo che apre la strada ai grandi documentari sui viaggi e sulla natura (una storia che, per dire, arriva a National Geographic).

Lei, Osa, la ragazza venuta dalla provincia americana, quella delle torte di mele e delle feste del Ringraziamento, ma anche di un'epopea della Frontiera che non appartiene a un tempo troppo distante, Osa che a New York diventa una delle più acclamate femmes fatales, Osa che è seduzione e avventura e che nel 1933 ispirerà l'eroina del film King Kong.

E la loro è davvero la storia di una "bellezza" scoperta, attraversata, raccontata, la bellezza di un'Africa che in questi anni non è più solo la terra incognita, la terra oscura e selvaggia dei primi esploratori, che piuttosto sta diventando suggestione culturale, progetto buono anche per Hollywood, moda per un Occidente frastornato dalla Grande Guerra.

E allora non c'è solo il Kenia dei leoni e dei rinoceronti, c'è prima di tutto New York, la New York dei ruggenti Anni Venti, proibizionismo e jazz, gangster e donne decise a dare scandalo.

E poi le cose stavano mutando. L'Afica cominciava a essere alla moda. Non si parlava di uno stile jungle? Dieci anni prima nessuno immaginava che i negri di Harlem avrebbero conquistato Broadway. I tempi cambiavano.

Altre giungle, di luce e grattacieli. Altre distanze. Altri pericoli. Un anelito di libertà e bellezza che non cambia.

domenica 22 gennaio 2012

Cosa ci insegna lo spezzatino di New York

E' un libro che mi sta conquistando, La bellezza del mondo di Michel Le Bris e, quando lo avrò finito (un po' ci vorrà data la mole), ne avrò modo di parlare parecchio. Ci sono i viaggi, le esplorazioni, le avventure, c'è il business, che non può mai mancare, c'è soprattutto la giungla più giungla di tutte, il cuore pulsante del mondo, New York, qui raccontata nei suoi magnifici, travolgenti, assurdi anni Venti, quelli di Francis Scott Fiztgerald, del proibizionismo, dei gangster e del jazz. E c'è un atto di amore per la Grande Mela, crogiuolo di popoli, città dove si può incontrare di tutto, che fa maledettamente bene leggere oggi, ovunque noi siamo:

Chicago aveva i suoi chicagoani, Boston i suoi bostoniani, Ne York aveva irlandesi, tedeschi, francesi, italiani, siriani, turchi, svedesi, cinesi, indù, russi, texani, georgiani, californiani, messicani, portoricani, canadesi, cajun, eschimesi, cechi, cubani, spagnoli, portoghesi, lituani, greci, arabi, ma ognuno di loro, fosse pure vestito con gli abiti tradizionali, preoccupato dei suoi usi e costumi, si vantava di essere newyorkese, come se i grandi cuochi del pianeta avessero inviato a New York le loro spezie più prelibate per insaporire quel enorme pot-au-feu - ognuno, smanioso di dare spettacolo di sè, pretendeva di essere attore di quell'immenso "show" che era diventata la città. New York, il teatro del mondo! New York, come una sfida lanciata al resto dell'universo, in preda all'ebbrezza della sua insolenza sfoggiata, avida d'infrangere tutti i tabù, di opporsi ai pregiudizi, di affermare la sua smagliante giovinezza....


(Michel Le Bris, La bellezza del mondo, Fazi)

sabato 19 novembre 2011

Se niente è scritto, si può scrivere di futuro

Metto le mani avanti,perché il titolo questa volta mi aveva sviato o forse si era ben prestato a quanto in realtà stavo cercando: non un libro su cosa sarà, ma un libro su come è cambiata, nel tempo, la nostra concezione del futuro.

Con Breve storia del futuro (Fazi editore) Jacques Attali, invece, ci porta dalle parti del 2060, in un mondo maledettamente simile al nostro ma anche immensamente diverso, come un altro pianeta popolato da gente troppo simile a noi perché la si possa ignorare.


Dice Attali:

Scrivo questo libro perché il futuro non assomigli a quello che sarà

E c'è da rabbrividire, in effetti, pensando a quello che potrà essere. Meno male che questo non è il solito catastrofismo più o meno di maniera. Meno male che, alla resa dei conti, niente è scritto.

Dipenderà da noi - e qui non aggiungo un meno male: dipenderà, appunto. Dipenderà dall'uso che faremo delle nostre tecnologie. Dipenderà da come sapremo condividere le nostre capacità, per prima la creatività.

Niente è scritto, e meno male. Ma si può scrivere comunque un libro di storia declinato al futuro.

venerdì 16 settembre 2011

Irène Némirovsky e la biografia di una figlia

Ci sono biografie che non sono solo biografie, non possono assolutamente esserlo. Soprattutto se lei si chiama Irène Nèmirovsky, una delle più grandi scrittrici europee del Novecento, e se a raccontare la sua vita è una figlia, che quasi non l'ha conosciuta, e che anzi, per quasi tutta la vita ha provato a dimenticarla, dilaniata tra la voglia di rimozione e la persistenza della recriminazione.

Non ho ancora letto Mirador. Irène Nèmirovsky, mia madre, scritto qualche anno fa da una delle due figlie della scrittrice, Elisabeth Gille, e solo ora pubblicata in Italia da Fazi. Ma che tempesta di emozioni che scatena la storia di Irène e delle sue figlie.

Lei è l'esule russa che in Francia si è affermata con la forza delle sue parole. L'ebrea che dopo l'occupazione nazista non fa niente per mettersi in salvo, benché non le manchi la possibilità. L'arresto avviene un pomeriggio di luglio del 1942, nemmeno un mese dopo segue la morte ad Auschwitz.

Dopo che anche il padre è stato catturato, le figlie riescono a scappare, trascinandosi dietro una pesante valigia piena di carte. Dentro ci sono capolavori come Suite francese, che saranno scoperti solo anni e anni più tardi.

Elisabeth si salva, viene affidata a una coppia di amici della famiglia, fa la sua vita. La madre è un ricordo confuso, una persona che si congeda da una bambina a nemmeno cinque anni, un rimpianto e forse anche un rancore. Perché Elisabeth non le ha mai perdonato la rassegnazione con cui è andata incontro alla morte, senza tentare nemmeno un passo per salvarsi.

Passerà quasi una vita, perché Elizabeth ritrovi sua madre, raccontando una donna che in pratica non ha mai conosciuta. Di lei - e del padre - racconta questo la sorella Denise (Elisabeth nel frattempo è morta di cancro) in un'intervista alla giornalista Brunella Schisa:


Per decenni abbiamo continuato a pensare che fossero vivi, liberati dai russi e forse affetti da un'amnesia che gli impediva di tornare a noi. Abbiamo fatto di tutto per non ammettere la realtà. E, quando siamo state costrette ad accettarla. Elisabeth non ne ha voluto più parlare. Il prezzo del suo equilibrio era la rimozione...



Davvero, ci sono biografie che non sono solo biografie. Sono vite che si incontrano, o che meglio ancora si incontrano di nuovo. Talvolta riescono addirittura a essere degli straordinari atti di riconciliazione.

martedì 13 settembre 2011

Il piccolo aeroplano di Elizabeth Strout

E poi mentre il piccolo aeroplano si alzava in volo e Olive vedeva dispiegarsi sotto di sé campi di un verde tenero e luminoso sotto il sole del mattino, e più lontano i contorni della costa, l'oceano scintillante quasi piatto, solcato dalle minuscole scie bianche di qualche peschereccio da aragoste, in quel momento Olive aveva avvertito un sentimento che non si aspettava più di provare: un improvviso impeto di avidità per la vita. Si era sporta in avanti, sbirciando fuori dal finestrino: dolci nuvolette bianche, il cielo azzurro come il suo cappello, il verde novello dei campi, la grande distesa d'acqua: visto da lassù tutto appariva meraviglioso, sorprendente. Ricordò che cosa fosse la speranza: era ciò che provava in quel momento. Quel tumulto di stomaco che ti spinge avanti e ti trascina attraverso la vita proprio come le barche sotto di lei fendevano l'acqua scintillante, proprio come l'aereo avanzava verso un posto nuovo, in cui qualcuno aveva bisogno di lei. Le era stato chiesto di entrare a far parte della vita di suo figlio.


(Da Elizabeth Strout, Olive Kitteridge, Fazi Editore)

venerdì 2 settembre 2011

Quell'angolo del Maine, il mio mondo

Arrivato all'ultima pagina mi sono voltato indietro: e ho capito che c'ero stato anch'io a Crosby, in questo pugno di case nello Stato del Maine, piccolo dimenticato angolo di America bagnato dall'Atlantico. C'ero stato anch'io e avevo camminato per le sue strade, passeggiato lungo il fiume, fatto la spesa al supermercato, conosciuto il farmacista e tutti gli altri.

C'ero stato anch'io in questo territorio dell'anima, in questa scacchiera di esistenze, in questa radura di sentimenti ed emozioni illuminati dallo straordinario sguardo di Elizabeth Strout, scrittrice che con Olive Kitteridge  (Fazi) mi ha incantanto e commosso.

Uno dice l'America, i gialli e i noir, il pulp e il fantasy, i libri buoni per diventare film, grande saper fare al servizio di sicuri best seller. Ma l'America sempre di più per me sono scrittori come Raymond Carver, Jonathan Franzen, e ora, necessariamente, Elizabeth Strout.

Scrittori che da un microcosmo raccontano un mondo più ampio. Che entrano dentro di noi senza forzature, senza eccessi, senza vendere passioni di carta un tanto a rigo. Scrittori straordinari nell'illuminarci dall'interno quell'universo che è la famiglia, misurando i distacchi, i silenzi, le possibilità che segnano il cammino di ognuno (Le correzioni, di Jonathan Franzen, ma ora anche Olive Kitteridge); scrittori straordinari anche nel rianimare quella scrittura per racconti che fino a non troppo tempo fa pareva morta e sepolta, magari proponendoli come tasselli di un mosaico. Dall'uno all'altro, lo stesso respiro, lo stesso pulsare del sangue.

Ed è questo che ci regala qui Elizabeth Strout. Crosby, Maine, ovvero il mondo. Olive Kitteridge, professoressa di matematica in pensione, ovvero ognuno di noi: con le sue reticenze, le sue idiosincrasie, le sue occasioni perse, la sua voglia di dare un senso alle cose ricercato con ostinazione, malgrado tutto.

domenica 15 maggio 2011

La parabola di Caldwell e dei best-sellers scomparsi

Ventisei romanzi, centocinquanta racconti, oltre ottanta milioni di copie vendute: ma oggi c'è qualcuno che si ricorda di lui, qualcuno che negli ultimi anni ha ripreso in mano uno dei suoi libri?

Curiosa parabola, quella di Erskine Caldwell, a nemmeno un quarto di secolo dalla sua morte. C'è voluto un bell'articolo di Joe R. Landsdale sul Venerdì di Repubblica, alla vigilia della ristampa di alcune sue opere da parte dell'editore Fazi, perché mi riaffiorasse il vago ricordo di emozioni sepolte. Uno di quei libriccini dell'Einaudi con la copertina rigida e la costola bianca, per una collana miniera di folgoranti sorprese. E quella lettura avviata quasi per caso, un libro nemmeno acquistato, prelevato dallo scaffale paterno, perché quel titolo non era affatto male: La via del tabacco.

Grande scrittore, è stato Erskine Caldwell, uno dei migliori tra quanti ci hanno raccontato le atmosfere torride, la violenza, la poesia del Sud degli Stati Uniti. Degno di figurare assieme a gente quale William Faulkner e Flannery O'Connor. Solo che di lui alla fine si sono perse le tracce. Scrive Landsdale:

Essere popolari e prolifici non è mai un buon biglietto da visita per i critici, che privilegiano autori meno produttivi e più oscuri

Chissà se è questa la ragione, e se  non debba essere chiamata in causa certo marketing sopra le righe per le sue edizioni economiche. O se piuttosto non abbia ben funzionato la solita opera dei bacchettoni e dei moralisti tutti di un pezzo, sempre pronti a gridare allo scandalo.

Certo, fa pensare comunque. A quanto è fragile la fama letteraria, a come svanisce un autore dalle librerie e dai ricordi.  Poi, quando vien ristampato, ti sembra già troppo tardi.

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