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mercoledì 15 ottobre 2014

Per i libri e i librai come per i palloni del Pakistan

In Italia l'anno scorso il 57 per cento degli italiani non ha letto nemmeno un libro. In Finlandia ogni persona legge in media 20 libri all'anno. E' un divario di civiltà che si commenta da solo e per il quale mi risparmio parole. In fondo mi ha stancato anche piangermi addosso, così come sono stufo di ministri che lanciano proclami che, nei fatti, sanno tradursi (se va bene) solo in qualche spot televisivo: più utile, in effetti, per i bilanci tv che per il mondo del libro.

Basta che non mi si venga a dire che è una questione di clima, che i finlandesi, poveretti, leggono molto perché di inverno non sanno che altro fare.

Eppure non è alla desolazione di queste cifre, rese note in occasione della Buchmesse di Francoforte, che mi viene da pensare. In questa fase, temo, c'è qualcosa di peggio della scarsa propensione alla lettura. Ed è il concetto che per i libri sia lecito non pagare e che per questo sia buono ogni trucco, stratagemma e illecito. Un po' come i grandi concerti ai tempi degli autoriduttori, quando si sfondava per non pagare il biglietto e però non era chiaro a chi si doveva presentare il conto.

La musica è un diritto, si diceva. Anche la cultura è un diritto: giusto, anzi, sacrosanto. Ma perché  a pagare deve essere quel poco che rimane dell'economia del libro e il lavoro che c'è intorno?

Eppure è così. Alle presentazioni dei libri - parlo per esperienza diretta - crescono le persone che si ritengono nell'indiscutibile diritto di pretendere una copia gratuita, magari dallo stesso autore, ritenuto, chissà perché, proprietario di intere tirature (per inciso, come se tutta fosse editoria a pagamento, che tristezza).

L'altro giorno in una biblioteca pubblica, peraltro splendidamente animata da persone attente e motivate, il bilancio è stato di due copie vendute e di dieci persone che si sono messe in lista di attesa per leggere il libro che presentavo, da poco uscito. Non accenno nemmeno a chi scarica illegalmente dalla Rete: perché per me si tratta di un furto, della peggior specie, in quanto furto ai danni non di una rendita ma del lavoro.

Credo che siano solo aspetti di un fenomeno più complesso, risultato di miopia o trascuratezza (prima ancora che della crisi che ha colpito le nostre tasche, perché per altri tipi di consumi, anche culturali, non è lo stesso).

Allo stesso modo - per quel 15 per cento di sconto e per la comodità di aspettare in casa con Amazon e compagnia - stiamo mandando a picco le librerie, soprattutto le librerie indipendenti. E così stiamo spensieratamente rinunciando a luoghi di socialità e al prezioso lavoro di mediazione culturale dei librai. Peccato che poi sulla Rete tutti i gatti sono bigi, tranne quelli più pompati dalle multinazionali dell'on line che peraltro, stiamo scoprendo in queste settimane, possono anche decidere di far restare fuori chi ritengono.

Insomma, il discorso sarebbe lungo. Però vorrei che per i libri valesse la stessa consapevolezza che possiamo avere per il caffè di Santo Domingo o per i palloni del Pakistan. Perché ogni gesto di acquisto può avere un suo valore, un suo peso. Essere gesto equo, critico, attento.

martedì 16 marzo 2010

L'11 settembre e il fondamentalista riluttante






Io non ero in guerra con gli Stati Uniti. Anzi, ero il prodotto di un'università americana; stavo guadagnando un lucroso salario americano; ero infatuato di una donna americana. Perché allora una parte di me desiderava il male degli Stati Uniti?


(...)

E' incredibile, data la sua insignificanza - dopotutto è un modo di acconciarsi come un altro - L'impatto che ha sui vostri compatrioti una barba esibita da un uomo con la mia carnagione

Ecco qui, è tra questi due estremi che oscilla il pendolo della contrapposizione, dell'intolleranza, dell'incapacità di accogliere la differenza, almeno di metabolizzarla sotto il segno del vivi e lascia vivere. Avversione che a volte viene fuori dal ripostiglio del cuore, quando meno ci si aspetta, riflesso automatico, incontrollabile. Avversione che altre volte brucia sulla pelle, mortifica e umilia, tanto più se si alimenta di dettagli.

Beh, c'è tutto questo nel libro di Mohsin Hamid, Il fondamentalista riluttante, un titolo che di per sè basta a evocare una montagna di pensieri, decisamente piuttosto brutti, su questo nostro mondo, sulle ferite ancora aperte e che pare abbiano ben poca intenzione di cicatrizzarsi.

Un libro che è tutto un monologo, un racconto in prima persona, qualcosa a metà tra una confessione e un j'accuse che si srotola in un pomeriggio e poi in una sera trascorsa in un caffè di Lahore, tra i profumi, le voci, la varia umanità del vecchio mercato di Anarkali.

Chi parla è un pakistano, Changez, giovane pakistano che una vita prima, forse anche un mondo prima, era un giovane in carriera, assunto da una delle più spietate società della finanza newyorkese. Chi ascolta, un americano che non si sa bene cosa sia, difficilmente un turista, forse un agente o un diplomatico, forse un militare.

Due uomini che in effetti fino a qualche tempo prima sembravano appartenere allo stesso mondo. Poi è arrivato l'11 settembre, i ponti sono saltati, sotto le macerie non sono rimasti solo corpi.

Sete di vendetta. Opposti fondamentalismi. Come cancellare tutto questo? Nella figura dell'ex mago della finanza che si è lasciato crescere barba e odio non c'è niente di rassicurante. E la riluttanza del suo estremismo fa ancora più paura, come se fosse la prova provata di forze superiori a ogni volontà.

Magari sappiamo che non è così. Che c'è sempre modo di guardare oltre. Ma la scrittura rapida, avvolgente, tutta in discesa (verso il precipizio?) di Hamid rischia davvero di farcelo dimenticare.

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  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...