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giovedì 20 settembre 2012

Giacinto, che era un uomo di altri tempi

Quel giorno mio padre era per me come Ettore davanti al piccolo Astianatte, quando si leva l'elmo e lo posa a terra per farsi riconoscere: il gesto più disarmante che potesse compiere dinanzi a suo figlio.

Quale immagine scegliere? Il gigante buono che, dopo aver attraversato il campo e trovato il gol, lo attraversa in senso contrario, le braccia levate al cielo, così come gli occhi, che guardano in alto e sorridono di una gioia pulita? Oppure lo stesso gigante buono che corre, corre ancora, solo che questa volta ha sua moglie a braccetto, e corrono insieme i due, ridono e corrono per prendere un treno, e quel treno non è un Freccia Rossa, è un treno di altri tempi, quando i viaggi non finivano più e negli scompartimenti c'era chi si portava dietro salame e fiasco?

Treni di altri tempi, ma anche calciatori di altri tempi. Figurarsi oggi, il capitano della nazionale che rincorre un treno, piuttosto che farsi bello con la sua fuoriserie. Calciatori di altri tempi, ma anche uomini di altri tempi. 

Non importa tifare Inter - io mi tengo stretto la mia Fiorentina - non importa nemmeno aver seguito e ammirato il grande Giacinto Facchetti - e io l'ho fatto, ero ragazzino e sono ricordi che fanno bene - non importa nemmeno essere un appassionato di calcio - di questi tempi non c'è gran motivo. Se no che gente saremmo (Longanesi) di Gianfelice Facchetti, figlio di Giacinto, è un libro da leggere comunque.

E che non sia un libro sul calcio, tantomeno la biografia di un campione del quale hanno perso lo stampo, si capisce  fin dal sottotitolo: Giocare, resistere e altre cose imparate da mio padre Giacinto.

Ed è soprattutto questo, che Gianfelice, uomo che non vive di calcio ma di teatro, ha voluto trasmettere. La storia di un uomo solido e rigoglioso come un albero con radici fonde nella sua terra, ben nutrito della linfa degli affetti. Un uomo che parlava poco, ma mai a vanvera, e soprattutto con una sola lingua (Nella vita si dice una cosa ed è quella. Sennò che gente saremmo). Un uomo che non ha mai cercato il cono di luce dei riflettori, perché è altro ciò che conta davvero.

Poi una malattia terribile ha schiantato quell'albero che sembrava capace di reggere a tutto. E forse è quella l'immagine, non può che essere quella: un padre e un figlio, nel momento in cui il destino si svela con una diagnosi che non lascia scampo.

L'eroe di mille battaglie ora disarmato. E il figlio che troppo presto capisce che dovrà caricarsi per intero la vita sulle spalle e che ciò che prima di tutto la vita esige è un atto di amore.

Come un libro, un libro che è un atto di amore per il padre.

domenica 23 ottobre 2011

Adriano Sofri, Gheddafi e lo scempio di Ettore

Non era Ettore caduto davanti le mura di Troia, sotto i colpi di Achille, e scempiato dagli altri Achei. E' tutt'altra storia, altra epoca, altra umanità. Ma sull'epilogo di Gheddafi, il raìs di Libia, c'è quel qualcosa di tremendamente antico che Adriano Sofri, sulla Repubblica di ieri, ha raccontato splendidamente. Questa non è sola storia del dittatore che con la sua brutalità chiama su di sé altra brutalità. C'è qualcosa che forse solo i greci, con le loro tragedie, hanno saputo portare alla luce, dalle zone più tenebrose del nostro essere uomini.

Gli dei e gli eroi se ne sono andati da tempo, coprendosi il viso, ma la scena è ancora quella. Gli umani sono ancora feroci e fanatici come nell'Iliade, come nella Bibbia. Sono antichi quanto e più di allora, ma hanno i telefonini. 

A distanza di minuti, avreste visto sul vostro schermo Ettore atterrato, e i vigliacchi trafiggerne e insultarne il cadavere, e Achille bucarne i calcagni e attaccarlo al suo pick-up. 

L'uomo è rimasto antiquato, o è pronto a ridiventarlo: e meraviglioso e tremendo è il corto circuito fra la sua antichità e i droni che gli volano sulla testa e colpiscono con esattezza e buttano in un tubo da topo il cacciatore mutato in preda e glielo mandano in mano, mani di prestidigitatori di kalashnikov e telefonini.


(Adriano Sofri: Kalashnikov e telefonini, lo scempio del branco)

sabato 12 febbraio 2011

Siamo noi Omero, il poeta cieco

Lo diceva Victor Hugo:
Il mondo nasce, Omero canta. È l’uccello di questa aurora

Omero, dunque. O meglio, l’uomo che abbiamo imparato a chiamare Omero. L’antico greco che ci ha regalato i poemi con cui inizia la storia della nostra letteratura e forse della nostra bellezza. Il poeta cieco, che non aveva occhi per guardare, ma che proprio per questo sapeva guardare più lontano di chiunque altro e staccare dal suo silenzio parole che risuonavano a lungo nel cuore degli uomini.

Tutto questo è Omero: la grandezza dei versi dell’Iliade e dell’Odissea e, nel ricordo di molti di noi, il busto di un anziano dall’espressione saggia e solenne, e poi magari le traduzioni e gli studi dei tempi di scuola.

Penso spesso a lui, credo che si sia in diversi a farlo. Eppure, cosa si sa davvero di Omero?

Già nell’antichità si erano moltiplicate le biografie, le vite immaginarie, le leggende. E già allora non si contavano le città che si contendevano il vanto di avergli dato i natali, da Atene a Rodi, da Argo a Chio e Smirne. Città, per inciso, quasi tutte dell’Asia Minore, tanto per destarci il sospetto che la nostra poesia in effetti sia arrivata da lontano, dall’Oriente.

Qualcuno assicurava che Omero era nato pochi anni dopo la guerra di Troia, altri che era nato parecchio dopo. Anche sul significato del suo nome ci si accapigliava: discendeva da una parola con cui i greci si riferivano ai non vedenti o dalla parola che indicava, più misteriosamente, un ostaggio?

Ce n’è voluta per iniziare a convincersi che forse Omero non è mai esistito. Anzi, che non è mai esistito perché in realtà di Omero ce ne sono stati centinaia, migliaia.

Infiniti Omero prima di Omero che hanno raccontato di Achille e di Ettore, del re Agamennone e dell’astuto Ulisse. Infiniti poeti che hanno cantato nelle feste e nei banchetti, hanno improvvisato versi che poi sono passati di bocca in bocca, hanno tramandato la memoria delle gesta, delle imprese e delle miserie dei loro eroi.

Così la più grande poesia della nostra letteratura è nata dalla parola leggera, imprendibile, evanescente di tanti poeti senza volto e senza nome.

Ed è bello pensare a tutto questo e poi pensare ai nostri nonni e ai nostri bisnonni, alla nostra Toscana contadina dove si passava le sera a veglia alzandosi in piedi per una rima, per un’ottava improvvisata da chi non sapeva né leggere né scrivere. Credo che sia per questo che qualche tempo fa mi è venuto di scrivere Beatrice: un modo per provare a saldare qualche debito di gratitudine.

È bello pensare a tutto questo, perché permette a ognuno di noi di ritrovare il dono della parola. Perché aiuta ognuno di noi a sentirsi un po’ Omero.

Pensate, ognuno di noi come il grande poeta cieco.

venerdì 23 luglio 2010

Omero, il poeta cieco che è in noi

Lo diceva Victor Hugo:
Il mondo nasce, Omero canta. È l’uccello di questa aurora

Omero, dunque. O meglio, l’uomo che abbiamo imparato a chiamare Omero. L’antico greco che ci ha regalato i poemi con cui inizia la storia della nostra letteratura e forse della nostra bellezza. Il poeta cieco, che non aveva occhi per guardare, ma che proprio per questo sapeva guardare più lontano di chiunque altro e staccare dal suo silenzio parole che risuonavano a lungo nel cuore degli uomini.

Tutto questo è Omero: la grandezza dei versi dell’Iliade e dell’Odissea e, nel ricordo di molti di noi, il busto di un anziano dall’espressione saggia e solenne, e poi magari le traduzioni e gli studi dei tempi di scuola.

Penso spesso a lui, credo che si sia in diversi a farlo. Eppure, cosa si sa davvero di Omero?

Già nell’antichità si erano moltiplicate le biografie, le vite immaginarie, le leggende. E già allora non si contavano le città che si contendevano il vanto di avergli dato i natali, da Atene a Rodi, da Argo a Chio e Smirne. Città, per inciso, quasi tutte dell’Asia Minore, tanto per destarci il sospetto che la nostra poesia in effetti sia arrivata da lontano, dall’Oriente.

Qualcuno assicurava che Omero era nato pochi anni dopo la guerra di Troia, altri che era nato parecchio dopo. Anche sul significato del suo nome ci si accapigliava: discendeva da una parola con cui i greci si riferivano ai non vedenti o dalla parola che indicava, più misteriosamente, un ostaggio?

Ce n’è voluta per iniziare a convincersi che forse Omero non è mai esistito. Anzi, che non è mai esistito perché in realtà di Omero ce ne sono stati centinaia, migliaia.

Infiniti Omero prima di Omero che hanno raccontato di Achille e di Ettore, del re Agamennone e dell’astuto Ulisse. Infiniti poeti che hanno cantato nelle feste e nei banchetti, hanno improvvisato versi che poi sono passati di bocca in bocca, hanno tramandato la memoria delle gesta, delle imprese e delle miserie dei loro eroi.

Così la più grande poesia della nostra letteratura è nata dalla parola leggera, imprendibile, evanescente di tanti poeti senza volto e senza nome.

Ed è bello pensare a tutto questo e poi pensare ai nostri nonni e ai nostri bisnonni, alla nostra Toscana contadina dove si passava le sera a veglia alzandosi in piedi per una rima, per un’ottava improvvisata da chi non sapeva né leggere né scrivere. Credo che sia per questo che qualche tempo fa mi è venuto di scrivere Beatrice: un modo per provare a saldare qualche debito di gratitudine.

È bello pensare a tutto questo, perché permette a ognuno di noi di ritrovare il dono della parola. Perché aiuta ognuno di noi a sentirsi un po’ Omero.

Pensate, ognuno di noi come il grande poeta cieco.

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