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martedì 31 luglio 2018

L'impresa del professore e del pazzo

Ci vogliono libri così, che raccontano storie secondarie, apparentemente buone solo per una rivista molto specialistica o per una nota da archivio storico, solo che dentro di esse batte forte la vita. Certo poi ci vuole qualità di scrittura e con essa la capacità di non girare a vuoto, grazie alla spinta della curiosità, al desiderio di scoprire e di raccontare, ma ecco, contro ogni previsione può succedere: il libro su cui non avresti scommesso ti appassiona come un grande romanzo. 

Questo è quanto mi è capitato con Il professore e il pazzo di Simon Winchester (Adelphi), autore che peraltro mi aveva già accompagnato con grande piacere per i misteri della Cina o per le distese dell'Atlantico. Questa volta l'impresa sembrava meno agevole e più discutibile, benché in effetti porti dentro quella che un'impresa è stata davvero: la redazione del mitico Oxford English Dictionary, monumento inarrivabile della lingua inglese, di cui ambisce a racchiudere l'intero universo di parole. 

Impresa, certo, a cui raramente mi è stato dato di pensare. Quale lavoro enorme c'è dietro un dizionario o un'enciclopedia? Quanta frustrazione riserva l'accumulo di una conoscenza che non finisce mai? 

E tuttavia dentro questa impresa si nasconde anche una storia meravigliosa. Buona per un grande romanzo, appunto. La storia della relazione tra James Murray, curatore del dizionario, e il suo principale collaboratore. Detta così non suona particolarmente accattivante, fatto sta che questo collaboratore è solo una firma - W.C. Minor - con un passato ingombrante di cui Murray non ha il minimo sospetto: è un americano impazzito durante la Guerra di Secessione, a Londra ha ammazzato un passante, ora è rinchiuso in un manicomio criminale ed è da lì che invia migliaia e migliaia di voci alla redazione del dizionario. 

Solo dopo molto tempo, quando deciderà di incontrare il suo prezioso collaboratore, Murray scoprirà la verità: e invece di ritrarsi scandalizzato si aprirà a un'amicizia contro tutti i pronostici, nell'Inghilterra dei pregiudizi vittoriani. 

Murray, certo, anche lui un tipo particolare: scozzese di origine modeste, autodidatta, sin da bambino dominato da una fame di conoscenza come una malattia cronica. Però non fino al punto di smarrire se stesso.

Che storia, che è questa, di umanità che si riconosce. E di imprese che vanno avanti solo grazie a chi non ti aspetti, uomini ai margini dei luoghi comuni. 

mercoledì 20 giugno 2018

La Cina con Hugo Pratt per maestro (di Mauro Bonciani)

La città e l'Italia si sono accorti di loro due anni fa quando, dopo un controllo ad un capannone, all'Osmannoro, la zona industriale a cavallo con Sesto, è scoppiata la rivolta. Ma la comunità cinese di Firenze è vecchia di decenni e numerosa. Ed un romanzo giallo, per la prima volta, ci racconta questo mondo e la vecchia e nuova mafia cinese, con una lingua lucida e tagliente, una trama incisiva e appassionante, un'immersione profonda in culture e tradizioni millenarie.

C'è il protagonista sempre un po' fuori posto, mister Onofri, ci sono femmes fatales di hugoprattiana memoria, delitti efferati e misteriosi, le arti marziali, la passione per il gioco di azzardo e le auto di lusso tipiche degli orientali, un gioco di specchi dove praticamente nulla è come sembra, una Firenze inconsueta; c'è la Triade e non solo.

La storia di Little china girl (Betti Editore) - opera prima del cinquantenne Massimiliano Scudeletti, che dopo una zigzagante esperienza lavorativa e un'antica passione per la Cina e l'Oriente si occupa si scolarizzazione di immigrati adulti - inizia proprio in un anonimo capannone all'Osmannoro, zona di confine tra italiani e cinesi, dove si trova quasi nascosta la casa da gioco delle Otto Fortune. E dove Alessandro Onofri perde una fortuna e si trova a non poter dire di no alla richiesta di aiuto per fare luce su un feroce assassinio all'interno della comunità cinese. 

Il thrilling è incalzante, gli omicidi si moltiplicano come gli interrogativi e l'ex video reporter di guerra deve cercare rapidamente risposte, stando attento a salvare assieme la pelle e la faccia, come impongono i rigidi codici della comunità cinese che frequenta senza l'illusione di farne parte, legato alla famiglia dello Zio Hu più di quanto vorrebbe ammettere  a se stesso, agli amici, alla ex fidanzata Lien, alla bella Phoung che gli è stata messa a fianco, più per controllarlo che per aiutarlo.

Scudeletti squaderna situazioni e sentimenti, certezze ed ambiguità, usa la chiave del giallo per un viaggio in un mondo che evidentemente lo affascina, evitando ogni esotismo, ogni luogo comune, qualsiasi scorciatoia o ammiccamento per conquistare il lettore; spostando continuamente il confine tra le due comunità che a Firenze, come a Prato o Milano, sembra invalicabile.
L'idea di Little china girl, il cui titolo riecheggia la famosa canzone di David Bowie, è vecchi di anni ed il lungo lavoro dell'autore è evidente in ogni pagina, in ciascuna frase, nell'assoluta mancanza di cali di tensione, impresa certo non facile per un esordiente che non vive di scrittura. Il romanzo è stato finalista al concorso di Radio Rai1 Tramate con noi e Claudio Gorlier ha spiegato "mi ha conquistato una singolare capacità di fondere l'avventuroso, il realistico e il simbolico, con una naturalezza che mi ha sbalordito. Ho cercato di cogliere l'autore in fallo, ho assunto un atteggiamento aggressivo ma mi sono arreso", sintetizzando il valore dell'opera. 

Perché Scudeletti, come l'amato Hugo Pratt, scrivendo di avventura racconta molto altro.

(Mauro Bonciani)

giovedì 1 febbraio 2018

Come i cinesi divennero gialli, un libro per scoprire l'invenzione del colore (di Massimiliano Scudeletti)

 Andrea Corsali, italiano al servizio dei portoghesi, riferendo a Giuliano de' Medici delle sue esplorazioni, definisce la pelle dei Cinesi come «di nostra qualità». Era l'anno 1515, ma per quasi tre secoli la descrizione degli abitanti del Regno di Mezzo non cambierà: «gente di pelle bianchissima al Nord... bruni invece i cantonesi», riferiscono viaggiatori, naturalisti e missionari. Infatti, alle soglie del XIX secolo, i Cinesi sono ancora «un popolo di pelle bianca» (Dizionario universale, 1772, Parigi).
Parte da questo assunto, che ci lascia un po' stupiti, il breve ma dirompente libro di Walter Demel - Come i cinesi divennero gialli. Alle origini delle teorie razziali (edizioni Vita e Pensiero) - a metà tra il saggio e il viaggio nella storia, che stravolge le spire della teoria velenosa della razza.
Nel 1756 compare per la prima volta il termine luridus, che può essere tradotto come "giallastro", riferito al popolo cinese. Lo usa Linneo nella nona edizione del suo Systema naturae. Cosa abbia fatto cambiare idea al naturalista svedese che nelle precedenti edizioni lo aveva definito fuscus "scuro" - per colpa dei soliti cantonesi, meridionali dell'Impero -  lo possiamo solamente presumere. Forse si era fidato della descrizioni del naturalista Buffon che aveva definito luridus il popolo cinese (nel senso di infidi e poco affidabili). E Immanuel Kant, sì proprio il filosofo, si trova davanti luridus e lo traduce come "giallastro" in tedesco. 
Da lì in avanti i Cinesi, e molti altri popoli dell'Asia, rimarranno gialli anche se non lo sono. Un errore di traduzione, per quanto fatto da un filosofo eccelso, non sarebbe stato sufficiente, ma si stanno imponendo con forza sempre maggiore strambe teorie che dividono il mondo non più in continenti, ma in razze.
E cosa c'è meglio di un colore della pelle per giustificare l'esistenza e la riconoscibilità delle razze, visto che altri criteri non si riescono a trovare? Si chiede il Demel citando l'entusiastica adesione del mondo occidentale alla nuova definizione "cromatica" dei cinesi. Il colore giallo era perfetto: intermedio tra il bianco e il marrone, perfetto per sancire la gerarchica delle razze: al punto più basso gli Africani (neri), nel mezzo i Cinesi (gialli) e alla sommità... Beh, quello ce lo sentiamo ripetere tutt'ora.
A nulla è valso che l'antropologia moderna, usando i criteri delle scienze naturali, abbia stabilito che «mediamente le curve di riflessione della luce nel colore della pelle dei Cinesi sono di poco inferiori rispetto a quelle degli Europei (tradotto, sono leggermente più scuri della media europea). A nulla: rimangono i "gialli" con annesso "pericolo giallo" e tutta la vulgata razzista correlata.
Demel conclude il suo libro dicendo che: «La razza gialla non è certamente nata nelle plaghe sconfinate dell'Asia, ma nel cervello degli studiosi europei.» Noi assentiamo, per una volta antirazzisti a capo chino, visto che non siamo riusciti a discernere questa realtà passeggiando per una qualsiasi Chinatown - Prato o New York, non importa -. Abbiamo la sola scusa che le idee più velenose velano anche lo sguardo.
                                                                                        Massimimiliano Scudeletti

lunedì 6 luglio 2015

I sonnambuli che porteranno alla rovina il mondo

Lo zar aveva parlato, e i cosacchi, forti della loro straordinaria vocazione e tradizione militare, "ardevano dal desiderio di combattere contro il nemico". Ma chi era il nemico? Non lo sapeva nessuno. Il telegramma che ordinava la mobilitazione non forniva alcun particolare. Le voci abbondavano. In un primo momento tutti immaginarono che la guerra fosse contro la Cina....

Ecco, è solo una delle tante istantanee custodite da un libro magnifico, avvincente a prescindere dalle molte pagine, che ricostruisce i mesi precedenti allo scoppio del conflitto mondiale, fino ai giorni della dichiarazione di guerra e della mobilitazione, sul finire del luglio 1914. Opera dello storico australiano Christopher Clark (Laterza editore), titolo e sottotitolo dicono già molto: I sonnambuli. Come l'Europa arrivò alla Grande Guerra. Buona premessa per lasciarsi portare via da questo racconto potente come un grande fiume.

E si può condividere o meno le responsabilità che alla fine l'autore distribuisce agli uni e gli altri - so che in effetti sono state discusse - ma il punto non è additare la Germania, l'Austria o la Serbia. Piuttosto è provare a dare un senso a ciò che senso non ha, e questo è peggio. Piuttosto è cercare di orientarsi in questa incredibile miscela di miopia, arroganza, imprevidenza, indifferenza. Non ci fosse poi il terribile conto dei morti, quasi un gioco di società, buono per una esclusiva località termale. E se non fosse tragedia sarebbe il trionfo del ridicolo.

Appetiti, ripicche, parole mancate, distrazioni. E in tutto questo la guerra che non è l'epilogo scontato, semmai il più improbabile. Altre volte si era danzato sul margine del precipizio, senza che fosse successo niente. Il più improbabile, finche davvero non avverrà veramente.

Re, imperatori, ministri, diplomatici, generali: Chi aveva le leve del potere era come un sonnambulo. E da sonnambulo rovinerà nel precipizio, portandosi dietro il mondo.

lunedì 1 dicembre 2014

Come pedine nella scacchiera di un'altra Cina

In Piazza dei Mille Venti si gioca sempre a go, nonostante il freddo che leva il fiato. I giocatori coperti di brina sembrano pupazzi di neve, mentre le scacchiere di granito, con tutte le partite che hanno accolto, non si sono solo consumate: sono diventate visi, pensieri, preghiere.

E' questa la prima immagine di un libro sorprendente, distillato di parole ed emozioni che ci porta nella Manciuria occupata dal Giappone. La giocatrice di go di Shan Sa (Bompiani) è un romanzo che in realtà è due romanzi, intreccio di due storie: lei la ragazza cinese che gioca a go, una vittoria dopo l'altra sotto lo sguardo diffidente e perplesso dei suoi connazionali; lui, il soldato dell'esercito imperiale che abbandona Tokio promettendo alla madre di scegliere la morte piuttosto che la vergogna.

Due persone che più distanti non si potrebbe immaginare: ma che gli eventi della Storia e le circostanze della vita avvicinano passo dopo passo, con la forza dell'ineluttabilità.

Sono loro, le pedine disposte nella scacchiera. Loro il bianco e il nero che mani invisibili muovono nel contesto di un gioco troppo grande e troppo crudele che mette di fronte due culture e due paesi in guerra.

Non ho più paura di nulla. Questa esistenza è solo una partita a go!

Un turbinio di eventi e di scelte che non sono scelte, fino al riconoscimento del destino che è al varco, fino all'accettazione di ciò che dovrà accadere.

E così arriva dalla Cina e mi prende di sorpresa una voce che mi porta lontano, alla ricerca di sintonie e corrispondenze. Fino in Argentina, fino al grande Borges, ai suoi scacchi, a quella scacchiera dove noi siamo i pezzi, mossi da giocatori che non sapremo mai riconoscere.

lunedì 27 ottobre 2014

Il poeta in carcere che scrive con l'acqua della ciotola

Ogni giorno scrive poesie sul pavimento di pietra, bagnando un dito nella ciotola dell'acqua che beve....

Come un antico poeta del Giappone, che sa che la bellezza è tanto più bella quanto è effimera. Perché ciò che conta è la creazione, non ciò che di essa rimane. Allo stesso modo dei fiori di ciliegio, i cui petali cadono subito. Bellezza che svanisce, bellezza che evapora, come quelle parole tracciate con l'acqua.

Tutto molto bello, ma non è la bellezza, almeno, non è solo la bellezza, che tutto questo richiama Liu Xiaobo: il poeta che scrive con i polpastrelli bagnati nella ciotola, perché non ha più carta e inchiostro. Perché quella ciotola d'acqua è l'unica cosa che in carcere gli rimane.

Liu Xiaobo, il poeta che hanno condannato al silenzio; il dissidente nella Cina che non ammette nemmeno l'idea del dissenso. Premio Nobel per la Pace, in una cerimonia in cui spiccava la sua poltrona vuota.

Liu Xiaobo, forse un imbarazzo per il regime, il giorno del Nobel. Oggi non più. Non fosse per qualche articolo - come qualche giorno fa quello di Giampaolo Visetti su Repubblica - appena un vago ricordo. Facilmente esorcizzato in Cina e anche fuori dalla Cina, da quel mondo che con la Cina ha smania di fare affari, figurarsi se ha tempo da perdere con quegli scocciatori degli attivisti dei diritti umani.

Vorrei che la bellezza delle parole scritte con le dita bagnate indugiasse tra noi. Vorrei che quelle parole resistessero anche dopo essere evaporate, solo per il fatto di esserci state per un istante. Vorrei che si trasformassero in grido di indignazione. Il nostro grido: ce la faremo?


mercoledì 22 ottobre 2014

Nel mondo, dopo aver navigato sul fiume al centro del mondo

Tutte le auto, i treni, le navi e gli aerei che avevo prenotato per i giorni successivi avrebbero continuato a portarmi nella stessa direzione conducendomi di nuovo a Shangai dove il mio viaggio avrebbe avuto termine.

Allora, assieme al fiume, mi sarei spinto oltre la Barriera di Woosung e la sua rossa boa, avrei passato il faro sfavillante e l'enorme boa di navigazione che stava proprio oltre il punto che un tempo era chiamato Capo Nelson. 

Presto, ancora una volta, sarei stato in pieno oceano, sulla via del ritorno per ricongiungermi con il resto del mondo.

Sarei tornato nel mondo, dopo aver navigato il fiume che sta proprio nel centro del mondo.

(Simon Winchester, Il fiume al centro del mondo, Neri Pozza)

lunedì 20 ottobre 2014

Il fiume al centro del mondo

Una Cina priva di un tale immenso corso d'acqua è quasi impossibile da immaginare.

E' il Fiume Azzurro, anche se di azzurro ha davvero poco. O piuttosto il Fiume Lungo, nome assai più comprensibile, visti gli oltre 6 mila chilometri dal Tibet a Shangai, attraverso lo sterminato continente asiatico. E anche, e più semplicemente, il Fiume: così, per antonomasia.

In cinese, è lo Yangtze: e per noi è poco più di una reminiscenza geografica dei tempi della scuola. Difficile, in ogni caso, essere pienamente consapevoli dell'importanza di questo fiume, cuore della storia e della civiltà della Cina (e quindi, tenendo a freno le nostre visioni eurocentriche, anche del mondo).

Forse non sarebbe stato così, senza quella spettacolare inversione di rotta di cui lo Yangtze è protagonista a sorpresa, con le sue acque che dopo una corsa di milleseicento chilometri incontrano la Montagna della Nuvola. Unico tra tutti i grandi fiumi che, nati dalle grandi montagne asiatiche, non si dirige al sud, ma punta a est, ancora più a est, senza sottrarre alla Cina una solo goccia d'acqua.

Viene da pensare che proprio quelle rocce su cui si infrange lo Yangtze siano l'ombelico del mondo, il luogo in cui si è decisa un bel po' della nostra storia. Ed è questa la sensazione che mi ha lasciato il bel libro di Simon Winchester, Il fiume al centro del mondo (Neri Pozza). Titolo davvero eloquente, per un viaggio straordinario, raro, imprevedibile.

Un viaggio a ritroso, dalla foce alle sorgenti. Verso le prime acque del Tibet, verso ciò che c'è stato prima di noi. Forse prima anche della stessa Storia, con i suoi disastri, le sue vergognose tragedie.


martedì 10 settembre 2013

Uomini di frontiera, da qui a Pechino

Aprì la finestra: della Cina aveva sempre amato il rumore della pioggia sulle tegole e sui bambù. Sembrava che una delle grandi arti del paese fosse esaltare il suono delle gocce di pioggia...

Che libro inatteso, sorprendente, che è Muri rossi di Stefano Cammelli (Mauro Pagliai editore). E che fascino che sale dalle sue pagine, come la nebbia dopo un acquazzone d'estate, quando tutto appare più pulito e più profondo.

C'è la Cina - in queste pagine - la Cina che non è quella di qualche dinastia insediata nella sua città proibita e che non è nemmeno quella dei grattacieli e dei soldi facili, ma semmai un continente di mistero che seduce e allontana, interroga e porge risposte che rappresentano nuove domande.

E prima ancora della Cina, ci sono gli uomini che il destino o la volontà hanno portato in Cina. Occidentali che, abbiano o meno scelto, questo paese lo hanno accolto nel cuore. Però una cosa è lasciarsi catturare, un'altra è abitare per intero un luogo. Soprattutto se questo luogo è di fatto un altro mondo, diviso dal tuo dalla storia e dai muri della politica.

Si può essere ponte che unisce quei due mondi - oltre che il proprio passato e il proprio presente. Oppure barca in balia delle correnti, distante da ogni molo che possa accogliere e legare a sè.

Uomini di frontiera, dispersi in un Far East, piantati su un crinale. Senza un'appartenza certo, ma forse proprio per questo più capaci di rimettersi in cammino. Traiettorie di vita, che solo un uomo innamorato della Cina e delle sue domande poteva raccontare. Con i dubbi dell'Occidente e la poesia dell'Oriente.

lunedì 9 settembre 2013

Arrivare in Cina, per scoprire i suoni della pioggia

E nulla è più delicato del lento riposare delle gocce all'interno dei fiori di peonia al termine di una pioggia primaverile.

Così aveva lentamente imparato quanto potesse essere semplice e naturale quello che in un primo momento aveva trovato di un estetismo decadente: quanti suoni diversi potesse fare la pioggia, come potessero variare da un lento adagio, quasi sussurrato, a un crescendo che talora sembrava raggiungere intensità quasi sinfoniche....

Dopo le prime volte aveva imparato, come gli altri che lo accompagnavano, a non spostarsi quando una folata di vento spingeva la pioggia di taglio  e l'acqua giungeva dove sorseggiavano il té,  a riconoscere in quell'accenno di tempesta un momento più intenso, quasi un largo, naturale corale.

Si era formata allora la prima esile ma irreversibile frattura tra loro.

Come se la Cina non fosse per tutti; come se certe sensibilità richiedessero di essere messe alla prova, prima di potersi esprimere ed essere riconosciute.

(Stefano Cammelli, Muri rossi, Mauro Pagliai)






lunedì 22 luglio 2013

Quando l'Oriente era il sogno delle Mille e una notte

Quando l'Oriente non era ancora la Cina o il Giappone ma, con l'occhio dell'europeo, il continente affacciato su un mare comune. Quando l'Oriente era ciò che rimaneva del potente impero ottomano, spoglie che si contendevano le cancellerie europee, eppure anche immensamente di più, destinazione per pochi e eccitazione esotica per molti. Quando l'Oriente prima ancora che un luogo era un desiderio e un'invenzione letteraria sospinta dai racconti delle Mille e una notte e i viaggiatori erano prima di tutto mercanti di sogni.

E' proprio in questo mondo sospeso tra il viaggio e il sogno che ci accompagna Attilio Brilli con il suo Il viaggio in Oriente (Il Mulino), libro importante, libro imperdibile per chiunque voglia coltivare il senso del cammino tra i luoghi e i tempi.

Brilli, si sa, è uno dei più autorevoli esperti di letteratura di viaggio che ci siano in giro. Ma questa opera, benché poderosa e corredata da tutto quello che ci vuole - note e ampia bibliografia - non è solo per gli studiosi. Leggerla è come tuffarsi in un oceano di storie, di vite, di emozioni.

I paesaggi inondati di sole e le ombre delle antiche città arabe. I muezzin e le odalische. Le voci dei suk e i silenzi degli harem. Le carovane che arrivano dal deserto e i mari solcati dai pirati. E per gli europei, un frullato di emozioni, aspettative, esperienze raccontate e dicerie: l'Oriente misterioso, l'Oriente che si fa moda e arte, l'Oriente erotico e dispotico, molle e crudele. E poi i viaggiatori che si fanno essi stessi mito, per appartenere alla nostra storia: da Lord Byron a Francois-Renè de Chateaubriand, solo per ricordare i primi che mi vengono in mente.

Vita e arte che si intreccia con quell'enigma che per noi è stato e forse è l'Oriente.

sabato 8 giugno 2013

Guardando per caso le costellazioni

Puoi aspettare tanto, tanto tempo
prima che in cielo accada qualcosa
di piu' dello scorrere delle nuvole
e delle Luci del Nord, che corrono
come brividi pungenti.
Il sole e la luna s'incrociano,
ma non si toccano mai, ne' fuoriescono
fiamme, ne' si scontrano violentemente.
Sembra che i pianeti s'incontrino
nei loro tragitti, ma non accade nulla,
non viene fatto nessun male.
Possiamo tranquillamente continuare
la nostra vita, e guardare ovunque
tranne che alle stelle, alla luna e al sole
perche' abbiamo bisogno di colpi
e di cambiamenti per non impazzire.
E' vero che la siccita' piu' lunga
finira' in pioggia,
che la pace piu' lunga in Cina
finira' in conflitto.
Ma verra' deluso chi restera' sveglio
nella speranza di veder rompere
la calma del cielo, di fronte a lui
nella sua vita.
Quella calma sembra proprio essere certa
fino all'ultima notte. 

 (Robert Frost, Guardando per caso le costellazioni)

giovedì 30 maggio 2013

Quella Cina raccontata con il noir

Questo era tipico dell'ispettore capo Chen, farsi rapire da una poesia della dinastia Tang nel mezzo delle indagini su un omicidio. Forse Chen aveva bevuto troppa birra. Un mese prima, l'investigatore Yu l'avebbe presa come un'altra prova della romantica eccentricità del shuo principale. Ma quel giorno la trovò accettabile.

Dicono che Qiu Xiaolong - un nome che non mi entrerà mai per la testa - sia il maestro assoluto del noir cinese e che leggere i suoi libri sia un buon modo per conoscere la Cina contemporanea. Un buon viatico per provare la lettura, non fosse altro che per curiosità: Cina e noir, per quanto mi riguarda, finora appartenevano a due pianeti diversi.

Così ho cominciato con La misteriosa morte della compagna Guan, primo della serie, pubblicata in Italia da Marsilio, dedicata all'ispettore Chen della polizia di Shangai. E sapete? Non è andata male.

E' anche probabile che, ad aspettarsi alta tensione e delitti a raffica, si finisca per impantanarsi nella lettura, con qualche inevitabile delusione. Però che bella questa figura dell'ispettore Chen, che incrocia le indagini con i tesori della poesia del Celeste Impero. E se tanto mistero poi non c'è, intorno alla morte della compagna Guam, in fondo il mistero è tutto intorno, nella Cina che Qiu Xiaolong, ci racconta dall'interno, portandoci nei posti di lavoro, nei condomini, nelle strade del dopo Mao (siamo nella Shangai delle riforme di Deng Xiao Ping).

E potremmo anche ragionare sul fatto che l'autore da tempo vive negli Stati Uniti, e che così è tutto più facile. Ma io una Cina raccontata così non l'avevo ancora trovata. Magari ha davvero ragione chi va sostenendo che il noir può essere il romanzo sociale della nostra epoca.

giovedì 19 luglio 2012

La rivolta impossibile di Lucio Mastronardi

L'unico posto a Vigevano dove non si fabbricano scarpe è il carcere, lì si fabbricano penne a sfera.

Così scriveva della sua città Lucio Mastronardi, grande scrittore che ci siamo lasciati alle spalle come le stagioni che passano, coscienza inquieta e perdente di genio come quell'altro scrittore che a lui mi piace accostare, Luciano Bianciardi: entrambi uomini di provincia, entrambi condannati a raccontare un paese intero colto in un trapasso che sa di mutazione antropologica, entrambi capaci di dissipare con disinvoltura il proprio talento.

Di Mastronardi ho letto in altri anni Il maestro di Vigevano, storia di un maestro alle prese con un lavoro che conta sempre meno in un paese che, con il boom, pensa solo a produrre e arricchirsi. E' l'Italia della provincia grassa, delle fabbrichette che ingrossano i conti in banca e l'evasione fiscale, dei furbetti che sanno come funzionano le cose.

Oggi Vigevano non è più quella Vigevano, le fabbriche sono chiuse, le scarpe arrivano dalla Cina o dal Vietnam. Però le piaghe su cui Mastronardi metteva il dito ci sono ancora tutte: hanno a che vedere, per esempio, con un'Italia in cui la cultura vale sempre poco, forse ancora meno.

Lucio Mastronardi era uno scrittore che piaceva a gente come Eugenio Montale e Italo Calvino, ma era prima di tutto un maestro. Non ebbe vita facile e nel 1979 si suicidò, gettandosi nel suo Ticino. Da poco è uscito per Ediesse un libro che lo racconta, opera di Riccardo De Gennaro. Il sottotitolo dice già tutto: La rivolta impossibile.

Lo leggerò, sperando di ritrovarci le emozioni che a suo tempo mi destò la Vita agra di un anarchico, scritta da Pino Corrias per l'altro, per Luciano Bianciardi.


giovedì 7 luglio 2011

Perché sono sparite le vacche di Nuova Delhi

Sono tre miliardi e mezzo. Sono più giovani di noi, lavorano più di noi, studiano più di noi. Hanno più risparmi e più capitali di noi da investire. Hanno schiere di premi Nobel della scienza. Guadagnano stipendi con uno zero in meno dei nostri. Sono Cina, India e dintorni. Cindia non indica solo l'aggregato delle due nazioni più popolose del pianeta... 

Sapete, l'immagine che più mi ha colpito tra le tante evocate da Federico Rampini nel suo L'impero di Cindia? Non quella straordinaria Silicon Valley indiana che è Bangalore. Non la cappa di smog su Pechino. Ma le vacche di Nuova Delhi. O meglio, le vacche che sono sparite da Nuova Delhi.

Figuratevi che pensavo che girassero indisturbate perché sacre. Invece erano semplicemente vacche abbandonate dai loro proprietari perché ormai improduttive. Sono sparite non perché le hanno fatte fuori - sempre sacre saranno - ma perché hanno trovato il modo di restituirle ai loro proprietari. Ci sono riuscite assegnando a ognuna di esse un microchip in grado di identificarle e di "riportarle a casa". Un po' come le vetture immatricolate.

Insomma, la vecchia India e le nuove tecnologie. Un mondo che arriva da lontano ma che cambia in un modo che nemmeno abbiamo idea. Perché poi, rimanendo in India, l'immagine è ancora quella di Calcutta come la Città della gioia di Madre Teresa. Solo per dire.

Meno male che ci sono libri come questi, che ci liberano da ciò che ancora ci viene naturale pensare. Per  indicarci il futuro: quello in cui il dragone e l'elefante si apprestano a riconquistare il posto che appartenne a loro per millenni.

Il loro futuro, il nostro futuro. Cominciare a capirlo è già qualcosa.

lunedì 28 marzo 2011

Quando le biblioteche sono prese a cannonate

Lo spiega bene Gian Antonio Stella in Negri Froci Giudei & Co. L'eterna guerra contro l'altro:


Uccidere la memoria è essenziale, per chi vuole reinventarsi la "sua" storia

E poichè le biblioteche sono luoghi che custodiscono la memoria - e quindi le radici, l'identità, la profondità e le ragioni per il futuro di un paese - le biblioteche a volte fanno paura. Le biblioteche diventano obiettivo militare, problema da cancellare, fastidio da sopprimere.

Tra un po' saranno passati 20 anni dall'assedio di Sarajevo. E lì le milizie che volevano annientare la città della convivenza multiculturale e multireligiosa fecero di tutto per distruggere la sua grande biblioteca. Per giorni usarono bombe al fosforo, poi spararono sui vigili del fuoco che cercavano di intervenire.

Dall'antica Cina all'Alessandria dei califfi le biblioteche hanno continuato a bruciare. Più o meno per le stesse ragioni con cui Hitler fece appiccare il fuoco ai libri raccolti sulla piazza di Berlino:

Siamo dei barbari, ed è ciò che desideriamo essere

Mi fa riflettere questo. Tranne pensare che poi ci sono diversi modi, per cancellare le biblioteche. Modi civili, anche. Non con le fiamme, ma semplicemente chiudendo il rubinetto. Strangolandole per mancanza di fondi. Risultati garantiti, comunque.


sabato 14 novembre 2009

Tornando a quella volta a Shangai

More about Montecuccoli 1937-38. E' un libro particolare, Montecuccoli 1937-38, un libro che non ti aspetti, che non sai nemmeno come classificare. Quando ne ho chiuso l'ultima pagina ho avuto qualche difficoltà a riporlo in uno scaffale piuttosto che in un altro: sta tra i libri di viaggio o tra quelli che, in maniere diverse, sono impastati di memoria (ebbene sì, io i libri li ordino così, datemi pure di pedante)?

La cosa certa è che non sbaglierei, in entrambi i casi.

Perché nel libro di Carla Casazza c'è questo e anche altro. Perché contiene tutto questo la storia della Montecuccoli, la nave da guerra italiana che negli anni Trenta salpò verso i mari più lontani segnalati dalle mappe dell'esotismo e delle avventure coloniali. Perché la destinazione della sua missione era la Cina, investita da una guerra dimenticata - eppure gravida di conseguenze molto importanti per tutto l'Estremo Oriente. Perchè su quella nave c'era anche suo nonno Aroldo, e quindi raccontare questa storia nella Storia è fare i conti anche con la memoria privata, quella che comunque sia spiega un pezzo di te.

C'è tutto questo, in un libro che spiazza e che appunto riesce difficile classificare: uno ci si può solo immergere, lasciandosi magari affascinare dalle descrizioni della vecchia Shangai o dalle tante foto d'epoca, viaggio nel viaggio, viaggio per immagini.

mercoledì 29 luglio 2009

Internet muove la Cina

Da Internazionale un bell'articolo su come la Rete può smuovere anche un paese come la Cina, aprendo crepe inimmaginabili e portando in dono la sorpresa di opinioni perfino diverse... Non solo messaggini, su Internet, ma anche i semi di una nuova società civile...

Internet muove la Cina

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La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

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