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martedì 30 aprile 2019

Nei monasteri con Rumiz, cercando l'anima dell'Europa

Il germe della rinascita di un Continente era partito dal forte cuore appenninico del mio Paese. Benedetto era nato lì, sulla lunga dorsale inquieta che è il centro non solo dell'Italia ma dell'intero Mediterraneo. Era figlio di un mondo di Sibille, transumanze e lunghi inverni.


Credo sia questo il viaggio più sorprendente, tra i tanti che anno dopo anno ci ha raccontato Paolo Rumiz. Come se arrivato sul ciglio di un burrone, dove termina il sentiero, dove c'è solo il vuoto davanti, avesse comunque trovato il modo di proseguire. 

Così ha cercato le ragioni e ancora di più l'anima dell'Europa: roba da vertigini, appunto. E le ha trovate, ma non a Bruxelles, non a Maastricht, e forse nemmeno a Ventotene, lo scoglio dove un pugno di coraggiosi, reclusi sotto il fascismo, cominciò a coltivare un sogno. 

C'è chi, a partire da Goethe, sostiene che l'Europa è nata peregrinando, per i grandi cammini che nei millenni l'hanno solcata. Vero. Però per Rumiz l'Europa, almeno la migliore Europa, discende anche dalla Regola di Benedetto, dall'ora et labora dei suoi monaci, dai monasteri che furono radure di civiltà nell'epoca più buia, quando l'impero romano tramontò, i barbari saccheggiarono le città, le selve si ripresero i campi e i pascoli. 

Sembrava un mondo finito, era un mondo finito: ma proprio allora qualcosa ricominciò. Con questi religiosi che presero a dissodare, ad arare, a seminare. Che ricopiarono i testi dell'antica saggezza perché altri ne potessero beneficiare. Che costruirono edifici che non dovevano essere fortezze, ma oasi di pace. 

Una nuova umanità, che solo apparentemente si era staccata dal mondo. Non fosse per quella capacità di ascolto, per quella disponibilità all'accoglienza, che sconcertò gli stessi barbari e fece sì che l'hostis potesse trasformarsi in hospes, il nemico in ospite.

Il filo infinito (Feltrinelli), ovviamente, non è un libro di storia. E' un viaggio necessario per dipanare la matassa di giorni confusi e ritrovare il filo, appunto, che riconnette il passato più remoto al presente più incerto. E non importa appartenere a una chiesa, riconoscersi in una religione rivelata, praticare una qualche liturgia. Si può comunque sentire dentro il canto benedettino, scoprire che ancora ci chiama.

mercoledì 3 febbraio 2016

Goethe e lo stupore per le librerie dove ci si incontra

Cercano un libro, lo domandano, lo consultano, lo posano liberamente. Vi trovai riunite una mezza dozzina di persone che quando mi sentirono chiedere le opere del Palladio rivolsero tutta la loro attenzione su di me.

E' Goethe, in una pagina del suo Viaggio in Italia. Racconta la sua esperienza in una libreria italiana - non so quale - che ebbe modo di visitare il 26 settembre 1786 e sono molte le cose che di essa racconta, alcune curiose.

E' un brano che ho incontrato leggendo lo splendido Librerie. Una storia di commercio e passioni di Jorge Carriòn (Garzanti), più che una storia, in realtà, un incredibile e invidiabile viaggio nelle librerie del mondo. Trabocca di citazioni, ma è proprio questa pagina di Goethe che mi porterò dietro.

Il grande tedesco è  stupito: ma come, i libri sono tutti rilegati (allora non era uso) e sono accessibili a tutti i visitatori. Ma soprattutto ci sono i visitatori: si intrattengono in libreria, si rivolgono la parola, conversano abilmente tra loro e tra loro e i libri.

Incredibile: la conoscenza può arrivare non solo attraverso i libri, ma anche attraverso le persone che amano i libri. Perfetti sconosciuti, magari, di cui si è solo incrociato lo sguardo che accarezzava il dorso di un libro.

 Conclude Goethe:

Conversai a lungo con molte altre piacevoli persone e dopo essermi bene informato sulle cose notevoli della città mi congedai.

La libreria come casa, come piazza, come salotto. Da allora sono passati oltre 200 anni. Chi è che può dire lo stesso delle librerie on line?

lunedì 28 maggio 2012

Che sorpresa, le lettere dell'aspirante suicida

Che scommessa, Lettere di un'aspirante suicida di Valentina Santini (Romano editore), questo piccolo grande libro, prova provata che a fare la differenza non sono il peso dei volumi, la complessità dei ragionamenti, la ricercatezza del linguaggio, che in realtà ciò che conta, prima di ogni altra cosa, è la vita che ci si mette dentro, è il cuore che racconta le storie.

Sigmund Freud, che non mi sta particolarmente simpatico, ma che pure ne ha azzeccate diverse assicurava: È impossibile conoscere gli uomini senza conoscere la forza delle parole. Ed è su questa frase, pescata da chissà quale cassetto della memoria, che ho indugiato una volta che sono riemerso dalla lettura di queste pagine, sorpreso, alle prese con sensazioni che non credevo più di riconoscere.

Come se avessi recuperato un pezzo di me, di cui non sospettavo più l'esistenza, un pezzo che forse affonda nei miei anni di studente liceale, epoca bella e infernale, oppure no, che forse riguarda quell'età  di cui Paul Nizan affermava perentoriamente:

Avevo vent'anni. Non permetterò a nessuno di dire che questo è il periodo migliore della vita.

Tranne poi innamorarsi di quei 20 anni, innamorarsi anche di quelle vertigini metafisiche, di quelle notti insonni, di quel vagabondare con amici che sognavani Parigi e la rive gauche degli esistenzialisti, o forse l'India, forse qualche puerto escondido dell'America Latina.

Oppure no, perché è di tutti e di tutte le età e le scelte della vita, questo dilemma, questo riproporsi delle ragioni della vita e della morte. Questo arrovellarsi sul perché, questo fermarsi sul ciglio della strada e chiedersi: ma vale la pena?

Però c'è modo e modo. E in queste lettere dell'Aspirante Suicida e di Quello che aspetta la risposta c'è freschezza, c'è sincerità, c'è quella speciale leggerezza che sa andare al cuore delle questioni più dei saggi ponderosi.

Leggerezza, è ovvio, da non equivocare con la superficialità, perché poi il gioco, se di gioco si tratta, è assai meno innocente di quanto ci induca a credere, è quel gioco terribile e affascinante che ti inghiotte come una droga, è quel gioco che, in questo caso, chiama in causa perfino Leopardi e Goethe – il Goethe del Giovane Werther e che, sì, si scrive proprio così – quel gioco che non finisce più e che si chiama letteratura.

Goethe, dunque, il Goethe giovane, nave in balia della tempesta del Romanticismo, passioni e sentimenti, sogni e paure. Quel Goethe di cose così:

Sollevare il sipario ed introdurvisi: questo è tutto! Perché indugiare, perché temere? Forse perché ci è ignoto cosa viene al di là di esso? O perché di là si ritorna? Perché la nostra mente è fatta in modo da pensare che vi siano tenebre e caos là dove non sappiamo nulla di certo.

Nulla di certo, è chiaro, nulla di certo, in questo mare che abbiamo davanti e che ci permette solo di spiegare le vele.

Nulla di certo, o forse sì, almeno una. E la dico come la diceva una poetessa dell'anima come Emily Dickinson:

Una parola muore appena detta, dice qualcuno. Io dico che solo in quel momento comincia a vivere.

E questo è certo: in questo piccolo grande libro troverete molte parole che cominciano a vivere.



(dalla mia introduzione a Valentina Santini, Lettere di un'aspirante suicida, Romano editore)

mercoledì 14 marzo 2012

Che sia stato Goethe a inventare il compleanno?

Happy birthday to you.... è il tuo compleanno e pare la più naturale delle cose che sia un giorno speciale, un giorno da segnare sul calendario, soprattutto da far segnare agli altri sul calendario, un giorno in cui è naturale lasciarci andare, auguri, regali e magari anche qualche pennellata di malinconia, al cospetto del tempo che passa, che poi passerà anche domani, e domani l'altro... happy birthday to you.

E invece no, che sia un giorno speciale non è scontato, non lo è scontato per lo meno guardando retrospettivamente alla nostra storia, visto che non è poi da molto che il compleanno viene ricordato e soprattutto festeggiato. In fondo è un'invenzione anche questa. E L'invenzione del compleanno, giustappunto, è il titolo del libro che un grande storico come Jean-Claude Schmitt ha pubblicato per Laterza.

E dunque nel Medioevo non c'è proprio traccia di festeggiamenti. Sant'Agostino si opponeva fermamente al festeggiamento. E non era certo la classica voce fuori dal coro. Come ricorda Stefania Bertola su Tuttolibri in generale i cattolici trovavano più opportuno festeggiare il giorno della morte, in assenza del festeggiato.

E dal punto di vista di chi non crede all'altra vita: perché festeggiare un giorno che, nel caso, più degli altri pare avvicinarti alla fine di tutto?

E' nel Cinquecento e nel Seicento che le cose cambiano. E' un lungo cammino, che alla fine molto deve a Goethe, proprio lui, e alla sua singolare decisione di festeggiare il compimento dei 53 anni in famiglia, con tanto di candeline: un gesto di sconsiderato e amorevole ottimismo, un caparbio attaccamento alla vita così com'è e che duri il più possibile.

sabato 17 dicembre 2011

Claudio Magris e il mondo come casa


Vivevo immerso nel presente, in quella sospensione del tempo che si verifica quando ci si abbandona al suo scorrere lieve e a ciò che reca la vita - come una bottiglia aperta sott'acqua e riempita dal fluire delle cose, diceva Goethe viaggiando in Italia. 

In un viaggio vissuto in tal modo i luoghi diventano insieme tappe e dimore del cammino della vita, soste fugaci e radici che inducono a sentirsi a casa nel mondo.


(da Claudio Magris - L'infinito viaggiare - Mondadori)

lunedì 12 dicembre 2011

Il gioco dell'universo tra un padre e sua figlia

Era troppo, Fosco. Un uomo straordinario, nel bene e nel male. Affascinante e impossibile, ma niente a che vedere con la canzone di Gianna Nannini. Troppo bello, troppo eccentrico, troppo curioso. E troppo libero.

Fosco Maraini: i suoi viaggi per abbracciare il mondo, i suoi affetti che non si lasciavano rinchiudere tra quattro pareti.

Cosa può rimanere a una figlia di un padre così? Amore e ferite, senz'altro.Ma se la figlia è una scrittrice, se la figlia ha coltivato il senso delle parole, allora anche una manciata di taccuini può rappresentare un ponte tra due vite, il codice che svela il segreto, una promessa che si rinnova.

Dacia ce li ha sotto gli occhi e forse non sa bene cosa farsene, se aggiungere parole ad altre parole, se consegnarli ad altri sguardi. Dice, con Goethe:

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...