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sabato 23 aprile 2016

L'ultimo inverno del riparatore di orologi

Bello, non bellissimo. O forse quasi bello, in realtà così e così. O forse un capolavoro. Un capolavoro
che non incanta e non cattura. O forse sì, solo bisogna prenderlo per il verso giusto, a trovarlo il verso...

Non è facile fare i conti con L'ultimo inverno di Paul Harding (Neri Pozza), con il suo fascino scontroso, con la sua raffinatezza da circolo esclusivo, con la sua bellezza che è la bellezza delle montagne più ripide, di cui fino all'ultimo non sai mai se arriverai fino alla cima.

La storia è bella, intrigante, commovente. C'è George, il riparatore di orologi (riparare orologi significa anche riparare il tempo?), inchiodato dalla malattia a letto, per l'ultimo inverno di una vita da ripercorrere all'indietro. C'è Howard, che di George è il padre, con la sua vita di venditore ambulante malato di epilessia, uomo di abbandoni e fughe e incontri straordinari. C'è l'America che non è l'America di New York e di Los Angeles, ma è l'America del New England, foreste e villaggi. C'è il silenzio che è anche il silenzio maestoso della natura, solo che quel silenzio si impasta con il ticchettio degli orologi. C'è un padre e c'è un figlio e sono due persone che sembrano destinate a non incontrarsi mai, solo che non si può dire, solo che in definitiva c'è sempre tempo....

Un capolavoro? Forse o forse no. Meritava il Pulitzer? Forse o forse no. Un libro importante, sicuramente, per quanto voglia dire. Un libro di emozioni a cui forse manca proprio l'emozione della scrittura, soffocata da eccessi stilistici e forse da qualche lezione di troppo di scuola creativa.

giovedì 14 aprile 2016

Sangue e petrolio, in quella frontiera che è il Texas

Rispetto a JFK, non era rimasta sorpresa. Nell'anno in cui morì c'erano ancora in vita dei texani che avevano visto i genitori scotennati dagli indiani. La terra era assetata. Conservava qualcosa di primitivo.

Benvenuti in Texas, con la sua storia epica e tragica: la guerra con i messicani, la terra strappata agli indiani, le armi che si regalano anche ai bambini e che spuntano ovunque. Frontiera e allevamenti sterminati. Sangue e petrolio.

Tutto questo ci racconta Philipp Meyer in Il Figlio (Einaudi), gran libro che ci porta in luoghi degli Stati Uniti meno frequentati dalla grande letteratura e che pure forse dicono di più - o almeno altrettanto - di questo paese che tanti romanzi ambientati a New York o a Los Angeles.

E' una saga familiare che attraversa tre generazioni, nascita e declino di un impero familiare, fino alla partita finale con il destino. Come quel classico che è i Buddembrook di Thomas Mann, solo in salsa chili. Qui non c'è la buona borghesia di Lubecca, questa è una terra spietata, violenta.

Attenti ai piccoletti, in Texas; devono essere dieci volte più cattivi per sopravvivere in questa terra di giganti.

E spietata, violenta, è anche la trama di questo libro, nel quale però si respira l'aria dei grandi spazi, una singolare libertà. Qui vanno in scena le passioni nel loro stato più puro, senza ipocrisie, senza le lezioni del galateo.

Potenti, i legami del sangue. Solo che può succedere, per le strane traiettorie della vita, che un figlio provi a diventare qualcos'altro. Che siano i libri e non il potere a tentarlo. Che possa persino innamorarsi di una messicana... 

venerdì 23 ottobre 2015

Allo scoperta di John Fante, assieme a Marco Vichi

Quasi sempre ci arrivi per caso, non per scelta: a volte, anzi, al caso provi a sottrarti. Fai resistenza, rimandi, accarezzi qualche alibi. Perché proprio quel libro? E cosa mi dovrebbe davvero dire quello scrittore? Con tutto quello che c'è da leggere... Facile che quel titolo rimanga a lungo dimenticato su uno scaffale, su un comodino, tra una pila di altri libri.

Comincia quasi sempre così, con i libri che poi ti entrano dentro e non ti mollano più. Con gli scrittori che irrompono nella limitata schiera degli indispensabili.

Per John Fante credo che sia successo per diversi. Tutte persone che ora non devono lasciarsi scappare Fuori dalla polvere, che la collana Sorbonne dell'editore Clicly dedica al grandissimo italo-americano.

A curarlo lo scrittore fiorentino Marco Vichi, che nell'introduzione racconta il suo caso: la prima volta che qualcuno gli parla di John Fante lui lascia perdere, per pregiudizio non nei confronti dello scrittore ma della persona che gliene sta parlando. Prima di scoprire che le pagine di Fante possono scuoterlo con emozioni che non provava dai tempi in cui divorava i grandi romanzieri russi.

Charles Bukowski - nella sua straordinaria introduzione a Chiedi la polvere, qui ripubblicata - racconta il suo di casi: la scoperta nei giorni in cui - giovane e perennemente ubriaco - ammazzava il tempo in una biblioteca pubblica di Los Angeles. Per imbattersi nei libri di Fante, scritti con le viscere e per le viscere, con il cuore e per il cuore.  

Beh, mi viene in mente che anche il sottoscritto ci ha messo parecchio, prima di scoprire chi era John Fante. Pensare che per qualche tempo l'ho confuso con un altro grandissimo,  Raymond Chandler. Ma di questo ancora mi vergogno.
 

martedì 4 settembre 2012

La dark lady che non ci molla più

Negli anni le hanno prestato il loro volto attrici come Joan Crawford e Kate Winslet - e dite poco - però non importa andare al cinema. Leggi il libro e questo personaggio prende già vita, sembra di vederlo mentre atteggia le labbra a un sorriso, si muove in cucina o tra i tavoli del suo ristorante, scrive i suoi conti su un pezzo di carta, scocca uno sguardo di sfida a uno degli uomini intorno.

E che personaggio Mildred Pierce, nome e cognome e questo è anche il titolo, niente di più da aggiungere, cosa volete di più?

Mildred Pierce, ovvero una delle più straordinarie figure di dark lady tra le tante che hanno popolato i giorni e le notti di Los Angeles,  figura che da sola basta a dare ritmo e intensità a un noir che non è un noir e allo stesso tempo lo è, perché non è che in un noir ci debba essere per forza un investigatore e un delitto....Magari è sufficiente la percezione del delitto incombente, sempre in agguato. O magari ci sono delitti del cuore che non lasciano dietro di sè cadaveri, però, però.... tanto la penna è sempre quella del grande James M. Cain, lo stesso de Il postino suona sempre due volte, per dire.

Mildred Pierce, cioé una donna che combatte nell'America della Grande Depressione. Una donna che sfida tutto e tutti per raggiungere ciò che vuole, che sembra poco e non lo è, un un mondo di lupi e avvoltoi. Costruire un avvenire migliore per sé e i propri figli, quale ambizione.

Mildred Pierce, ovvero tenacia, determinazione, lucidità che a volte sconfina nella spietatezza. E alla resa dei conti, anche tanta fragilità.

Ascesa e declino, in questa California che non è quella delle spiagge dei surfisti e delle stelle del cinema, benché questa sia una storia perfetta per il Sunset Boulevard che si allarga dentro di noi.

E questo personaggio, soprattutto questo personaggio, che non ci molla più. La figura di Mildred spiccava in qualunque folla, in tutte le folle, diceva di lei Cain. E come dargli torto?






giovedì 15 marzo 2012

L'America raccontata nell'esilio volontario

Inizia con la luce di un faro solitario e poi l'ombra della prima striscia di terra da quando ci si è lasciati alle spalle il Portogallo: Long Island. Poi c'è tutto un continente da attraversare, scoprire, raccontare.

C'è New York - dove cercheremo qualche cosa di simile a quest città nient'altro che città? - con i suoi grattacieli da mozzare il fiato. Ci sono le ferrovie, trionfo dell'acciaio e della macchina, esaltazione di un popolo che sembra nato per mettersi in viaggio. C'è Chicago con le sue industrie, c'è l'infina distesa dell'Ovest, le tolleranti pianure di Sidney Lanier. C'è Los Angeles, la metropoli dei mirabili orrori, c'è la costa affacciata sul Pacifico e il richiamo di quell'altro continente.

E quant'altre cose in questa America che per Emerson , il filosofo, non era nient'altro che la continuazione dell'Inghilterra, figurarsi.

E quanta meraviglia, invece, scorre per le pagine dell'Atlante americano di Giuseppe Antonio Borgese, scrittore oggi molto trascurato (non so se oggi a scuola si legga ancora il suo straordinario romanzo Rubè), e che invece merita senz'altro: anche per questo libro che ci ripropone Vallecchi nella sua collana Off the road.

Merita, merita non solo per l'America raccontata, ma per l'occhio particolare da cui è essa è vista, quella di un intellettuale italiano degli anni del fascismo, quando l'Italia felix, così doveva essere, non poteva essere indulgente con gli States.

Pensare che partito nel 1931 Borgese finì per scegliere proprio l'America. Lì si sposò, per inciso con la figlia di Thomas Mann, lì scelse di abitare in un volontario esilio interrotto solo nel 1948. Ma questa è un'altra storia ancora. 


martedì 8 novembre 2011

L'ultimo inverno, capolavoro o forse no

Bello, non bellissimo. O forse quasi bello, in realtà così e così. O forse un capolavoro. Un capolavoro che non incanta e non cattura. O forse sì, solo bisogna prenderlo per il verso giusto, a trovarlo il verso...


Non è facile fare i conti con L'ultimo inverno di Paul Harding, con il suo fascino scontroso, con la sua raffinatezza da circolo esclusivo, con la sua bellezza che è la bellezza delle montagne più ripide, di cui fino all'ultimo non sai mai se arriverai fino alla cima.

La storia è bella, intrigante, commovente. C'è George, il riparatore di orologi (riparare orologi significa anche riparare il tempo?), inchiodato dalla malattia a letto, per l'ultimo inverno di una vita da ripercorrere all'indietro. C'è Howard, che di George è il padre, con la sua vita di venditore ambulante malato di epilessia, uomo di abbandoni e fughe e incontri straordinari. C'è l'America che non è l'America di New York e di Los Angeles, ma è l'America del New England, foreste e villaggi. C'è il silenzio che è anche il silenzio maestoso della natura, solo che quel silenzio si impasta con il ticchettio degli orologi. C'è un padre e c'è un figlio e sono due persone che sembrano destinate a non incontrarsi mai, solo che non si può dire, solo che in definitiva c'è sempre tempo....

Un capolavoro? Forse o forse no. Meritava il Pulitzer? Forse o forse no. Un libro importante, sicuramente, per quanto voglia dire. Un libro di emozioni a cui forse manca proprio l'emozione della scrittura, soffocata da eccessi stilistici e forse da qualche lezione di troppo di scuola creativa.

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  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...