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venerdì 29 novembre 2019

Se ti ritrovi compagno di cella del boia nazista

Se ben ricordo - dissi, inserendomi in quel tranquillo flusso di parole - a quel tempo, sui territori di Leopoli e di Ternopil' esistevano degli agglomerati di ebrei raccolti in ghetti e cammpi di lavoro. Se ne è mai occupato personalmente?

Stroop storse la faccia e parve lievemente agitato ma, quando ripetei la domanda, rispose affermativamente.

Giornata di pioggia, giornata uggiosa. Su Repubblica ho appena finito di leggere delle indagini su un tentativo di costituzione di un partito neonazista in Italia. Non riesco a togliere gli occhi dall'intervista a uno dei protagonisti, madre di famiglia e impiegata in uno studio contabile, che pare ci tenga a proclamarsi sergente di Hitler. Per lo meno non grida all'equivoco. Ad Auschwitz - pontifica - c'erano piscina, teatro, cinema. Non è andata come la raccontano.

Giornata uggiosa, giornata di brutti pensieri. Per levarmi di torno questa intervista sono finito dentro un libro che è stato dimenticato troppo alla svelta. Conversazioni con il boia di Kazimiers Moczarski (Bollati Boringhieri). Non fatevi depistare dal titolo e tanto meno dal nome dell'autore: è una lettura appassionante. Strano che, a quanto almeno mi risulta, non ci abbiano tirato fuori un film. 

E' anche una storia incredibilmente vera. Durante la guerra Moczarski ha combattuto i nazisti, solo che l'ha fatto militando in formazioni non comuniste. Una volta sconfitto Hitler la storia in Polonia ha girato velocemente e anche lui è diventato un nemico. Il tribunale socialista lo ha condannato a morte e ora attende il suo destino. Ignoro se per caso o per una qualche singolare volontà si trova a dividere la cella con un criminale nazista: Jurgen Stroop, organizzatore dello sterminio di 550 mila ebrei galiziani e di 71 mila prigionieri del ghetto di Varsavia.

 Vincendo il suo disgusto troverà il modo di farlo parlare. In seguito, liberato e riabilitato, dedicherà la sua vita a scrivere questo libro, che è assai di più di una potente testimonianza. 

Leggerlo mi ha lasciato scosso e sbigottito non meno del processo ad Eichmann nelle parole di Hannah Arendt. Non so se tirare in ballo la banalità del male, concetto per certi versi scivoloso. So che attraverso queste pagine nel male mi sono addentrato. E non appartiene al passato se si ritrova ancora persino nella testa di un'impiegata.

giovedì 7 aprile 2016

Quelle statuine che raccontano la storia di una famiglia

Le eredità non sono mai banali. Che cosa viene ricordato e cosa dimenticato, nel passaggio? L'oblio può perpetuarsi, i possessori d'un tempo esser via via cancellati, ma può verificarsi l'opposto, una lenta accumulazione di storie. Che cosa mi viene tramandato insieme a questi piccoli oggetti giapponesi?

Può succedere: viene a mancare un parente più o meno lontano, vi ritrovate in casa un oggetto o più oggetti che prima forse non avevate mai visto, o avevate guardato solo con sufficienza e distrazione. Cose che erano mute e che ora cominciano in qualche modo a parlarvi. C'è perlomeno una vita, quella del parente defunto, che in qualche modo viene richiamata. Ma cos'altro c'è dietro?

Figurarsi se non è solo un oggetto che arriva nelle vostre mani, ma un'incredibile collezione di antiche statuine giapponesi, non più grandi di una scatola di fiammiferi, raffiguranti divinità, animali, personaggi di ogni tipo. Figurarsi se attraverso di esse si può ripercorrere la storia non solo di un vecchio eccentrico zio che ha vissuto in un altro paese, ma le vicende di un'intera famiglia.

E' quello che viene splendidamente raccontato in Un'eredità di avorio e ambra di Edmund de Waal (Bollati Boringhieri), libro straordinario, le cui 400 pagine ho divorato nel corso di un viaggio - andata e ritorno - tra Firenze e Bari. Pensare che qualche mio conoscente l'aveva trovato un po' faticoso, forse prolisso....

Niente di tutto questo. Verrebbe da dire che questa è una saga famigliare come solo i grandi romanzi. Generazione dopo generazione, in effetti, si srotola la storia della famiglia Ephrussi, ebrei di Odessa che con il commercio di cereali sono diventati tra i più potenti banchieri d'Europa. Formidabile l'ascesa: favolose residenze a Parigi e Vienna, il titolo di baroni, la migliore arte dell'Ottocento, Degas e Renoir compresi, che entra nei loro salotti. Affari, mecenatisimo e conversazioni con Proust. Formidabile l'ascesa e spaventosa la caduta, con Hitler e le leggi razziali.

Anche solo per questo un libro da raccomandare. Eppure al centro della vicenda, vera spina dorsale della narrazione, non sono le vite degli Ephrussi, ma quelle statuine giapponesi, che passano di mano in mano, cambiano città e collocazione, accumulano ricordi.

Io - dice nelle prime pagine l'autore - voglio scoprire quale rapporto ha legato questo oggetto di legno che mi sto rigirando tra le dita - duro, semplice solo all'apparenza, giapponese - ai luoghi che ha attraversato.

Anche questo un viaggio. E un viaggio, davvero, con occhi nuovi.

martedì 15 marzo 2016

Siamo stati via: storia giapponese nell'America dopo Pearl Harbour

Ogni tanto si fermavano per chiedere a nostra madre dove eravamo stati. "E' da un pezzo che non si vi si vede", potevano dire, oppure: "Sono passati secoli" - e lei alzava la testa e rispondeva solo "Oh, siamo stati via".

Siamo stati via: forse è proprio questo il vero titolo di un romanzo breve per pagine, straordinario per intensità quale Quando l'imperatore era un dio di Julie Otsuka (Bollati Boringhieri). Per me non una sorpresa solo perché di questa autrice avevo già letto lo splendido Venivamo tutte per mare, di cui ora questo libro rappresenta il seguito ideale.

Insomma avevo già incontrato le giovani donne giapponesi che avevano lasciato le loro case e attraversato il Pacifico per sposare uomini che nemmeno conoscevano - matrimoni per procura e per interesse - in un'America che non era solo un altro continente, era un altro mondo. La loro voce collettiva, forte e vibrante, è ora sostituita da una prima persona dalla parola dolce, sommessa, segnata dal ricordo. Ed è attraverso questa parola che si racconta cosa successe a una di quelle donne - e a tutti i giapponesi di America - dopo Pearl Harbour.

Con la guerra quegli immigrati e quei figli di immigrati divennero anche i nemici sotto casa. Ogni certezza andò giù come un castello di carta. Il loro destino fu la deportazione. Anni senza lavoro, lontani da casa e dagli affetti. Anni in cui furono a tutti gli effetti cancellati dalla vita del loro paese.

Una pagine triste della storia americana. Eppure raccontata con una singolare delicatezza, con una sensibilità orientale mescolata alla lezione della narrativa americana.

Sobrietà e dolcezza. E la forza dei legami familiari, la tenacia delle madri, la capacità di meraviglia dei bambini, oltre tutto, anche oltre l'indifferenza di chi sapeva, doveva sapere. 

domenica 11 gennaio 2015

A venire improvvisamente viste come il nemico


Da un giorno all'altro, i nostri vicini cominciarono a guardarci in modo diverso. 

Forse era la bambina che non ci salutava più dalla finestra della fattoria in fondo alla strada. O forse i clienti di vecchia data che scomparivano all'improvviso dai nostri ristoranti e negozi. Oppure la nostra padrona, la signora Trimble, che un mattino ci prese in disparte mentre passavamo lo straccio in cucina e ci sussurrò all'orecchio: "Tu sapevi che stava per scoppiare la guerra?"

Le signore del club cominciarono a boicottare le nostre bancarelle di frutta, perché temevano che la merce fosse avvelenata con l'arsenico. Le assicurazioni ci cancellarono la polizza. Le banche ci congelarono il conto. I lattai smisero di consegnarci il latte a domicilio.  "Ordini dell'azienda" ci spiegò un lattaio sull'orlo delle lacrime. 

I bambini ci lanciavano un'occhiata e scappavano come cervi spaventai. Le vecchiette, quando incrociavano i nostri mariti, si bloccavano sul marciapiede con la borsa stretta al petto e gridavano: "Sono arrivati!". 

E anche se i nostri mariti ci avevano avvisati - "Hanno paura" - non eravamo comunque pronte. A venire improvvisamente viste come il nemico.

(da Julie Otsuka, Venivamo tutte per mare, Bollati Boringhieri)

mercoledì 7 gennaio 2015

Dal Giappone all'America, le donne arrivate dal mare

Ma sono solo dicerie, non è detto che siano vere. Sappiamo solo che i giapponesi sono da qualche parte là fuori, in un posto o nell'altro, e probabilmente non li incontreremo mai più in questo mondo.

Si conclude con questa voce, che non è più quella delle ragazze giapponesi che varcarono il Pacifico per cominciare una nuova vita in America, lo straordinario Venivamo per mare di Julie Otsuka (Bollati Boringhieri), uno dei libri più belli che mi sono capitati negli ultimi tempi. Si conclude con questa voce impastata di garbata rassegnazione, la voce di un'America che intende mettersi in pace con la propria coscienza, facendosi una ragione della sorte dei vicini di casa che da un giorno all'altro sparirono, rimossi e cacciati come il più subdolo dei nemici.

Però prima era loro la voce. La voce delle giovani donne "spose in fotografia", in viaggio dai villaggi del Giappone fino al porto di San Francisco, sbarcate in un mondo che era un altro pianeta, all'inizio del Novecento. Destino di mogli deciso a distanza, che sul ponte di una nave si sono scambiate speranze e fotografie. La voce di immigrate in una terra straniera in cui quasi niente andrà secondo le attese, con mariti dispotici e assenti, lavori umilianti, parole sottratte da una lingua incomprensibile.

Eppure anche figli che saranno messi al mondo, abitazioni per le quali si conquisterà decoro e persino qualche agio, gente che finalmente comincerà ad accorgersi di loro, fosse solo per scambiare un saluto per strada.

Fino al disastro di Pearl Harbour e alla decisione del governo americano di considerare tutti i cittadini americani di origine giapponese un pericolo, potenziali nemici da neutralizzare subito. Un taglio chirurgico e via: un mondo nel mondo di tutti i giorni amputato e nascosto in campi di detenzione.

Voce, anzi voci, perché il miracolo di questo libro costruito sulle storie vere, su tante testimonianze, è proprio questo. Questa voce - lirica e autentica - impastata di molte voci. Questa prima persona plurale, questo noi in cui è declinata l'intera storia. Questa storia che in realtà sono le storie. Questo noi costruito pezzo a pezzo con le storie di ciascuno.

Da leggere assolutamente, anche per riflettere su altre amputazioni della nostra storia.

giovedì 16 febbraio 2012

La dolce vendetta di Elizabeth

Elizabeth von Arnim scrisse 21 romanzi, ebbe due mariti, un conte tedesco oppressivo e un conte inglese vendicativo, cinque figli che non le diedero grandi soddisfazioni, un certo numero di amanti e di amatissimi cani....

Che bella, la pagina che Natalia Aspesi, su Repubblica, dedica a Elizabeth von Arnim, donna che nacque in Australia, morì negli Stati Uniti, ma visse in Germania, Inghilterra e altri paesi; donna libera e irrequieta, grande scrittrice, a cavallo tra Ottocento e Novecento.

La sua storia è anche la storia di quanto sia stato difficile per le donne strappare non solo il diritto al voto, ma anche il loro posto nella letteratura. Scrive Natalia Aspesi:

Scrivere allora era l'unica forma di creatività femminile appena tollerata, e le scrittrici venivano spesso considerate creature sospette, poco raccomandabili, anche ridicole, almeno secondo la stampa satirica. Molte autrici sceglievano di tutelarsi, nascondendosi dietro un nome maschile...  Dopo furibondi litigi domestici, quella che poi avrebbe scelto di firmare i suoi ventun libri come Elizabetg von Arnim, ottenne dal marito il permesso di pubblicare la sua prima opera, a patto che risultasse di anonimo autore, in modo da rendere impossibile identificarla per non macchiare il glorioso stemma di famiglia.

Quel libro era Il Giardino di Elizabeth e ha rappresentato la più deliziosa delle vendette. Perché ancora oggi viene pubblicato e letto - in Italia lo ha fatto Bollati Boringhieri - e sulle sue pagine è possibile scoprire questa scrittrice ironica, spregiudicata, perfino spietata nel mettere in croce una società boriosa, superficiale, vecchia, ingiusta.

Del marito e del suo glorioso stemma di famiglia oggi non si ricorda più nessuno.... la vendetta più deliziosa è anche quella che si serve fredda e si consuma nel tempo.

giovedì 8 luglio 2010

Le vacanze nel Baltico della signora Elizabeth

Su una splendida isola del Baltico un giorno arriva Elizabeth, per un viaggio lento a piedi e in carrozza, in compagnia solo del cocchiere e della cameriera. Un viaggio che ai tempi - siamo all'inizio del Novecento - solo poche donne, e notevolmente emancipate, avrebbero messo in programma.

Non mancano davvero i motivi di fascino, in questo Elizabeth a Rugen, pubblicato da Bollati Boringheri: le attrazioni di terre e mari del Nord che aiutano a ritrovare una dimensione più genuina, le descrizioni di un turismo di altri tempi ma già decisamente petulante e aggressivo, lo spaccato di un certo tipo di società colta, mondana, elegante...

Comincia come un diario di viaggio, ma poi il libro diventa ben altro, dopo il colpo di scena dell'incontro con una cugina persa da diversi anni e poi con il marito di quest'ultima. Crisi coniugali, passioni intellettuali, disavventure varie segnano un itinerario dove non manca mai l'arguzia tipica di certe signore di cultura britannica di altri tempi.

La Von Arnim, ricordiamolo, è la stessa che ha scritto Un incantevole aprile, libro da cui anni fa venne tratto un film gioiellino.Le sue qualità emergono anche da queste pagine: una lettura non imprescindibile, ma piacevole, curiosa.

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...